CULTO DI CERERE - DEMETRA
DEMETRA GRECA
"Del fiume assiro grande è la corrente, ma molte sono le impurità
e molto fango trascina nell'acqua.
Non da ogni parte a Demetra
portano acqua le api,
ma quella che pura e incontaminata sgorga da una sacra fonte,
piccola stilla, limpidezza estrema." (Callimaco)
Demetra era dea triforme, nei suoi aspetti di Erinni furiosa per la perdita della figlia, e di Louisa, amante o benevola per la figlia ritrovata. Il terzo aspetto era Ecate, dea lunare dei morti, aspetto ctonio, indispensabile nell’iniziazione ai Sacri Misteri. Fu venerata come Madre Terra; ma mentre Gea rappresentava l'elemento primordiale e Rea la potenza generatrice, Demetra era la divinità della terra coltivata, la Dea del grano. Con il dono dell'agricoltura, fondamento di civiltà, Demetra dette agli uomini il vivere civile e le leggi. Nel culto, Demetra era strettamente legata alla figlia Persefone rapita da Ade, e nella disperata ricerca della figlia, la Dea abbandonò l'Olimpo e rinunciò alle sue funzioni divine, tanto che la terra deperì e smise di dare frutti finché la figlia non le venne resa, almeno per un periodo dell'anno. Sono chiari i riferimenti ai cicli della natura, le stagioni e i raccolti. Ma ciò non spiega i Sacri misteri di Samotracia. La festa dei Mysteria ad Eleusi si svolgeva due volte ogni anno e durò dal XV sec. a.c. al 396 d.c. per circa ben 1000 anni.
Inno omerico a Demetra:
Felice chi possiede, fra gli uomini,la visione di questi Mysteria; chi non è iniziato ai santi riti non avrà lo stesso destino quando soggiornerà, da morto, nelle umide tenebre.
CORE
Dea greca, nei poemi omerici moglie di Ade, simile a Medusa; a lei, regina dei morti, si rivolgono gli uomini perché le loro imprecazioni abbiano efficacia.
Come figlia di Demetra, Dea della terra apportatrice di vita, e di Zeus o, Poseidone o, secondo altri, di Stige, era una dolce fanciulla che giocava con le Ninfe e cogliere fiori. Infatti Core significa fanciulla. Un giorno però venne fuori dalla terra Ade che la rapì su un cocchio tirato da 4 cavalli e la condusse negli abissi.
Demetra, per sfogare il suo dolore, impedisce alla terra di dare frutti e tutti gli uomini rischiano di perire. Ma Zeus riesce a placare la Dea facendo sì che Persefone possa rimanere con la madre per alcuni mesi dell'anno.
CERERE ITALICA
Il culto di Demetra passò nel territorio italico insieme ai suoi misteri, associandosi all'antica Cerere, con sua figlia Core o Proserpina o Persefone.
Per Diodoro la Dea si è manifestata per prima sul suolo italico, ma in realtà si tratta di Cerere:
Le Dee apparvero per la prima volta in quest’isola e la Sicilia per prima produsse il frutto del grano grazie alla fertilità della sua terra... E infatti nella piana di Lentini e in molti altri luoghi della Sicilia nasce anche ora il così detto grano selvatico. Insomma se si facesse un’indagine sulla scoperta del grano, cioè in qual parte della terra esso sia apparso per la prima volta, è verosimile che si riconosca il primato alla terra più fertile. Conformemente a quanto si è detto, è possibile constatare che le dee che hanno scoperto il grano sono straordinariamente venerate dai Sicelioti.
Diodoro:
Dopo il ratto di Kore, Demetra, poiché non riusciva a trovare la figlia, accese le fiaccole dai crateri dell’Etna, si recò in molti luoghi della terra abitata e beneficò gli uomini che le
offrirono la migliore ospitalità, dando loro in cambio il frutto del grano. Gli Ateniesi accolsero la Dea con grandissima cortesia, e a loro per primi, dopo i Sicelioti, Demetra donò il frutto del grano, in cambio di ciò il popolo di Atene onorò la Dea molto più degli altri, la onorò con famosissimi sacrifici e con i misteri eleusini, i quali, superiori per antichità e sacralità, divennero famosi presso tutti gli uomini... Gli abitanti della Sicilia, avendo ricevuto per primi la scoperta del grano per la loro vicinanza con Demetra e Kore, istituirono in onore di ciascuna delle dee, sacrifici e feste cui dettero il nome di quelle e la cui data di celebrazione indicava chiaramente i doni ricevuti.
Fissarono, infatti, il ritorno di Kore sulla terra nel momento in cui il frutto del grano si trova ad essere perfettamente maturo. Scelsero per il sacrificio in onore di Demetra il periodo in cui si incomincia a seminare il grano. Celebrano per dieci giorni la festa che prende il nome della dea, una festa splendida per la magnificenza dell’allestimento, durante la cui celebrazione si attengono all’antico modo di vita. In questi giorni hanno l’abitudine di rivolgersi frasi oscene durante i colloqui, poiché la dea, addolorata per il ratto di Kore, scoppiò a ridere a causa di una frase oscena.
Cicerone (Verrine) parla di un sacrario a Catania dove:
Nella parte più interna si trovava un’antichissima statua di Cerere, che le persone di sesso maschile non solo non conoscevano nel suo aspetto fisico, ma di cui ignoravano persino l’esistenza. Infatti a quel sacrario gli uomini non possono accedere: la consuetudine vuole che le celebrazioni dei riti sacri avvenga per mezzo di donne sia maritate che nubili.
Ancora Cicerone:
Esiste un’antica credenza che si fonda su antichissimi documenti e su testimonianze greche, che tutta l’isola siciliana sia consacrata a Cerere e Libera. Non è una profonda persuasione, a tal punto da sembrare insito e connaturato nel loro animo. Infatti credono che queste dee siano nate in quei luoghi e le messi in quella terra per prima siano nate in quella terra per prima siano state scoperte, e che Libera, che chiamano Proserpina, sia stata rapita da un bosco degli Ennesi.
LE FESTE
Noi ti celebriamo Demetra
madre di messi
dai seni fiorenti
che ti adagi radiosa
tra docili valli fecondate da fiumi e ruscelli divini
che tutti provengono dall’Amante e Padre
Zeus e Fratello che tutto irradia del lucente
e forte suo seme.
Certo è fatica
per l’uomo
tenere ai tuoi passi assecondare i tuoi fianchi con il lucido aratro
e le miti
bestie possenti
Ma il cuore rigonfia
a vedere le messi rinascere
dal vasto tuo seno nutrimento dell’uomo e di tutti i viventi .........
A te
il canto innalziamo
di trepida lode
(Dall' Inno a Demetra)
Ludi Ceriales - I Ludi Ceriales erano celebrati dal 12 al 19 aprile in onore di Ceres, ossia Cerere, dea italica delle messi. L'organizzazione spettava agli aediles plebeii, ossia da magistrati plebei. L'ultimo giorno si svolgevano anche ludi circenses.
Templum Cereris, Liberi et Liberae - Festa celebrata il 19 aprile in onore di Ceres, Liber e Libera. Si ricordava la costruzione e la dedica del tempio sul colle Aventinus voluta dal dittatore Postumius tra il 495 e il 493 a.C
Santuario di Batalemi a Gela - In un’iscrizione del V sec. a.c. si attesta la segregazione in tende delle donne durante la durata delle feste, e in altri santuari tesmoforici sono state rinvenute tracce di piccoli edifici più arcaici, dimore stabili per tutta la durata delle cerimonie per le donne. Dunque le donne abbandonavano famiglie e case per celebrare i Misteri, il che dimostra un certo grado di residua libertà e rispettabilità d. Nemmeno oggi le nostre donne potrebbero allontanarsi per celebrazioni religiose. I culti demetrii a Siracusa furono tanti, attestati dai molteplici ritrovamenti di Dea con porcellino, fiaccola e cesta, a Enna, dove si pone la sua origine, a Gela, Agrigento, Siracusa. Le cerimonie duravano vari giorni e si svolgevano di notte, vista la onnipresente fiaccolata nelle raffigurazioni di Demetra e Kore e le moltissime lucerne rinvenute nei santuari.
Cerealia - In onore di Cerere si celebravano le "Cerealia", ogni 12 aprile, durante le quali venivano sacrificati buoi e i maiali, ed offerti frutta e miele. Si compivano anche sacrifici per purificare la casa da un lutto familiare.
LE THERMOPHORIE
Ai Thesmoforia erano presenti per lo più donne e le riunioni notturne avvenivano in un sacro recinto (temenos) vicino a un boschetto. Le partecipanti erano spose e madri, mentre le fanciulle erano escluse dagli “orgia”, come si afferma in un frammento callimacheo ma non sempre perché Cicerone (Verrine) parla di un sacrario a Catania dove: Nella parte più interna si trovava un’antichissima statua di Cerere, che le persone di sesso maschile non solo non conoscevano nel suo aspetto fisico, ma di cui ignoravano persino l’esistenza. Infatti a quel sacrario gli uomini non possono accedere: la consuetudine vuole che le celebrazioni dei riti sacri avvenga per mezzo di donne sia maritate che nubili.
Ma cosa erano le "orgia?". Non un'ammucchiata sessuale, impossibile tra sole donne che non potevano essere tutte lesbiche. L'orgia è un abbandono e un'estasi, un rito di invasamento, simile ai riti voodoo, facilitati forse da allucinogeni o bevande alcoliche. Che durante le feste dedicate a Demetra si svolgessero sacrifici e anche un banchetto, è attestato anche dai ritrovamenti archeologici. Nel santuario di Bitalemi sono stati rinvenuti i resti di un focolare con vasellame e ossa di porcellino, VII sec. a.c., e nella parte arcaica del santuario di Iasos, VI sec. a.C., si sono trovate statuette fittili femminili con porcellino, fiaccola, lucerne e piccoli vasi che avvalorano la tradizione per cui nelle Termophorie si eseguisse il banchetto rituale, il pasto sacro, l'Agape. Furono trovate inoltre nello stesso santuario e in quello di Malophoras a Selinunte statue di Cibele con leoncino e con un personaggio maschile con diadema, il paredro della Dea ad essa subordinato; anche nel cerimoniale la donna era elemento principale e più importante delle funzioni religiose.
IL MITO NEI SACRI MISTERI
"L’autunno copre il cielo di veli grigi, e sfuma la nebbia dai monti fino a valle: i confini del mondo si velano di mistero. Sfilano in cielo stormi migratori, e la cornacchia grida dai rami protesi sullo stagno opaco. L’edera rampicante del tempio si carica di giallo e rosso e il merlo saltella nel recinto sacro in cerca dei resti delle focacce. Persefone (o Core) s’è persa nei campi mietuti, e i papaveri giacciono al suolo come sangue rappreso. La giovane sacerdotessa ravviva il fuoco nel sacello, nel tempietto guarnito a rami di quercia, ai piedi dell’erma vuota, dov’era la statua della Madre. Ora l’effigie giace in un antro buio, vegliato dai serpenti e dal lamento della civetta. Demetra, (o Cerere) corre per la terra in cerca della figlia perduta, e alla sua vista fuggono le fiere e le ninfe si coprono il volto. Corre a piedi nudi senza un grido, gli occhi sbarrati e la bocca muta dal dolore. I rovi strappano i bordi della tunica ornata, cadono i nastri al suolo come fiori appassiti. Vaga sui monti e il vento alza la veste come un’ala di corvo, e solleva i capelli come serpi della Medusa. Giunta alla vetta guarda l’aria che ondeggia di caligine e foglie morte, i ruscelli torbidi di fango e i boschi spogliati dal vento. Ansima il petto della Dea come una fiera che rincorre la preda, spacca rabbiosa un ramo secco che rotola in basso, e getta al vento un lungo urlo dolente: “Persefoneeeee!!!”
L’Eco obbediente rimanda il grido su vette e valli; gli animali corrono nelle tane, la terra ha un fremito, nel cielo un fulmine ferisce le nubi gonfie di pioggia, che si vuotano al suolo come mammelle di giovenca. Scende nell’aria un pianto infinito, e il cuore della Dea esplode di dolore: “Persefone, figlia mia, adorata figlia, carne della mia carne, cuore del mio cuore!” L’universo piange con lei, gli animali chinano il muso a terra, gli uomini non s’accoppiano più, i fiori appassiscono, le madri non hanno più latte. La Dea piange e grida, e maledice il ruscello, e i monti, e il bosco, e i campi coltivati, perché tutti interroga e nessuno sa dire dov’è la “piccola Dea”, il frutto delle sue viscere. Demetra maledice il mondo, e le piante non danno più frutti, e gli animali non sgravano più, e i grembi delle donne sono sterili. Non è vero che Zeus l’abbia aiutata, nessun Dio l’aiuta, presi come sono dalle beghe sul dominio degli uomini. Nessuno può aiutare Demetra, se non Demetra stessa. Riprende la corsa, scende negli orridi e nei crepacci, sale sulle vette innevate, passa nei villaggi come un tuono e gli uomini si chiudono in casa. Ricorda quando pettinava i riccioli biondi della “piccola Dea”, intrecciandoli di fiori profumati, quando correva nel bosco tenendo stretta la piccola mano, o curava con foglie e baci le piccole ferite alle ginocchia, e la faceva cavalcare sulle giumente mansuete, o rotolava con lei tra i campi fioriti del foraggio e le messi mature. Nel tempio vuoto della Dea le sacerdotesse levano un coro:
- Il bel volto della Dea Madre è distorto dalla rabbia e dal dolore,
ora Erinni furente, ora Niobe affranta, o Gorgone minacciosa.
Gli dei fingono di non vedere, perché nel dorato Olimpo,
così alto nelle nubi perché non giunga il lamento e la sofferenza degli uomini, nulla deve turbare la pace. Gli Dei non sopporterebbero un dolore così grande. -
Gli uccelli non cantano più, nel sacro sacello il fuoco s’è spento
e neppure la Gran Sacerdotessa può riaccenderlo.
La Dea grida più forte del vento e del tuono: “Persefoneeee!!!!... “ e gli uomini si tappano le orecchie straziate, gli animali ficcano la testa nelle tane per non udire “Persefoneeee!!!!!” Solo gli Dei non hanno un fremito, perché sono sordi da sempre. La Madre non ha più lacrime, il cielo è muto, il tempo sospeso. Sul monte ovattato di neve sente le forze abbandonarla, s’aggrappa al pelo d’un’orsa in cerca della tana invernale. L’animale si ferma e le unghie della Dea disperata lacerano il manto di pelliccia. Scorre un piccolo rivo di sangue, che colora la neve di vermiglio. Demetra chiede in cuor suo perdono all’animale che le strofina il muso sulla veste, senza parlare si comprendono, e per incanto l’una diventa l’altra, un unico essere. Ora il volto della Dea non è più quello, di nuovo purissimo e bello, e negli occhi arde una fiamma. Persefone guarda la tetra prigione, il candido volto è solcato di lacrime, il cuore colmo di terrore. Lei, vezzeggiata dalla più amorosa delle madri, è scaraventata in un buio senza fine, denso d’ombre vaganti, demoni ghignanti, e mostri coperti di sangue. Un regno dominato da un dio oscuro e terribile, che odia vita e gioia: una belva assetata che si nutre della sofferenza e del terrore degli altri. L’ha rapita mentre ornava di papaveri la giovane chioma, col sole dell’ultima estate che spruzzava oro sull’armilla e le fibule d’argento, tenero dono di sua madre. Perché il tempo non s’è fermato, perché sua madre ha allungato la veste che s’era fatta corta, perché la vita non è un’eterna beata infanzia, ed è cresciuta destando la brama della belva? Perché “proprio a lei” è successa questa cosa orribile che le fa maledire la nascita? Il Dio oscuro l’ha spiegato, ed è così orribile che la “piccola dea” vorrebbe morire per non saperlo. Proprio a lei, si, perché non c’è gusto a togliere dal mondo dei vivi chi è già morto per la sofferenza, chi maledice l’esistenza priva di gioia e d’amore, ma a chi desidera e ama la vita lui toglie tutto, solo questo lo compiace. Persefone, (o Proserpina, o Core) maledice la sua immortalità, che le impedisce di morire. Ora Demetra sa: sa che né l’aiuto degli Dei, né le preghiere o i sacrifici degli uomini possono far nulla per lei, ambedue si difendono dal buio del profondo, perché né uomini né Dei sanno della morte. Mortali o immortali che siano, si tengono fuori dal mondo dei morti. Demetra “sa” che Persefone non sta più sulla terra, altrimenti avrebbe risposto attraverso il vento al suo richiamo d’amore. Ora sa: Persefone è nel mondo del Tartaro, nel mondo senza sole né luna, privo di speranza, dove tutto si trasforma in dolore. Accanto al fuoco spento, accoccolate in terra, le sacerdotesse con le vesti brune intonano un Coro:
- Demetra, la Madre, raccoglie le chiome e le annoda come una mortale in lutto, straccia le vesti sotto al ginocchio che non le intralcino il cammino,
il volto è pallido, ma gli occhi ardono come fiamma.
Disegna col sangue dell’orsa, che ora è il suo sangue, un cerchio per terra,
accende un tizzone e lo conficca rovesciato spegnendo la fiamma nel cuore della terra. Siede nel cerchio e mormora parole terribili, che nessuno potrebbe udire senza morirne. -
Persefone vive un incubo senza risveglio, ha freddo e fame, ma non vuole vesti né cibo, perché ogni cosa, nelle tenebre là sotto, sa di dolore, morte e malvagità. Tutto è contaminato. Il Dio oscuro è nebbioso nelle forme, eppure orrido, perché “la piccola Dea” intravede un lucore di squame, un’ombra di corna, a volte invece il pelo irto e ispido, o la coda puntuta, e sempre un lezzo di putredine e marcio. Le offre ghignando ogni cosa: vesti, cibo, gioielli, e ogni volta lo respinge, col terrore che la violenti sadicamente, in un orrore senza fine. In cuor suo invoca il nome della madre, ma Ade, (o Plutone?), che sa ogni cosa, le ripete che alla Dea, come a tutti, mortali e immortali, è interdetto il mondo degli Inferi.
- E se anche le dessi il consenso, - aggiunge con voce di ghiaccio - ella non lascerebbe mai il suo comodo mondo per cercarti nell’Ade. Ora hai solo me. -
Persefone non risponde, perché ha troppa paura, ma è certa, divinamente certa, che sua madre per lei affronterebbe ogni cosa, perché le è più cara di se stessa. Questo le impedisce d’impazzire, un filo di speranza, anche se non sa come sua madre potrebbe trarla da lì, in quel mondo senza uscita, e con un dio così potente che neppure gli dei uniti oserebbero sfidare. Coro delle sacerdotesse:
Demetra mormora antiche parole,
dimenticate da secoli,
parole pronunciate nelle notti senza luna, quando il buio era più buio,
quando i templi non esistevano
e i riti erano nelle caverne e nei boschi.
Quando le sacerdotesse bagnavano la terra
col mestruo mescolato a saliva,
e davano alla Dea la forza d’uscire dalle tenebre. Ora Demetra fa il rito delle antiche sacerdotesse, Demetra fa il rito di Demetra per Demetra,
e sparge in terra il sangue mestruale,
e fa colare la saliva.
La terra ha un tremito,
il suolo vibra paurosamente,
ma la Dea non rompe il rito,
le mani sono artigli,
la pelle dura come corteccia d’albero,
e gli occhi pura fiamma.
Tuonano il cielo e la terra,
si spacca la roccia e appare l’orrida bocca salgono i miasmi della fetida caverna, brulicante di ragni, serpi e pipistrelli.
Persefone non ce la fa più in quella fredda grotta e s’arrischia a vagare, tra ombre che strisciano sui muri e aliti ansimanti. Continua ad andare, nella speranza d’un po’ di pace, d’un luogo ove posare il capo: vorrebbe solo dormire e dimenticare quell’incubo. Vaga a lungo e non sa quanto, perché nel regno c’è un’eterna notte senza luna. E’ sempre più pallida ed essa stessa appare come un’ombra. Spera non veder più l’orrido Dio, e per fortuna non le appare. Sempre più affamata e gelida la vaga per i meandri dell’Ade e si perde, ma che senso ha perdersi in un luogo che è già perduto alla luce degli Dei e degli uomini? Dopo immense caverne e corridoi, anse e cunicoli cechi, scale che scendono su precipizi o salgono contro rocce sbarrate, ponti sospesi nel vuoto e ripidi corridoi, trova uno spazio più aperto, dietro un cancello. I capelli hanno perso lucentezza, i teneri piedi piagati, la gola arida e secca, e dischiude il cancello. Nell’aria caliginosa vede un campo con strani alberi, d’un pallido verde grigiastro, poggia i piedi sull’erba e prova un refrigerio. Un uomo curvo dissoda la terra con la pala. S’avvicina, e lui si dichiara il giardiniere dell’Ade.
- Com’è possibile senza sole? - mormora la “piccola dea “ allo stremo delle forze, il contadino non risponde ma va all’albero più vicino, stacca un frutto lo apre e glielo porge.
- Vuoi avvelenarmi? - chiede in un sospiro, e l’altro dice che chi è dedito alla terra non può desiderare il male. Persefone annuisce, anche sua madre ama la terra, e il suo cuore è pieno d’amore per tutte le creature. Allunga la tenera mano e accetta il frutto che brilla di semi di granato. Lo porta alle labbra.
Demetra percorre il corridoio dell’Ade e i morti gelidi le corrono incontro, le chiedono panni per scaldarsi, e la Dea pietosa si toglie le vesti e le dona, senza fermarsi. Sempre più numerose le torme dei morti le balzano attorno ed ella dà tutto, pure nastri e gioielli. Compaiono i mostruosi cani dell’Ade, ma a un cenno le danno il passo, riconoscendo l’antica Ecate. Vaga come una Menade invasata e i demoni l’attorniano ma nessuno osa toccare la Dea dagli occhi di fiamma. Finalmente giunge nell’antro gigantesco di Plutone (o Dioniso?). Il Dio è sul trono, orribile a vedersi, puzzolente, con pelo di capra, criniera da leone, coda di serpe e corna da toro. I suoi occhi sono cechi perché nel buio non c’è nulla da vedere.
- Rendimi la figlia - grida Demetra con freddo furore - o sterminerò il mondo dei viventi!-
Il Dio oscuro ride, e i demoni con lui, un lungo, osceno latrato che empie la sala di miasmi. La voce sembra provenire da mille bocche, con un’eco spaventosa: - Sono il re dei morti, dici che vuoi ampliare il regno dei miei sudditi? -
- Scellerato caprone, - tuona la Dea - se stermino i mortali non ci saranno più figli, e quando le tue ombre si dissolveranno resterai senza morti, e sarai Signore del nulla! -
Ade ruggisce, si contorce, e la coda sibila furiosa. Infine parla di nuovo: - A due condizioni, che mi regali ciò che non ho avuto e mai potrei avere, e che Persefone non abbia accettato cibo dall’Averno.-
Sogghigna nel cuore, perché egli può avere ciò che desidera, nel Tartaro profondo custodisce enormi ricchezze. Demetra accetta, perché crede in sua figlia e perché può dare al ricco Dio qualcosa che non ha mai avuto e che non può avere, se non tramite lei. Si toglie i bellissimi occhi e li porge al Dio. Ade è soddisfatto, perché ora potrà guardare Persefone, la stupenda. Quando finalmente vede nel buio, scorge per primo il volto bellissimo della Dea senza occhi. Demetra è la statua del dolore, ma non piange, e Pluto s’accorge che avere la vista è un dono prezioso e crudele, perché guardando la Dea gli scendono le lacrime. Le sacerdotesse, sedute sulla nuda terra, battono cadenzati i pugni al suolo, cantando la lugubre nenia, ed una suona le note accorate d’uno zufolo. Coro:
- La Dea senza occhi,
nudo il corpo come ninfa al fiume, taglia i lunghi capelli per farne una fune e la lega alla coda del Dio,
che per ingannarla non la lasci sola,
e giunge nei campi dell’Ade,
ma non trova la Persefone di prima.
Sua figlia irraggia luce dal corpo,
e le chiome sciolte sembrano onde del mare. Corre dalla madre e l’abbraccia,
straziata alla vista di lei:
"Madre, dolcissima madre,
la più grande delle madri,
chi tolse gli splendidi occhi di turchese
che s’illuminavano al guardarmi,
chi tagliò le splendide chiome
bionde come il grano maturo,
chi rubò le tue vesti regali?"
"Per te, figlia adorata,
avrei strappato anche il cuore,
per salvarti dall’inferno maledetto."
Ora Dioniso guarda la bella Persefone e la desidera come l’unica cosa che conti nella vita, e guarda il corpo nudo della Dea, e ne ha paura, guarda le occhiaie vuote, e ne ha una pena infinita. Ora che Ade-Dioniso può vedere con gli occhi della Dea, vede tutto l’amore e tutto l’odio del mondo, tutta la gioia e tutto il dolore. Vuole amare Persefone ma sente quanto finora l’amore gli è mancato, e prova un orribile dolore, tanto forte che vorrebbe strapparsi gli occhi. Ma Persefone, che ha mangiato sette chicchi di melograno, esattamente sette, ha pietà del Dio ferito nel cuore, e mentre con una mano carezza il volto della madre, con l’altra sfiora il viso del Dio. Narrano le sacerdotesse che Pluto non vuole lasciare Persefone, che ora ama più di se stesso, e chiede a Demetra di rispettare la promessa, non può trarre la figlia che ha mangiato il frutto dell’Ade. Ma Persefone si dichiara libera, proprio perché ha assaggiato il melograno. Demetra aggiunge che Plutone sarà distrutto, perché non si guarda impunemente la nudità della Dea, ma Ade è un Dio anch’egli, e morire non può, ma come l’uva si muta in vino, lui si trasforma, e prende sembianze da umano. Ora è bellissimo, e un tralcio di vite gli orna la fronte, e lo segue una pantera, nera come la luna nera. Persefone e Demetra sono tanto vicine tra loro che le chiome non si distinguono, così vicine da fondersi, di due si fanno una, donna e ragazza insieme, e insieme formano la Luna. Sembra che da quel giorno l’Ade non sia più così buio, che lo rischiari la fioca luce lunare, che le nozze tra Dioniso e Core furono splendide, e tutta la terra germogliò per la loro felicità. I tre Dei son così uniti da essere uno solo, e le Dee sono due in una, e percorrono su un carro trainato da cani latranti il profondo dell’Ade, e da un cocchio di cervi la terra rigogliosa. Ora sono Signori dei due mondi, e gli Dei non possono farci nulla, perchè ormai, insieme, conoscono il dolore e la gioia del mondo, che è il segreto della vita e della morte.
CERERE ROMANA
Derivante dalla Dea italica, Dea del cereale, che da lei prende il nome, e un flamen minore provvedeva al suo culto aRoma. Ls Dea era legata anche al mondo dei morti attraverso il Caereris mundus, una fossa che a Roma veniva aperta soltanto in tre giorni particolari, il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre. Questi giorni erano i Dies religiosi, vale a dire che ogni attività pubblica veniva sospesa perché l'apertura della fossa metteva idealmente in comunicazione il mondo dei vivi con quello sotterraneo dei morti. Secondo Festo in quei giorni non si attaccava battaglia con il nemico, non si arruolava l'esercito e non si tenevano i comizi. L'apertura del mundus era un momento delicato e pericoloso, non tanto per paura che i morti invadessero il mondo dei vivi ma al contrario perché, secondo Macrobio, il mundus avrebbe attratto i vivi nel mondo dei morti, specialmente in occasione di scontri e battaglie. I misteri eleusini ebbero notevole diffusione anche a Roma, come culto di Cerere- Proserpina, contando tra gli iniziati Cicerone e in seguito l'imperatore Gallieno . Il culto fu vietato dall'imperatore cristiano Teodosio nel 392 d.c. come tutti i culti pagani.
I TEMPLI
Cicerone:
Non solo i Siculi ma anche tutte le altre genti e nazioni onorano moltissimo Cerere di Enna. Perciò presso i nostri padri, in circostanze politiche gravi e terribili, sotto il consolato di Micio e Calpunio si consultò i libri sibillini, facendo i prodigi temere gravi pericoli, essendo stato Tiberio Gracco ucciso, dai quali si scoprì che era opportuno che l'antichissima Cerere fosse placata. Allora dall' amplissimo colleggio dei decemviri i sacerdoti del popolo romano, nonostante che nella nostra città ci fosse un tempio di Cerere bellissimo e molto magnifico, tuttavia arrivarono fino a Enna. Infatti tanta era l'autorità e l'antichità di quel culto che, andando in quel luogo, sembrava che non andassero al tempio ma da Cerere in persona. Un suo santuario a Roma era ai piedi dell'Aventino, votato nel 496 a.c., ad opera del dittatore Aulo Postumio, in seguito al responso dei Libri sibillini, forse per spingere la classe plebea a combattere, alla vigilia dell'importante Battaglia del Lago Regillo. Il tempio infatti assunse fin dalla sua dedica, avvenuta nel 494 ad opera di Spurio Cassio Vecellino, connotazioni plebee. Vi si adoravano la triade Cerere, Libero e Libera (corrispondenti a Demetra, Dioniso e Kore). Secondo Cicerone le sacerdotesse dedite al culto provenivano solo ed esclusivamente dal sud.
Marco Vitruvio Pollione nel suo “De architectura” descrive il tempio come largo, basso e aereostilo, cioè con colonne distanziate e quindi mura molto ampie tra le colonne. La trabeazione era lignea per alleggerirne il peso sulle colonne e la decorazione del frontone era di tipo etrusco con terrecotte. I muri della cella erano state decorate successivamente da pitture di Damophilos e Gorgasos, artisti magnogreci molto apprezzati.
Tempio di Cerere e Faustina
Sulla vallata scavata dal fiume Almone si trova l'antico tempio di Cerere e Faustina costruito nel II secolo d.c. da Erode Attico e dedicato alla dea Cerere e a Faustina, la moglie divinizzata di Antonino Pio. Il tempio venne trasformato nel IX secolo nella chiesa di Sant'Urbano, che non ha cancellato molto del tempietto laterizio del II sec. Esso aveva un porticato di 4 colonne corinzie con architrave in marmo pentelico. Il marmo, delle cave di proprietà di Erode Attico, proveniva dal monte Pentelico presso Atene. Nel 1634 sotto Urbano VIII vennero aggiunte delle mura in mattoni tra le colonne chiudendo il portico e delle costole di rinforzo sulle mura laterali del tempio. La chiesa posteriormente è chiusa da una proprietà privata ed anteriormente e lateralmente c'è un giardinetto chiuso da rampicanti e cancelletti di ingresso con lastre di ferro, il che lo rende purtroppo invisibile dall'esterno.
Tempio di Cerere a Paestum:
Risale al 500 a.c., con frontone molto alto e fregio dorico composto di larghi blocchi di calcare. La pianta interna era composta dal pronaos e dalla cella nella quale non ci sono tracce della camera del tesoro. Il pronaos aveva otto colonne con capitelli ionici, quattro sul fronte e due su ciascun lato. Delle colonne ioniche si vedono solamente le basi e due capitelli, i più antichi in stile ionico rinvenuti in Italia, custoditi ora nel vicino Museo Archeologico. La costruzione amalgama due stili differenti: il dorico arcaico e lo ionico. Alcuni lo ritengono invece dedicato a Minerva.
Santuario di Cerere a Lavinio:
Nel santuario dei 13 altari di Laviniosi è rinvenuta una lamina metallica sulla quale vi è l'iscrizione "Cerere(m) auliquoquibus" interpretata come offerta alla Dea di interiora dell'animale sacrificato, bollite in pentola. Il che dimostra la presenza di un suo santuario.
Fonti: RomanoImpero.com
Si ringrazia il sito Romano Impero per averci gentilmente concesso l'articolo su Cerere, Dea Romana particolarmente interessante e che potrebbe offrire ad ogni Satanista intuitivo, ottimi spunti di riflessione. Tengo inoltre a consigliarvi vivamente di fare un salto in Romano Impero, un un sito veramente completo in cui potrete farvi un excursus totale sulla Storia di Roma e soprattutto dei suoi antichi culti pagani.
- Jennifer Crepuscolo