POEMA DI LUCIFERO
Di Mario Rapisardi
(canto primo)
Dio tacea da gran tempo. Ai consueti
Balli moveano in ciel gli astri, e con dura,
Infallibile norma albe ed occasi
Il monotono Sol dava alla terra.
Reddían le nevi ad imbiancar le spalle
Del tremante dicembre; april venia
Col suo manto di fiori; arida e stanca
Movea la bionda està giù da’ falciati
Campi a cercar le vive onde marine;
E, coronato il crin d’edra e di poma,
Scendea l’autunno a ruzzar vispo e snello
Fra l’accolte alpigiane, e pigiar l’uve
Romoreggiando nei capaci tini.
Tutto seguía così l’alte, immutate
Leggi de la Natura, e nulla avea
Pensiero o senso del tacente Iddio.
Da fiero gel, da sacro orror comprese
Furono allor le vostre anime, o biechi
Zelatori dell’are; e quando ai vani
Scrigni saltar vedeste ambiguo e scarso
L’obolo di san Pietro, ed ozíose
Vagar pe’l mondo, qual gregge digiuno,
Le scornate Indulgenze, orridamente
Su le madide tempie si rizzarono,
Come ad istrice, i crini, ed agitato
Tre volte e quattro tentennò il tricorno
Su la sacra tonsura. Un disperato
Urlo s’alzò dai congiurati petti:
— La fede muore! O Dio, fulmina e sperdi
Gl’increduli mortali! —
Udì tal grido
Lucifero, e balzò. Sedeangli intorno
Il silenzio e la morte; oscuramente
Strisciavan su la sua fronte immortale
Strane larve di sfingi e di chimere,
Ed ei, solo com’era, in mezzo a tanta
Morte la luce e l’armonia sentiva.
— Qui in eterno starò? Favola indegna,
Senz’opra e senz’amore io che del cielo
Per istinto d’amor spregiai la vita?
No, si torni alla terra! Un nuovo io sento
Spirto d’amor, che mi discorre il petto:
Santo auspicio è l’amor. L’ultima prova
Tentiam; l’ora è propizia: assai già sono
Su la terra i miei fidi; uom fatto anch’io
Amerò, soffrirò, correrò il breve,
Travaglioso cammin d’un uom mortale,
E, redento dall’opre e dall’amore,
Recherò a l’uom salute e morte a Dio. —
Così l’Eroe parlava, e i circostanti
Baratri tenebrosi si agitavano,
Qual per vigor di sotterraneo foco
Il sen cupo del mar. L’ali di gufo,
Il piè forcuto e la bovina fronte
Mutò d’un tratto il favoloso iddio;
E dai lombi gagliardi e da le spalle
Le fuliggini tèrse e la stillante
Cispa dagli occhi affumigati e loschi,
Tutt’uomo apparve, e radiò dal volto
L’orgogliosa beltà d’un dio mortale.
Tramutato così, dal ferreo trono
Balzò fremendo, il guardo mosse in giro,
Ed esclamò: — L’infernal regno è sciolto;
Il mio regno è la terra! —
Ecco il soggetto
Del canto mio; classico o no, ne affido
L’occulto senso a voi, vergin consesso
D’oculati Aristarchi. A voi diè Giove
La diva arte in governo e i mal concessi
Talami delle Muse; e se agl’incerti
Occhi vostri si niega il delicato
Delle Grazie sorriso e la suave
Delle sacre fanciulle ispiratrici
Candida voluttà, dolce vi sia
Star su la soglia a noverar gli ardenti
Amplessi e i baci insazíati, ond’hanno
Suon di celesti melodie le chiuse,
Odorate cortine, ed immortale
Vita in terra gli eletti: in simil guisa
Sta su la porta dei gelosi arèmi
L’occhiuto stuol degli scemati servi,
Mentre il figlio d’Osmàn deliba il fiore
De le belle Circasse. Alto e solenne
Officio è il vostro, e non indarno io chiamo
Il vostro nume auspice a me: voi soli
Le riposte misure e voi sapete
Le leggi e il rito, onde s’ottien l’impero
Delle occulte bellezze, e qual più giova
Tener modo e governo in sul tentato
Grembo dell’Arte, e quando ed in qual guisa
Toccar si dee la tuba o la chitarra,
E metter l’ali al dorso e dar di sproni
Al pegaso spumante, o nel tenace
Fren moderarne i perigliosi lanci.
Pèra colui, che al necessario giogo
Prova sottrar la temeraria nuca,
E va a ruzzar licenzioso, come
Selvatico puledro, per li campi
Della sfrenata fantasia! L’immensa
Ira vostra ei patisca, e tutto a un punto
Perda il pazzo sudore, onde credea
Giunger primo in Parnasso. Armati ed irti
D’alfabetiche cifre, unitamente
Sorgete, e contro a lui, contro a lui solo
Tutti dal sapíente arco scoccate
I rettorici strali; onde il meschino,
Travagliato dall’onta e dal rimorso,
Egro ed insano a riparar s’affretti
Fra le mura d’un chiostro; o, se più degno
Sia di spregio che d’ira, alta, pesante
Sul suo capo ostinato onda si aggrevi
Di silenzio e d’oblio. Rigidamente
Gli sfileran dinanzi ad una ad una
Le sdegnose gazzette; inesorate
Si chiuderan su la sua faccia smorta
D’Academo le sale; e allor che stanco
D’urlar strambotti contro al secol ladro,
Povero e solo abbraccerà la morte,
Non fia che le supreme ore gli allegri
L’aureo rabesco d’un qual sia diploma.
Saldo così su cardini d’acciaro
Il tron vostro s’imperna, e vita e nome
Dal cieco umano folleggiar traete.
Tale in tiepide stalle, in fra le zampe
D’ardimentoso corridor, ritrova
Cibo e sollazzo il piceo scarabèo;
E, quando fra le storte ànche ghermisce
Il picciol globo del dorato fimo,
L’ali spiega da terra, e s’alza a sghembo
A emular de l’audace aquila il volo.
S’incarnò dunque il mio demonio. In terra
Sorrideva l’aprile; entro al suo petto
Sorrideva l’amor. Sopra la cima
Del Caucaso famoso, onde s’appella
La giapetica stirpe, egli fu visto
Venir come in un sogno, e star di contro
All’aurora nascente. Un vigoroso
Spirito, una feconda aura fremea
Per le fibre del mondo, e più lucenti
Dava al ciel gli astri ed alla terra i fiori:
Gli dan nome d’amor l’anime accese
De’ parlanti mortali; ed ei su tutte
Anime impera, e con perpetua legge
Il mar penetra e i monti e la selvaggia
Cute degli olmi e il petto aspro del tigre,
Chè dal sole egli è nato, e a par del sole
Con secreta armonia mesce e ritempra.
Era per l’aria un fluttuar d’ardenti
Atomi, uno splendor novo, una vaga
Musica di fragranze e di parole
Misteriose. Le stupite ciglia
Volse l’eroe per l’amorosa luce,
E una dolcezza non provata mai
Di lagrime e di sogni il cor gli prese.
Ma poi che in lui l’alto stupor primiero
Al fier proposto e alla ragion diè loco,
L’incredul’occhio ai firmamenti spinse,
— E, dove sei, sclamò, tu che presumi
Regnar l’anime eterno? Alzati, e pugna:
L’uman genio ti sfida! —
Il pugno strinse
Superbamente, erse la fronte, e stette
Il fulmine aspettando, o la risposta.
Tacito intanto dal soggetto mare
S’apre l’indifferente occhio del sole
Su le cose create, e si ridesta
Giù per le valli intorno e la pianura
Il lieto suon delle fatiche umane.
— Sorgi, la terra è tua, proruppe allora
L’inclito pellegrin, sorgi, o gagliarda
Possa dell’uomo! Assai d’ombre e di sogni
Preda al mondo tu fosti; e dal divino
Pugno di fango, onde t’han detto uscito,
Non ti redense ancor l’anima audace,
Nè l’industria natia, nè la sventura
Tua perpetua compagna. E che ti valse
Al par di te, trar dalla creta i Numi,
Se al cospetto dei freddi simulacri
Dechinasti il ginocchio, e la superba
Libertà del pensier serva fu fatta
Di codarde paure? Or sorgi ed osa:
Il tron del mondo è tuo; numi e fantasmi
Son fuor della natura, e non ha vita
Tutto che il vol della ragion trascende.
A che tra larve inesorate e vane
Cercare un che t’aggioghi e ti spauri,
Se muta al cenno tuo trema e si prostra
Ogni cosa che vive? Ama e combatti!
L’opra dell’uomo è amor, vita è la guerra,
Tuo regno è il mondo, e il solo iddio tu sei! —
Tacque, ed all’alto favellar commosse
Tremaron l’aure, ed echeggiò d’intorno
La titanica rupe. Era nel monte
Negra, profonda, solitaria, intatta
Da umane orme e dagli astri una spelonca
Di bronchi irta e di sassi; orrido in giro
Vi fan murmure i venti, e tra’ selvaggi
Fianchi, qual di commosse ali e di strida,
Cupamente rintrona; irati al verno
Vi piomban da l’opposta erta i torrenti
Scatenati dai ghiacci, e a balzi, a salti
Mugolando spumeggiano; ma quando
Giungono al vallo dell’immane uscita,
Perde l’onda il nativo impeto, e pigra,
Torba, maligna s’impaluda, e manda
Pestiferi miasmi a chi la spira.
Quivi, al fin del suo dir, contenne i passi
L’umanato demonio, e con feroce
Piglio di scherno a contemplar si stava
Il desolato loco e il ciel sereno,
Quando un suon di sospiri e di parole
Dal vacuo sasso uscì. Porse l’orecchio,
E s’appressò l’eroe, quanto il permise
L’angusto varco e la stagnante gora,
Ed ascoltò:
— Di che perigli in cerca,
Misero! vai? Che illusìon, che vano
Talento è il tuo di preseguir l’impresa,
Ch’io già per tempo incominciai, spregiando
La tutta ira del ciel? Stolto, che tardi
Son fatto accorto, e di Prometeo il nome
Mal mi dieron le genti! E che non feci,
Che non diss’io per questa al pianto nata
Cara stirpe dell’uom? Cieca ed ignuda
Giacea nel lezzo dell’error, siccome
Belva cibando la caonia ghianda,
E altra legge nel mondo, altro governo
Non sapea che l’istinto: ad altri ignota
E a sè stessa giacea, spregio e vergogna
Delle cose create, e le create
Cose, ignara di tutto, iva mescendo
Con fallace giudicio. Ahi! qual dei numi
Qual mai n’ebbe pietà, se non ch’io solo
Io sol più che a me stesso? E non cotanto
Mi punse il cor la fulminata fronte
Dei fratelli Titani, e non di sdegno
Arsi così per l’usurpate sedi
Del fuggiasco Saturno e pe’ negletti
Consigli miei, quanto d’affetto e d’ira
Destommi in cor la tribolata sorte
Degli umani infelici. Ardito e solo
Contro a’ Numi io mi stetti, e alzai la voce
Contr’esso Giove, allor che ad uno ad uno
Sprecava i doni al vegetale e al bruto,
E all’uom, povero tanto, altro conforto
Non largía che il morir. Tutto ebbe allora
L’uomo infelice il mio favor: sol io
Gli svegliai l’intelletto, io di gagliarde
Armi e d’abili ingegni e di civili
Comunanze lo instrussi, io sotto al trono
Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi
Non minor d’alcun altro. Ahi! qual mi venne
Premio da ciò? Non che n’aver mercede,
L’invida rabbia arsi di Giove, e degno
Tenuto fui d’ogni più cruda ammenda,
Quasi reo di delitto. A questa roccia
Già Vulcan m’inferrò, tra questi anfratti
Mi profondò la folgore nemica,
E perpetuamente alle voraci
Cagne del ciel fatto son cibo vivo
E favola del mondo. E nè querela
Movo di ciò, chè il querelar non giova
A chi esente è di morte, e inesorata
L’ira è dei Numi, e inesorato al pari
L’orgoglio mio; ma qual benigno frutto
Colser giammai di mie fatiche tante,
Del mio tanto soffrir le sconsolate
Proli del mondo? Ahimè, che sòrte appena
Dalla tenebra antica, all’infinita
Luce del Ver schiusero gli occhi, e poco
Poco a lor parve ogni più grande acquisto;
Tal che, tolte dal sonno, ai sogni in preda
Diedersi tutte, e del saper la sete
Arse in loro così l’alma e la vita,
Che a precoce vecchiezza e ad immatura
Morte fûr sacre e a maledir condutte
L’arduo mio dono e il sagrificio mio! —
— Figlio di Temi, a lui rispose irato
L’inclito pellegrino, e che perigli
Fantasticando vai? Nè vil fanciullo,
Credi, io mi son, che si rivolta in fuga
Alla prima minaccia, o nauta imbelle,
Che trema ogni lieve anima di vento,
E si chiude nel porto. In questa eterna
Rupe confitto, in verità, gli eccelsi
Fati ignori dell’uomo; e perchè sei
Carco di mal, di falsi mali agli altri
Indovino ti fai. Lascia, deh, lascia
Questi vani compianti, e fuor di modo
Non ti strugger di noi, se pur non t’hanno
Tolto il senno davver le tue sciagure.
Però sappi, e t’acqueta: opra gagliarda
Tu cominciasti, ed io, se il ver discerno,
La compirò. Non già il saper, t’accerta,
Reso l’uomo ha quaggiù misero tanto,
Ma la nemica del saper, la cieca
Credulità; di bieche ombre e d’inganni
Essa vive nel mondo, e si fa gioco
Dell’umana ragion; ma quest’azzurro
Cielo e il tuo sommo sagrificio io giuro,
Ch’ella è presso a morire, e arbitra in terra
La ragion sederà; largo e securo
Spiegherà il vol su’ mal temuti errori
Il redento intelletto; e allor che tutto
Ciò che vuole e che può senta e conosca,
Questo ignaro di sè dio della terra
Pago fia di sè stesso, ed oltre il vero
A cercar non andrà larve e paure! —
305Disse, e partía; ma lo rattenne un detto
Del pazíente Prometèo:
— S’hai grande
E pari, ei disse, agli alti accenti il core,
Deh, non partir così, quando m’hai dèsto
Tale un desio, che allo sperar somiglia.
Molto io soffersi e soffro, e assai maggiore
Del mio soffrir fu la speranza, il tempo
Che co’ fulmini suoi Giove sedea
Sovra il trono d’Olimpo, e sul mio capo
Rovesciava ogni mal. Crescea cogli anni
E col disprezzo mio la sua paura
E la sua crudeltà, però che immite
Più chi regna divien quanto più trema,
E dei fiacchi è virtù l’esser crudele.
Solo di tutti io l’avvenir vedea
Serenamente, e della sua caduta
Presapeva il destin. Godi dei tuoi
Vani, aerei rimbombi, io gli dicea,
O spensierato usurpator del cielo;
Tal dall’Inachia stirpe uno stupendo
Mostro verrà, che spezzerà il tuo scettro
Come fil non ritorto, e me da questi
Ceppi redimerà; nè ti varranno,
Credi, i fulmini allor, chè assai più salda
Sarà del fulmin tuo la sua possanza.
Forse Giove non cadde? Ahi! ma il secondo
De’ vaticinj miei sperdeano i venti!
Qui fra’ ceppi io rimasi; ad un tiranno
Tiranno altro successe, e meco avvinto
Restò preda agli affanni ogni uom mortale.
Or che parli tu mai? Cadde a buon dritto,
E dopo assai di mali esperimento,
Ogni speranza mia; nè agevol cosa
È il ridestarla, ed utile per certo
Non mi saría, quando più tetro e fiero
Sembra il dolor cui la speranza illuse.
Pur, se grave non t’è l’esser pietoso
A chi tanto per l’uom male sostenne,
Al mio partito interrogar rispondi:
Uom mortale sei tu? Qual t’assecura
O responso, o destino, onde presumi
Condurre a fin tant’onorata impresa?
Non t’illude il voler, che dei più saggi
Tal tiranno si fa, che par destino?
Fidi in altri, o in te stesso? E se in te fidi,
Tal possa hai tu, che al grande ardir s’agguagli?
E se fondi in altrui le tue speranze,
Tanta han virtude ed armonia le genti,
Che, fatto un brando sol d’un sol consiglio,
Al trionfo del ver movan secure?
Qual che tu sii, svèlati a me: qui sconto
L’immortal vita inutilmente, e assai
Tempo a soffrire e ad ascoltar m’avanza. —
— Ben m’è lieve appagar, l’eroe rispose,
La discreta domanda. Uom saggio, in vero,
Io non terrò chi lusingato e spinto
Da una rosea speranza ad ardua impresa,
Pria non libra sè stesso, e con sottile
Accorgimento non prevede e scerne
I possibili eventi, anzi dà mano
Subita all’opra, e ciecamente ai casi
Gitta sè stesso e dell’impresa il fine.
Ma perchè a tal tu non mi assembri, io tutte
Ti dirò le mie cose e l’esser mio,
Quando a colui che tanti uomini e tempi
Vide, e al fato durò con alma invitta,
Grato è ridir ciò che di gloria è degno. —
Disse, e in cima alla rupe erma e selvaggia,
Pensieroso si assise. Alto d’intorno
Spaziava il silenzio, e in larghi giri
Un’aquila le azzurre aure fendea.
Anno MDCCCLXXXVI
.