IL BAPHOMET RIVELATO
Storia e Significato dell’Iniziatore Occulto
Il Baphomet, effige affascinante e dai contorni sfuggenti, riveste da secoli un ruolo centrale nell’occultismo occidentale, in particolar modo nel Satanismo. La storia di Baphomet si perde nei meandri del tempo, sebbene le fonti ufficiali facciano risalire la sua prima apparizione in seno all’Ordine Templare, nel XIV secolo e.v. In questo scritto tenteremo di svelare il mistero celato dietro l’insegna celeberrima del Satanismo, ricostruendone l’essenza attraverso un’accurata indagine che partirà dall’osservazione delle tracce storiche e delle varie interpretazioni esoteriche ed etimologiche. Esploreremo il Baphomet in tutte le sue innumerevoli sfaccettature, ne analizzeremo le profonde simbologie, il significato e le possibili origini, cercando una volta per tutte di far chiarezza su questa misteriosa figura che da secoli non ha mai smesso di far parlare di sé. Attraverso un lungo percorso nella Tradizione, cercherò di condurvi nel cuore pulsante dell’Iniziazione Oscura, dove Baphomet occultamente regna, custodendo arcane soglie che soltanto i virtuosi sapranno varcare.
INDICE IPERTESTUALE
Parte I - Ricostruzione Storica ed Esoterica
Parte II - Etimologie e Interpretazioni
Parte III - Simbologia del Baphomet di Levi e Rivisitazione personale
PARTE I – Ricostruzione Storica ed Esoterica
Baphomet, l’idolo dei Templari
La prima menzione documentata dell’idolo dei Templari appare negli atti dell’inchiesta pontificia del 1309. L’Ordine Templare era accusato dalla Chiesa di apostasia, blasfemia e soprattutto di idolatria, come possiamo leggere nella seguente deposizione:
“Abnegabat Christum, aliquando Crucifixum, et quandoque Jhesum, et quandoque Deum, et aliquandoque Beatam Virginem, et quandoque omnes sanctos et sanctas Dei. (…) Per singulas provincias habebant idola, videlicet capita quorum aliqua habebant tres facies, et aliqua unam, et aliquam craneum humanum habebant. (…) Illa idola vel illum idolum adhorabant, et specialiter eorum magnis capitulis et congregacionibus”.
[Traduzione: Rinnegava Cristo, talvolta il Crocifisso, talvolta Gesù e talvolta Dio, talvolta la Beata Vergine e talvolta tutti i santi e le sante di Dio. (…) In ogni provincia tenevano idoli, ossia teste, alcune delle quali con tre facce e alcune con una, mentre altre avevano un cranio umano. (…) Hanno adorato quegli idoli o quell’idolo, in particolare nei capitoli generali e nelle assemblee importanti.]
Prima di addentrarci un po’ più approfonditamente nelle tragiche vicissitudini che coinvolsero l’Ordine Templare, occorre però sottolineare che nessun Cavaliere del Tempio ha mai usato il termine Baphomet per parlare dell’idolo sotto accusa. Il termine Baphomet associato all’idolo compare in verità solo una volta, in Francia, per bocca di Gaucérant, templare e sergente di Montpezat, il quale sotto tortura dichiarò di aver visto il famigerato idolo durante una cerimonia segreta, descrivendolo come una testa barbuta “in figuram baphometi”. A tal proposito bisogna ricordare che in quella zona della Francia, l’Occitania, il termine Baphomet potrebbe aver rappresentato una storpiatura del nome Mahomet, ossia il profeta dell’Islam. Questa teoria venne formulata dallo studioso di lingua araba Silvestre de Sacy e a prova di ciò esisterebbero due opere poetiche in cui sembrerebbe possibile ipotizzare che i Templari usassero il termine Baphomet proprio per designare i mussulmani. Nella prima ode del Templare Olivier, del 1256, troviamo scritto:
“I Turchi sapevano bene che ci avrebbero umiliati ogni giorno, perché Dio che un tempo vegliava, dorme, e Baphomet manifesta il suo potere e fa risplendere il sultano d’Egitto”.
Nel secondo poema del 1265, scritto dal Templare Ricaut Bonomel, troviamo invece la parola bafomaria, termine molto simile a bahommerid che in lingua d’Oc significa “moschea”.
“Nessun uomo che crede in Gesù Cristo
resterà più, se può, in questo paese;
si farà bafomeria
del monastero di Santa Maria”.
Sull’interpretazione etimologica del termine Baphomet il dibattito è ancora aperto e aldilà che l’interpretazione di De Sacy convinca o meno, essa ci fornisce comunque due indizi interessanti. Il primo è che, sulla base della dichiarazione del Templare Gaucérant, l’idolo templare era una testa barbuta “in figuram baphometi”, pertanto restando all’interpretazione di De Sacy possiamo supporre che la testa dell’idolo avesse tratti mediorientali, come appunto i mussulmani. Il secondo è che il termine Baphomet era conosciuto ancor prima delle accuse di idolatria mosse ai Templari. Gaucérant, infatti, non dichiara che l’idolo si chiamasse Baphomet bensì che esso somigliasse al Baphomet, quindi qualcosa di già abbastanza conosciuto al punto da poterlo usare come metro di paragone. Sulle interpretazioni etimologiche del nome, comunque, ne parleremo approfonditamente più avanti, per ora ci concentreremo sull’essenza stessa dell’idolo Templare attraverso le informazioni evincibili dalle numerose deposizioni.
Per arrivare però al nostro Baphomet occorre prima raccontare brevemente chi furono i Templari e in quale modo avvenne la loro drammatica fine. I Cavalieri Templari furono uno dei primi ordini religiosi cavallereschi cristiani del Medioevo e nacque in Terra Santa nel 1096, con lo scopo di difendere e servire la cristianità durante la Prima Crociata contro i mussulmani. L’ordine venne poi ufficializzato definitivamente nel 1129, assumendo così il duplice ruolo di struttura monastica e cavalleresca; in poche parole dei veri e propri monaci guerrieri devoti alla Croce e sempre pronti a combattere per difendere i pellegrini cristiani che ai tempi affollavano Gerusalemme. Con il tempo i Templari divennero sempre più ricchi e potenti, cominciarono a gestire terreni agricoli, a costruire fortificazioni e ad amministrare i beni dei pellegrini, creando una sorta di sistema bancario, e secondo la storia ufficiale fu proprio questo loro grande potere economico a decretarne la fine. Nel 1305, infatti, tal Esquieu de Floyran, priore di Montfaucon, raccontò a Jaime II, sovrano d’Aragona, le confidenze che gli erano state fatte nelle carceri di Béziers da un ex Cavaliere Templare, il quale confessò di aver partecipato con i suoi fratelli a riti blasfemi dove si vilipendeva il Cristo, il tutto condito da sodomia, oscenità e l’adorazione di un misterioso idolo dai mille volti. A questi punti il sovrano d’Aragona fece un po’ il Ponzio Pilato della situazione e per sgravarsi da ogni impiccio suggerì al priore di raccontare tutto al consigliere del Re di Francia Filippo IV, detto il Bello, dato che già altre volte era stato abile nel risolvere controversie con la Chiesa. Fu così allora che il priore de Floyran raccontò tutto al consigliere del Re di Francia, Guglielmo di Nogaret, il quale con scaltrezza non mancò di cogliere al balzo la grande occasione che gli si era parata davanti. In poche parole Guglielmo e Filippo il Bello capirono subito di aver trovato il pretesto perfetto per cominciare a perseguitare i Templari, potendo finalmente mettere le mani su tutte le loro inestimabili ricchezze.
Si arrivò così due anni dopo al 14 settembre 1307, giorno in cui venne deliberato l’arresto dei Templari, e il famigerato venerdì 13 ottobre dello stesso anno avvenne il blitz in cui vennero catturati tutti i Cavalieri e sottoposti a indicibili torture. Il 3 aprile 1312 fu infine emanata dal papa la Bolla Vox in Excelso che sopprimeva definitivamente l’Ordine Templare. A conti fatti possiamo dunque affermare che tra il 1307, anno degli arresti, e il 18 Marzo 1314, giorno in cui il Grande Maestro dell’Ordine Templare Jacques de Molay e il Precettore di Normandia Geoffroy de Charny vennero bruciati vivi a Parigi, sull’isolotto di Pont Neuf, i Templari vennero perseguitati e subirono numerosi interrogatori dove rilasciarono confessioni in cui ammisero i loro crimini, tutte ovviamente sotto tortura. Quanto valore possa avere una testimonianza ottenuta obtorto collo lo lascio decidere al buon senso di ogni lettore, tuttavia è interessante notare il modo in cui costantemente nelle deposizioni veniva descritto un presunto idolo adorato e sarà proprio da queste testimonianze che noi partiremo per ricostruire l’essenza del Baphomet. La prima apparizione ufficiale del misterioso idolo Templare avviene in un arco di tempo che va dal 1273 al 1291, periodo in cui il Gran Maestro dell’Ordine fu Giullaume de Beaujeu, il quale decise per la prima volta di esibire l’idolo insieme al suo secondo in carica, ossia Hugues de Pairaud. Sarà proprio quest’ultimo a offrirci la prima descrizione dell’idolo, definendolo come una “testa umana”.
“Questa testa umana io l’ho vista, l’ho toccata e tenuta in mano a Montpellier, in occasione di un capitolo, e l’ho adorata così come tutti i fratelli presenti”.
Altra testimonianza simile in cui l’idolo è descritto come una testa è quella di Batholomé Rocherii:
“Fui accolto nella grande cappella del Tempio di Parigi. Dopo la vestizione fui fatto entrare in una cappella più piccola. Ero solo con un dignitario che mi mostrò una testa accanto al tabernacolo. Mi disse di invocarla in caso di pericolo. La testa era coperta da una stoffa leggera. Non so se fosse d’avorio, di metallo o di legno. Non l’ho vista che una volta”.
E ancora Guillaume d’Herblay:
“La testa l’ho vista in occasione di due capitoli tenuti dal fratello Hugies de Pairaud, Credo che sia di legno, argentata e dorata in superficie. Mi pare che abbia la barba o una specie di barba”.
Le testimonianze Templari sulla presenza di una testa adorata sono innumerevoli, sebbene subissero talvolta delle varianti. In alcuni casi la testa, ad esempio, era maschile, in altri casi c’è chi affermò di aver scorto un volto femminile, altre volte ancora la testa risultava bicefala ed altre addirittura tricefala. Ad oggi si contano ben 138 deposizioni e col passare del tempo la descrizione dell’idolo si arricchiva di dettagli nuovi, tuttavia opinione unanime è che la testa era considerata dai fratelli dell’Ordine come il loro Dio, il loro Salvatore, capace di creare ricchezza, di far fiorire gli alberi e germinare la terra. Altrettanto immutato era il presunto rito segreto con cui la testa veniva onorata, ossia avvolgendola con una cordicella che veniva poi posta a contatto con la pelle, come se le proprietà benefiche della testa potessero passare attraverso la corda e arrivare così al Cavaliere.
Analisi dell’idolo templare: la Testa Sacra
Abbiamo tracciato a grandi linee le connessioni fra il Baphomet e l’Ordine Templare, ricavando informazioni interessanti dalle varie deposizioni. A questo punto, per fare maggiore chiarezza ed addentrarci nei significati più profondi del Baphomet, ci concentreremo sull’analisi simbolica di queste testimonianze, al fine di acquisire nuovi importanti elementi di comprensione. E il primo elemento che possiamo scovare dalle testimonianze Templari è la presenza di una testa sacra.
La testa da un punto di vista simbolico ha sempre rappresentato la sede dell’anima, la parte “alta” dell’essere umano, in contrapposizione al corpo che è invece la parte “bassa”, quella terrena. Se nel cuore vive lo spirito, inteso come parte in cui allegoricamente albergano il sentimento e l’empatia, nella testa dimora la parte animica, caratterizzata dalla luce dell’intelletto, da quella Coscienza umana capace di collegare la carne al divino. Nella testa troviamo gli occhi, proverbialmente specchio dell’anima, troviamo la bocca da cui ci nutriamo e da cui emaniamo il Logos, e troviamo il naso, appendice da cui respiriamo, atto indispensabile alla vita e alla Meditazione. Non meno importante è poi il cervello, una complessa struttura nella quale troviamo aree neuronali deputate ai bisogni primari e agli istinti, così come anche il lobo limbico connesso alle emozioni e la corteccia cerebrale che ci garantisce la facoltà di analisi e ragionamento, nonché creatività, fantasia e intuizione. Nella testa ci sono poi importanti ghiandole dall’alto valore spirituale, come la pituitaria che regola le emozioni e la memoria - in concomitanza con l’ipotalamo - e che è nota per favorire il rilascio di ossitocina, il cosiddetto ormone dell’amore. Altresì importante è poi la ghiandola pineale, responsabile della produzione di melatonina e di DMT, ormoni indispensabili per regolare il sonno e la capacità di sognare. In ambito spirituale la testa è anche sede di Chakra fondamentali come Ajna - riconducibile al Terzo Occhio - e Sahasrara, il centro coronale.
Forse per tutti questi motivi la testa ha rivestito un ruolo importante anche in ambito cultuale. Il culto dei crani è sempre esistito sin dal Paleolitico, dove gli uomini erano abituati a conservare le ossa dei propri defunti e riservando particolare attenzione proprio al cranio, che veniva decorato, onorato e annesso al corredo funebre. Caso noto del culto dei crani èi senza dubbio quello di Gerico, città palestinese in Cisgiordania, dove più di novemila anni fa era usanza rimodellare i crani dei defunti con una sorta di fango simile al gesso, inserendo nelle cavità oculari delle conchiglie a simulare gli occhi e dipingendo talvolta fronte e gote. Ma per oggettivare davvero il valore sacrale della testa, bisogna penetrare negli antichi riti misterici osiridei, dove a far da protagonista era proprio la testa del dio Osiride, custodita nella città di Abydos. Osiride è un antico dio egizio della fertilità e dell’oltretomba. Egli era infatti inizialmente noto come dio agreste, inventore dell’agricoltura e della religione, un re saggio e benefattore a cui era conferito il titolo di civilizzatore del mondo. Il regno di Osiride fu prospero e secondo il mito a distruggere questo perfetto ordine fu il fratello Seth, l’oscuro dio del caos. I Misteri di Iside e Osiride narrano che Seth riuscì a intrappolare Osiride in un sarcofago gettato poi nelle acque, ma Iside, sorella e sposa del Dio, riuscì a ritrovarlo e a farlo rinascere. Allora Seth, ancora più furioso, decise di mutilare il corpo di Osiride in quattordici pezzi, gettando poi ogni parte in luoghi diversi. Nonostante, come narra la tradizione egizia, Iside riuscì a ritrovare i pezzi di Osiride e a ricomporli, il mito dello smembramento generò un vero e proprio culto delle reliquie, in particolare ad Abydos, centro del culto osirideo in cui si credeva fosse caduta e conservata niente meno che la testa del Dio.
Il rito iniziatico di Abydos si svolgeva nel tempio sacro di Osiride, l’Osireion, una struttura imponente di granito rosa. Come illustra il Papiro di Leida, l’iniziato entrava nell’Osireion tramite un corridoio in discesa diretto da ovest ad est, lungo circa cento metri e dalle pareti incise con testi tratti dal Libro dei Morti. Alla fine del corridoio si arrivava in una sala rettangolare al cui centro si ergeva una piattaforma circondata da un anello d’acqua, dove l’Iniziato doveva immergersi per rigenerarsi, una sorta di rinascita battesimale di cui parleremo più approfonditamente in seguito. La discesa verso una camera sotterranea, l’immersione nell’acqua, tutti passaggi tipici delle ritualità misteriche con funzione soteriologica. Una salvezza che però l’Iniziato conquista non attraverso la sottomissione a Dio bensì entrando in comunione con esso, garantendosi così l’immortalità individuale. Altro elemento che richiama indubbiamente ai noti Misteri Eleusini è la presenza di oggetti sacri capaci di portare l’Iniziato all’illuminazione: nel caso del rito di Abydos, è proprio la preziosissima testa del Dio. Essa era posta in un reliquiario particolare, una sorta di cesto fissato all’estremità di un’asta da cui pendevano lunghi lembi. Questo particolare vi ricorda niente? A me porta subito alla mente i riti misterici di Eleusi, dove esisteva una formula enigmatica che doveva pronunciare ogni Iniziato e che, secondo la ricostruzione di Clemente di Alessandria, recitava:
“Ho digiunato; ho bevuto il ciceone; ho preso dalla cesta, dopo aver maneggiato ho riposto nel canestro, e dal canestro nella cesta.”
La cesta dei Misteri Eleusini era detta Kiste, mentre il canestro era il kalathos. In essi erano contenuti gli oggetti sacri manipolati dall’Iniziato, esattamente come accadeva ad Abydos con la testa di Osiride, contenuta in un reliquiario descritto come un particolare cesto di canapa intrecciata. Altro elemento da notare è poi la presenza di “lembi fluttuanti” attaccati alla cesta. Non era forse parte della ritualità templare quella di collegare la testa del Baphomet ad una “cordicella” con cui trasferire l’energia dalla reliquia all’Iniziato? Poteva essere la testa del dio Osiride il famoso idolo dei Templari? Coincidenze o meno, credo che sia un’interessante spunto di riflessione, soprattutto se si considera il ruolo di Maestro e Iniziatore che si può ritrovare sia in Osiride che nel nostro caro Baphomet. Non a caso Osiride era anche chiamato “il Dio Verde”, attributo che in qualche modo mi ricorda Al-Khidr, una figura coranica che nel tempo è stata assorbita da diverse correnti mistiche e che venne sincretizzata anche con Giovanni Battista, personaggio su cui presto torneremo. Al-Khidr era anch’egli appellato come “il Grande Verde” ed era considerato un messaggero di Dio, talvolta un profeta, e in alcune leggende persino un angelo. Era legato alle acque ed era noto per dispensare conoscenze segrete ed elargire saggi giudizi sulle questioni del mondo.
Queste peculiarità del saggio Al-Khidr afferiscono ad Osiride per quanto concerne il suo ruolo di Maestro e di Giudice dei Morti, senza contare che l’origine islamica di questa figura non è poi così casuale, dato che stiamo parlando della stessa area territoriale in cui sorgeva il culto di Osiride. Ma i collegamenti non sono finiti qui. Fra i vari nomi di Osiride spicca anche quello di Onnos, nome che nella tradizione sumera e babilonese corrispondeva a Oannes, divinità delle acque, attributo conferito anche a Al-Khidr. Oannes inoltre era noto per essere colui che aveva civilizzato l’umanità, diffondendo grandi saperi e inventando l’agricoltura. Vi ricorda qualcuno? Gli stessi identici attributi che abbiamo riscontrato anche in Osiride. Infine, per chiudere il cerchio, occorre ricordare che Al-Khidr fu sincretizzato dagli Armeni con Giovanni Battista e che, casualmente, il nome Giovanni deriverebbe dall’ebraico “Yochanan”, grecizzato poi come “Ioannes” e passato in latino come “Joannes”. Non ricorda forse proprio il nome “Oannes”? Cercate di tenere a mente queste informazioni, perché il nome di Giovanni Battista lo ritroveremo presto, così come quello di Oannes.
Ulteriore dato interessante da riferire riguardo ad Abydos è la presenza di un colle sacro chiamato Umm el Qa’ab, letteralmente dall’arabo “madre dei vasi”, giacché sulla sommità di questa collina sorgeva un’enorme distesa di ben otto milioni di vasi offerti al dio Osiride. Associare il Vaso ad Osiride, e in particolar modo alla sua testa, può sembrare forse un connubio azzardato, poiché il vaso è da sempre un simbolo femminile, solitamente associato al Graal, alla coppa, rappresentazione ermetica del ventre materno. Tuttavia ritengo che anche la testa, da un punto di vista spirituale, potrebbe configurarsi a sua volta come il “grembo delle idee”, un Graal che anziché generare una nascita corporale ne genera una preternaturale. Credo dunque che il Graal, la coppa sacra, possa suddividersi allegoricamente in due diverse manifestazioni: il vaso fisico, ascrivibile al ventre materno, e il vaso metafisico, la testa. E i lettori mi perdoneranno se corro un po’ troppo con l’immaginazione, ma non fatico ad identificare questi Vasi come due portali, laddove il primo si rivela un accesso per l’anima che vuole entrare in questo mondo, mentre il secondo un passaggio per l’anima che ambisce invece ad esplorarne un altro! Da questo punto di vista l’uomo stesso diventa a sua volta creatore, poiché la sua testa diviene grembo di un Sé più elevato, il crogiolo alchemico dell’auto-creazione. Nel ventre materno viene incubato l’embrione fisico così come nella testa è contenuto l’embrione metafisico, nutrito dalle idee, dalle esperienze, dalle emozioni e dalla memoria, fino a quando l’Iniziato non sarà pronto per partorire un nuovo se stesso. Per corroborare questo concetto mi avvalgo di una citazione tratta da Psicologia e Alchimia di Carl Gustav Jung, il quale parlando del vaso alchemico afferma:
“Il vaso ermetico (vas Hermetis), costituito essenzialmente dall’alambicco o dal forno fusorio, recipiente delle sostanze che devono subire il processo trasmutatorio, benché sia uno strumento è stranamente connesso tanto con la prima materia quanto col Lapis. Per l’alchimista il vaso è qualcosa di assolutamente meraviglioso: un vas mirabile. E’ una specie di matrix o uterus, da cui nascerà il filius philosophorum, la miracolosa pietra”.
Da ciò potremmo dunque evincerne che la testa rappresenti a tutti gli effetti il vas mirabile da cui rinascerà il filius philosophorum, ovverosia l’Iniziato riedificato.
La Decapitazione e l’Iniziazione Oscura
Il significato simbolico della testa è come abbiamo visto molto profondo, il fulcro ipostatico dell’essere umano che unisce la natura terrena a quella divina. In virtù di tali considerazioni l’atto della decapitazione, in una visione prettamente cultuale, si rivelerà dunque non più soltanto un’azione cruenta fine a se stessa ma un vero e proprio gesto ritualistico. La testa mozzata, presente nella storia e nella mitologia sin dagli albori, rappresenta simbolicamente la liberazione dai vincoli della carne, il fendente che separa il corpo materiale da quello spirituale, la parte alta da quella bassa. La decapitazione è l’emblema dell’iniziazione violenta, una raffigurazione esoterica che s’inserisce nel contesto tipicamente oscuro del Vamachara, il Sentiero della Mano Sinistra. La maggior parte degli Ordini sinistri occidentali fa spesso un largo uso della Cabala Ebraica, cosa che da autentica Satanista trovo del tutto incoerente, tuttavia esiste un concetto connesso all’Albero della Vita cabalistico che a mio avviso si presta bene all’idea sinistra di decapitazione. Secondo autori come Karlsson, infatti, l’Iniziato della Via Destra è colui che dalla decima sephirot, Malkuth - corrispondente al nostro piano - sceglie di giungere all’illuminazione attraverso un’ascensione verso Dio, restando pertanto entro i confini delle geometrie luminose sephirotiche. L’Iniziato Sinistro, invece, è colui che da Malkuth discende verso le qliphoth, i piani inferi dell’ombra, accendendo pertanto all’Iniziazione attraverso l’undicesima qlipfot, quella che prende il nome di Lilith.
I legittimi Figli di Satana mi perdoneranno se ho preso in prestito un concetto proveniente da un misticismo così esiziale per la nostra natura, ma l’idea di Karlsson riguardo al raggiungimento dell’illuminazione attraverso il distacco dall’ordine causale delle sephirot è in linea con l’immagine della decapitazione iniziatica, giacché anch’essa rappresenta una separazione dalla realtà contingente e la conseguente rinascita in un antiuniverso d’ombra. Non a caso l’undicesima qlipfot prende proprio il nome di Nostra Signora Lilith, Madre Oscura ed Eccelsa Maestra dei suoi Figli. Prima di andare avanti tengo però a precisare, qualora chi mi leggesse non conoscesse abbastanza bene l’argomento, che la Cabala nonostante parli anche di Demoni non lo fa certo in chiave positiva. Le qlipfot demoniche, opposte alle sephirot angeliche, sono considerate dai cabalisti come dei “gusci”, degli “scarti”, talvolta definiti persino “gli escrementi delle sephirot”. Se ho deciso di citare questo breve concetto cabalistico è solo perché alcuni Ordini iniziatici hanno visto nella discesa nelle qlipfot qualcosa di congeniale al percorso sinistro, abbracciando così ciò che nella Cabala è considerato sporco e impuro. Ma noi Eredi del Dio dell’Anima sappiamo bene che l’impurità è solo negli occhi di chi guardando lo specchio della Tenebra si ritrova a vedere la propria faccia. L’Oscurità delle regioni infere è e sarà sempre un Cammino periglioso, pieno di insidie, ma non sarà mai un vero pericolo per gli animi “duri, puri e sicuri”. L’Inferno distrugge gli spiriti deboli, i vili, e protegge invece gli animi integri, gli eroi di natura che sanno superare con onore tutte le sue prove, affrontando la paura e implementando con onore il proprio potenziale. Se voleste approfondire l’argomento v’invito a leggere Cabala Ebraica e Satanismo il connubio impossibile.
Chiusa questa breve digressione torniamo a parlare della nostra testa, della decapitazione rituale e, come abbiamo pocanzi accennato, del Grande Iniziatore Occulto, in tal caso la potente Lilith, che in ambito induista potremmo accostare a Kali, la Nera, detta per l’appunto “la tagliatrice di teste”. Kali è l’aspetto oscuro e distruttore della Devi, la Grande Dea Madre. Nell’iconografia Kali appare con la pelle blu come la notte, talvolta persino nera, e con quattro braccia - più raramente anche sei. Gli oggetti che Ella detiene possono subire varianti a seconda della rappresentazione, ma più spesso in una mano tiene a scimitarra, in un’altra una lancia o il trishul [il Tridente] e la terza mano si apre a elargire benedizioni, nello specifico abbaya mudra [il gesto della promessa di protezione e di rassicurazione a non temerla] e varada mudra [esaudimento dei desideri]. Nell’ultima, infine, tiene per i capelli una testa mozzata. Kali indossa una ghirlanda di 52 teschi e una gonna fatta di braccia umane [che se fossero braccia destre avrebbe molto senso collegare la cosa alle mie considerazioni sul braccio di Tyr, che trovate in questo breve articolo, Il Tridente e La Terza Via.
Questa Signora Oscura è rappresentata spesso anche mentre danza sul corpo del dio Shiva, simbologia derivante dalla tradizione tantrica che raffigura la forza distruttrice, la quale però paradossalmente assume la funzione creativa e vitale della Shakti. Spesso il femminismo occidentale ha preso Kali - così come Lilith - come simbolo della rivalsa femminile sul maschile, ma il suo reale significato è ben più profondo: Kali è un’energia femminile che prevarica non per il semplice piacere di assoggettare, bensì per riequilibrare quella diade energetica da lungo tempo in disarmonia. Il Kali Yuga, l’involuta Età del Ferro in cui viviamo, è un’era in cui una forma deviata di patriarcato ha soggiogato il muliebre, rendendo così necessaria un’azione sinistra volta a ristabilire gli equilibri. E il femminile di cui parlo non è da intendersi unicamente come “donna” ma andrebbe esteso a un concetto più ampio afferente a quel tipo di energia connessa alla polarità femminile/animica, presente per altro anche negli uomini. Ciò che fa Kali non è pertanto un semplice apportare morte e distruzione, ma l’uso selettivo della violenza utilizzata in funzione della virtù e dell’ordine. Nello stesso mito della sua creazione, Ella venne creata dalla Dea Madre per distruggere gli spiriti maligni e questo conferma come la ferocia di Kali sia nei fatti una furia volta ad un bene superiore e non male fine a se stesso. Kali è tenebra che lotta in nome della luce, una luce da non confondere però con quella macrocosmica, con l’Uno yahwehiano che abbaglia e divora, bensì la luce delle singole anime che hanno scelto di affrontare l’Abisso per autodeterminarsi, la luce di quelle Fiamme che hanno deciso di non spegnersi.
Tuttavia, nonostante il fine di Kali sia la luce così come quello del Sentiero Sinistro sia l’Illuminazione, è innegabile che Ella resti comunque pura Tenebra, un’oscurità violenta che travolge e sconvolge senza mezze misure. Con il tempo la figura di Kali si è largamente addolcita, sono iniziati a confluire nel suo mito aspetti più bonari, tratti ben diversi da quelli che venivano invece anticamente illustrati nel Bhagavata Purana. La Kali delle origini era terribile, spietata, pericolosa, dall’aspetto spaventoso. Questo non significa che Kali non abbia davvero un lato magnanimo, ma sicuramente la tendenza moderna a voler “addomesticare” le tenebre non deve portarci a scordare i suoi lati più terrifici. La paura che l’estetica stessa di Kali vuole innescare è a tutti gli effetti la prima vera prova che ogni Iniziato deve superare. Anche nel Satanismo - per certi versi molto in linea con gli insegnamenti tantrici - la paura è la chiave di volta per cominciare il proprio Cammino. Provate a immaginare quante persone trovandosi di fronte alla semplice parola “Satana” si sono date alla fuga, chiudendo definitivamente la porta dell’autentica Conoscenza, e quante invece hanno avuto il coraggio di superare tale timore, ricevendo così in dono niente meno che la sua chiave. Questo è il principio che occorre apprendere, questo è il ruolo della paura: un ostacolo che se superato porta all’Iniziato beneficio e che in nessun modo può essere aggirato. Un vero Satanista non può certo ignorare tale pensiero e se lo facesse, allora probabilmente non dovrebbe definirsi tale.
“In verità il sacrificio è la decapitazione” - dal Śatapatha Brāhmaṇa.
Le cose da dire sulla munifica Kali sono innumerevoli ma il nostro scopo e proseguire alla scoperta di Baphomet. La ragione per cui abbiamo scomodato la Dea Nera la capirete meglio più avanti, per ora v’invito a soffermarvi sul suo ruolo di “tagliatrice di teste”, di oscura Maestra. L’aspetto Iniziatore di Kali lo troviamo specificatamente in Bhairavi, un’oscura Madre splendente, protettiva con i suoi eletti e implacabile con i nemici. Kali in Bhairavi è la Maestra Oscura che severamente spezza le illusioni, trascinando l’Iniziato in un Abisso in cui sarà costretto a misurare il proprio valore, a spogliarsi di ogni maschera e a conoscere definitivamente se stesso oltre ogni ruolo umano. Bhairavi è molto onorata nel Tantrismo, Ella è rappresentata come compagna del dio Shiva, il quale spesso viene ritratto nella sua veste di shava, ossia il cadavere che giace inerme ai piedi della Signora, rappresentando così la morte iniziatica che precede alla rinascita. Shiva in tal frangente è anche la materia che viene distrutta e rivitalizzata da Kali, Signora del Tempo Infinito che disgrega la materia e che ricrea dall’essenza primeva le molteplici forme della realtà fenomenica. Kali e Shiva sono una diade tantrica fortemente connessa ad Eros e Thanatos, dove lo stesso amplesso è preludio della morte e la morte è il sostegno della vita. La distruzione di Kali/Bhairavi è trasformativa, è tremenda, ma anche indispensabile per raggiungere la consapevolezza e l’immortalità. Robert Svoboda, primo occidentale ad essersi laureato in medicina ayurvedica, noto per aver trascorso molti anni con un autentico maestro del Sentiero Sinistro, l'aghori Vimalananda, nella sua trilogia Aghora su Bhairavi scrive:
“Quale Bhairavi (la Spaventosa, la Terribile) ella è la forza prorompente dell'iniziazione violenta, principio tantrico del Femminino distruttivo inteso come forza di trascendenza immediata. Il suo aspetto è di una sessualità intensa e proiettata verso l'ascesa di Kundalini, che brucia ogni ostacolo nel suo percorso. Ella stringe tra le mani strumenti di trasformazione potenti che recidono i legami del mondo manifesto (il pugnale magico), li ritrasformano secondo la volontà dell'adepto (lo scettro) e li raccolgono nella coppa, che simboleggia anche il principio femminile nella sua ipostasi di colei che accoglie”.
Dalle parole di Svoboda s’intuisce chiaramente il ruolo Iniziatore della Dea Oscura, attraverso un Cammino duro e profondo che parte proprio dalla recisione dei legami con il mondo manifesto, recisione oggettivata per l’appunto nell’atto emblematico della decapitazione. Una partenza che in una visione del tempo circolare incarnerà anche la fine e che sarà ancora una volta principio verso vette più elevate. Il valore iniziatico della Decapitazione è strettamente legato al concetto di Sacrificio, dove l’atto rituale violento si rivela nei fatti coadiuvante per la rigenerazione. Mantenendoci sempre in ambito induista troviamo ad esempio Chinnamastā, dea che, insieme alle sopracitate Kali e Bhairavi, fa parte della Mahāvidyā, gruppo di dieci Dee del Tantrismo dette anche i “dieci oggetti della conoscenza trascendente”, poiché incarnano i Poteri di Shiva e gli stadi necessari del percorso iniziatico. Chinnamastā significa letteralmente “la Decapitata” e rievoca a tutti gli effetti il senso primo del Sacrificio e in particolar modo dell’Auto-Sacrificio. Questa Dea è infatti nota per essersi decapitata da sola. Secondo il mito, Chinnamastā fu invocata per sconfiggere degli spiriti maligni e alla fine di questa battaglia Ella si decollò. Le illustrazioni la raffigura solitamente con una scimitarra in una mano e la sua testa mozzata nell’altra. Credo che il modo stesso in cui questa Dea appare nel mito, così come le sue rappresentazioni iconografiche, la colleghi chiaramente a Kali, anche Lei evocata per sconfiggere spiriti malvagi e con spada e testa mozzata nelle mani. La differenza fra questi due aspetti della Devi sta nel fatto che nel primo caso Kali tiene la testa di qualcun altro mentre Chinnamastā ha in mano la sua. Da ciò possiamo desumere che se Kali è la Distruttrice, la Maestra Oscura già consapevole della propria luce e della propria ombra, Chinnamastā è invece la pura Nigredo interiore, un passaggio necessario alla realizzazione spirituale. In Visioni Tantriche di David Kinlsey, la Dea prende anche l’appellativo di “Colei che non si lascia travolgere dal desiderio”, ad indicare il valore indiscutibile dell’autodisciplina nel Cammino.
Nell’immagine a destra possiamo notare Chinnamastā decapitata sopra due corpi uniti in amore, mentre dal suo collo zampilla sangue che nutre due sue dakini, ossia due assistenti. In questa rappresentazione possiamo cogliere l’aspetto più materno della Dea Oscura, che offre la sua testa in Sacrificio, dona il suo sangue per nutrire i suoi figli e per nutrire a sua volta se stessa. Non è casuale che la Dea stia retta su due corpi avvinghiati, mentre in altre illustrazioni Ella è in piedi sopra il Dio dell’amore con il fallo eretto, cosa che ricorda senza dubbio alcune rappresentazioni di Kali su Shiva. Insomma, il parallelo fra le due Dee è evidente, ma laddove Kali è la forza attiva dell’urlo che si estende sul mondo, Chinnamastā è l’urlo interiore, l’oscurità implosiva che deve generare nell’Iniziato una profonda trasformazione. L’auto-decapitazione della Signora è l’abbandono dell’egoismo e delle illusioni in funzione di qualcosa di più alto, una sorta di auto-giudizio che le permetterà di divenire giudice, un’auto-distruzione riedificante che le permetterà di distruggere e riedificare nel mondo.
“Nella ciclicità del tempo, lo stadio che corrisponde a Chinnamastā è la Notte-del-coraggio, con riferimento alla notte che precede il sacrificio; così, fra le dieci Mahāvidyā, le dieci dee della conoscenza trascendente, Chinnamastā è la conoscenza della Potenza del Sacrificio” - Alain Daniélou.
L’immagine di Chinnamastā decapitata e svettante sui due corpi in copula, o sul Dio dell’Amore, è l’ennesimo richiamo alla coppia Eros/Thanatos, due forze opposte eppure complementari. Eros però non è solo l’amore e il sesso, così come Thanatos non è solo la morte; Quando si parla di Eros in ambito archetipico sarebbe più corretto dilatare il concetto ad un’energia attrattiva, qualcosa che per sua natura ha una carica magnetica che ci avvicina, ci aggrada, ci mette a nostro agio. Thanatos di contro è invece l’energia repellente, quella oppositiva che ci allontana, che ci crea paura e disagio, ciò che per istintiva inclinazione normalmente rifuggiamo. Tuttavia il Satanista sa che per accedere alla Luce occorre attraversare le Tenebre, poiché nessun sole può sorgere se prima non affronta la sua notte. Ecco dunque che l’Iniziazione Oscura nei fatti non è altro che uno strumento necessario al raggiungimento della propria luce, portando spesso l’Iniziato ad abbracciare proprio le energie oppositive di Thanatos. Un esempio di pratica sinistra che prevede questa adesione all’essenza thanatica è il rituale Chöd, rito macabro che trae origine dal buddhismo tantrico, presumibilmente Bön. Il Chöd è un insegnamento che deriva dalla mistica tibetana Machig Labdrön, una donna illuminata che si riteneva essere un’emanazione della Dea Tārā, corrispettivo della dea della saggezza Sarasvati.
Chöd significa letteralmente “recidere via” ed è conosciuto anche come “l’espediente uso della paura” e “la coltivazione della generosità”. Il Chöd, infatti, oltre ad essere un rituale molto oscuro, rivela tutta la nobiltà intrinseca nell’Auto-Sacrificio, nell’abnegazione tipica della dea Chinnamastā che come abbiamo visto decapita se stessa al fine di liberare e liberarsi, nutrire e nutrirsi. Il rito consiste in una potente opera di visualizzazione dove l’Iniziato, al suono lugubre di un tamburo e di un flauto ricavato da un femore umano, evoca numi e spiriti per invitarli ad un banchetto in cui la portata principale sarà niente meno che la sua stessa carne. L’officiante chiama a sé la Dakini, potente spirito femminile della saggezza nella sua forma adirata, la quale lo decapiterà e smembrerà il suo corpo. Le sue carni e le sue ossa saranno poste dalla Signora all’interno della sua calotta cranica e saranno servite ai commensali invisibili. Secondo alcune interpretazioni la Dakini sarebbe proprio lo spirito di Machig Labdrön, mentre in altre versioni a eseguire la decapitazione è la Madre stessa, nella sua veste d’Iniziatrice Oscura, (Kali - Bhairavi - Smashan Tara).
Lo smembramento rituale è un elemento frequente nei riti misterici; oltre al caso già affrontato di Osiride, smembrato dal dio Set e ricostituito dalla dea Iside, potremmo citare ad esempio il greco Dioniso/Zagreo, anch’Egli smembrato dai Titani e poi rinato e reso immortale. Simile è anche il mito del dio indù Ganesha, nato come creatura terrena della Dea Madre e reso poi immortale da Shiva, che lo decapita e gli dona in seguito una testa divina. Il Chöd è una pratica che incarna perfettamente l’essenza iniziatica di questi racconti sacri, dove la morte spirituale si rivela il fulcro della Seconda Nascita, quella sempiterna che conduce al superamento dei limiti di maya - l’illusione terrena - e alla liberazione dal saṃsāra - il ciclo delle rinascite terrene nella maya. Lo scopo di questo rituale sinistro è quello di distaccare l’Iniziato dalle sue paure, dal suo ego materiale - da non confondersi con l’identità del Sé, elemento fondamentale nella visione Sinistra/Satanica. Ma il Chöd rappresenta anche un Auto-Sacrificio volto all’ordine e ad un bene superiore, un gesto altruistico verso la comunità, giacché dal sacrificio dei Praticanti la popolazione ne riceveva protezione divina e prosperità. Come il dio Tyr per proteggere la sua gente sacrificò il proprio braccio destro - lato luminoso - allo stesso modo anche il Satanista, nella sua veste di guerriero, entra in contatto con il versante sinistro del Culto, penetrando nella Tenebra per poter liberare se stesso e di conseguenza liberare i membri della sua Razza Spirituale. A tal proposito mi viene alla mente una frase di Jodorowsky in Metagenealogia che mi colpì profondamente: “Il figlio ribelle che redime la stirpe”. La Caduta del ribelle diviene pertanto un’occasione collettiva di purificazione dai retaggi iniqui, poiché elevando se stesso attraverso l’Abisso, egli sublimerà così il suo stesso sangue. In questo modo l’aspetto oscuro del Satanista s’integra perfettamente con quello luminoso, generando una Tenebra Sacra modellata secondo i principi dell’amore numinoso e dei valori eroici.
Tenebra Fertile: quando l’Oscurità reca i frutti dell’Illuminazione
Chinnamastā in piedi sopra due amanti, mentre dalla sua stessa decollazione nutre gli Iniziati, una Madre Oscura che allatta i suoi figli con il sangue della vita eterna. Ma il connubio fra amore, morte, decapitazione e ricchezza è ricorrente in molti altri miti. Un esempio del tutto nostrano è la leggenda sicula delle Teste di Moro, vasi ornamentali a forma di testa adornati con motivi agresti. L’origine delle Teste di Moro risale circa all’anno 1100, per l’appunto sotto la dominazione dei Mori. A seguito la leggenda:
“Una bellissima fanciulla era quasi sempre in casa e trascorreva le sue giornate occupandosi delle piante del suo balcone. Un giorno si trovò a passare da quelle parti un giovane Moro che non appena la vide, subito se ne invaghì e decise di averla a tutti i costi. Egli senza indugio entrò quindi in casa della ragazza e le dichiarò immediatamente il suo amore. La fanciulla, colpita da tanto ardore, ricambiò l’amore del giovane Moro, ma ben presto la sua felicità svanì non appena venne a conoscenza che il suo amato l’avrebbe presto lasciata per ritornare in Oriente, dove l’attendeva una moglie con due figli. Fu così che la fanciulla attese la notte e non appena il Moro si addormentò, lo uccise e gli tagliò la testa. Della testa del Moro ne fece un vaso dove vi piantò del basilico e lo mise in bella mostra fuori nel balcone. Il Moro, in questo modo, non potendo più andar via sarebbe rimasto per sempre con lei. Intanto il basilico crebbe rigoglioso e destò l’invidia di tutti gli abitanti del quartiere che, per non essere da meno, si fecero costruire appositamente dei vasi di terracotta a forma di Testa di Moro”.
Questo mito popolare un po’ inquietante serve a spiegare l’origine leggendaria di questi splendidi prodotti artigianali che riempiono i cortili delle più belle dimore di Sicilia, tuttavia cela anche un significato esoterico che a seguito delle considerazioni fatte fino ad ora assume certamente il suo senso. Se analizziamo infatti questa breve storiella, ci rendiamo conto che si ripresentano alcuni fondamentali elementi simbolici, come ad esempio la dicotomia Eros e Thanatos, la decapitazione per mano di una donna e una testa che produce ricchezza. Anche qui, come nel mito di Chinnamastā, l’Eros è alla base della narrazione, tutto infatti comincia con l’uomo che s’innamora della fanciulla e ne viene ricambiato. La storia prosegue poi con una decapitazione e la conseguente creazione di una testa che “fa crescere rigoglioso il basilico”. Ora, forse ricorderete che nel paragrafo iniziale sull’Ordine Templare, in alcune deposizioni i Cavalieri testimoniarono di “una testa capace di creare ricchezza, di far fiorire gli alberi e germinare la terra”. Notate niente? Credo che il parallelismo con la testa decapitata del Moro sia abbastanza evidente. Altro dato interessante è che la testa umana decollata si sia poi trasformata in un vaso, cosa che ci riporta ai vasi celebrativi dell’Osireion ad Abydos, città in cui era onorata la testa mozzata del dio Osiride. Infine, curiosità tutt’altro che irrilevante, sarebbe opportuno porre l’accento sul fatto che la testa decapitata nel mito siciliano è proprio quella di un Moro, ossia un berbero, qualcuno che sicuramente i Templari, come abbiamo visto, avrebbero potuto descrivere “in figuram baphometi”. La testa mozzata come fonte di fertilità e ricchezza la ritroviamo anche in un’altra leggende diffusa proprio fra i Templari in Terra Santa:
“A Sidone vi era un nobiluomo profondamente innamorato di una fanciulla armena, ma non venne mai ricambiato. Dopo la morte della donna, non appena ella venne sepolta, l’uomo violò la sua tomba per congiungersi carnalmente con l’amata. Non appena consumato l’atto, una voce ordinò all’uomo di tornare in quella tomba per poter raccogliere il frutto di quel macabro amore. L’uomo obbedì e dopo nove mesi tornò alla tomba, trovando fra le gambe dell’amata defunta una testa umana. Allora la stessa voce che aveva udito nove mesi prima parlò ancora e gli intimò di conservare quella testa, giacché da essa sarebbero derivate tutte le sue ricchezze”.
Anche in questa leggenda spicca il ruolo fecondante della morte, capace di dare i natali non a un semplice essere terreno, bensì ad una creatura prodigiosa, che potremmo equiparare all’Iniziato asceso al piano divino. L’uomo che si unisce in copula alla morte è un’immagine perfettamente aderente alla Dea Oscura in piedi sull’Iniziato, la Kali eretta sul cadavere di Shiva con il fallo eretto, Chinnamastā che si auto decapita sopra i due amanti o sul Dio dell’amore. E ovviamente ritorna la presenza di una testa sacra capace di generare ricchezze, esattamente come nella leggenda delle Teste di Moro e in quella del Baphomet templare.
Ma le connessioni non finiscono qui e a tal proposito mi torna alla mente un mito legato ad un popolo a me molto caro, ossia gli Sciti. Nel meraviglioso libro Storie degli Sciti, Dumézil riporta un racconto tratto dal ciclo dei Narti, popolo mitico della cultura scitica/osseta [ma anche circassa e abhkaza] in cui viene spiegata l’origine del gioco della Dama sulla scacchiera. Il protagonista della vicenda è Soslan, grande fra i Narti, il quale dopo aver inventato il gioco della Dama passa il suo tempo a giocarci da solo. A chiunque gli chieda di poter giocare con lui, Soslan risponde: “Giochiamo. Ma se vinco io ti uccido e se vinci tu ti uccido comunque”. Davanti a questo monito decisamente poco incoraggiate, nessuno accetta di rischiare la vita giocando con Soslan, tranne un giovane ragazzo, uno straniero venuto da lontano che nonostante la pericolosità del gioco accetta la sfida. Il ragazzo la prima volta perde ma riesce a convincere Soslan a dargli un’altra possibilità. La seconda volta vince ma prima che Soslan possa ucciderlo, fugge via verso la steppa. L’eroe Narto infuriato corre all’inseguimento del ragazzo, lo vede salire su di un Kurgan [una tomba scita] e all’improvviso scomparire nel nulla. Soslan è molto colpito da quel fatto e così decide di entrare nel Kurgan, dove trova una bellissima donna morta. Mentre il protagonista resta ad osservare la donna, il ragazzo che lo aveva vinto a Dama ricompare da una porta del Kurgan, lo saluta divertito ed esce nuovamente da un’altra porta. Soslan è sempre più sgomento, dato che al passaggio del ragazzo le porte della struttura funeraria svaniscono nel nulla. Il ragazzo fa più volte la sua apparizione, a volte con fattezze molto giovani ed altre da vegliardo, e lo stupore dell’eroe induce la donna morta a ridere di lui. Ella si rianima dal torpore della morte e dialoga con Soslan, facendogli scoprire che lei non era altro che la ragazza che molto tempo prima aveva amato e che prima di sposarsi morì. La donna ricorda a Soslan quando egli, distrutto per il dolore di non averla mai avuta, entrò nel suo Kurgan e di come si unì carnalmente al suo corpo senza vita. La morta continua raccontando che quel ragazzo capace di viaggiare fra i mondi era niente meno che loro figlio, nato da quel macabro amplesso. Fu così che Soslan si convinse a non essere più così avido e a dividere il gioco della Dama con tutti gli uomini.
In questo breve racconto tutto è da leggersi in chiave allegorica, dove persino il gioco della Dama, con le sue regole e la scacchiera, richiama ad importanti concetti esoterici che sicuramente i lettori avvezzi all’ermetismo coglieranno. Come per le leggende precedenti anche qui ritroviamo la presenza di una morte che genera vita preternaturale, nel caso specifico un essere capace di viaggiare nel tempo e nello spazio, oltre i confini del mondo fenomenico. Troviamo in qualche modo anche il ruolo iniziatico della donna, poiché è infatti la amata defunta a offrire al protagonista la rivelazione, paragonabile all’illuminazione iniziatica. Infine troviamo l’elemento della ricchezza, che nel mito Narto non si traduce in fecondità agricola bensì nel gioco della Dama offerto a tutti.
[Riguardo agli Sciti avrei piacere di rendervi partecipi di un’importante scoperta del mio Cammino, ma per non rischiare di uscire troppo fuori tema, se v’interessa v’invito a cliccare sul seguente Link: BREVE DIGRESSIONE PERSONALE SUGLI SCITI]
Il popolo scita, di cui ho fatto un breve accenno nel link soprastante e di cui parlerò più approfonditamente in articoli futuri, era un popolo guerriero decisamente sanguinario, ma era anche noto per la realizzazione di meravigliose opere d’arte in oro. Fra queste opere spicca una rappresentazione della dea Argimpasa, la quale è associata anche alla mitica Madre dei Narti che, come abbiamo detto nella Digressione Personale sugli Sciti, si chiamava niente meno che Satana. Come potete vedere nell’immagine accanto, questa Signora veniva rappresentata come Kali con una testa mozzata in mano e, cosa decisamente interessante, qualcuno ha teorizzato che lo stesso mito biblico di Salomè derivi proprio da Argimpasa, ma di questo ne parleremo meglio fra poco. Come ho accennato, il popolo scita, nonostante il suo onorevole culto e l’inclinazione artistica, era un popolo guerriero che non lasciava spazio alla pietà. Per gli Sciti era cosa comune decapitare i propri nemici e le teste venivano spesso tenute come trofei da attaccare ai propri cavalli o addirittura lavorate e usate come tazze da cui bere il vino - sàne - e una particolare bevanda sacra che Satana era molto brava a preparare, una sorta di idromele molto forte detto rong. Un’usanza simile la erediteranno poi anche i Celti che, così come anche i Germani, devono davvero molto alla tradizione dei grandi signori delle steppe.
I Celti, che a differenza degli Sciti oggi sono decisamente molto più conosciuti, ci hanno regalato numerose testimonianze storiche della loro immensa fascinazione verso la testa umana. Per questo popolo la testa ha sempre rappresentato la sede del potere spirituale insito nell’uomo e ciò è documentato anche dal ritrovamento di numerose teste nei santuari provenzali, teste spesso di giovani uomini offerte agli Dei o, se mi è concesso avanzare un’ipotesi, ad una Dea in particolare. Gli autori classici c’informano anche che presso i Galli - nome che in epoca Romana veniva attribuito ai Celti - era usanza comune “cacciare teste”. Non era infatti raro che durante la battaglia i guerrieri Celti decapitassero i propri nemici e, proprio come gli Sciti, ne appendessero poi la testa alle selle dei propri cavalli, alle porte delle case, impalandole alla punta delle proprie lance o anche sulla cima di pali infilzati nel terreno.
[A tal proposito mi viene in mente di come nel culto di Dioniso i suoi seguaci solessero onorarlo con dei pali sormontati da maschere antropomorfe, Suo emblema teofanico. Ricordiamo che Dioniso/Zagreo è anch’Egli noto come Osiride per il suo smembramento rigenerativo e salvifico.]
Talvolta le teste dei nemici più valorosi venivano persino imbalsamate con olio di cedro e conservate nelle proprie case come monili preziosi. So bene che tutto questo per noi moderni occidentali può sembrare un terrificante atto di crudeltà ma per i Celti, così come per gli Sciti, tale pratica era corroborata da una profonda etica spirituale fondata sulla sacralità e sull’onore. Per questi popoli tagliare la testa del nemico ucciso rappresentava non soltanto la dimostrazione del proprio valore in battaglia ma anche il riconoscimento a quello dell’avversario. Questo è dimostrato anche dalla metodica cultuale con cui spesso venivano trattate le teste dei nemici più illustri. Noto è ad esempio il caso del 216 a.e.v. in cui i Boi, popolazione celtica originaria dell’Antica Gallia e stanziati nel Nord Itala, uccisero il generale romano Postumius, gli tagliarono la testa, per poi infine dorarla ed utilizzarla come coppa rituale. Per i Celti la testa era oggetto di culto ed è anche per questo che gli stessi Dei venivano rappresentati spesso come teste umane o teste cornute, mentre alle volte a figura intera ma con teste mozzate in mano. Esattamente come nel mito del Baphomet templare, anche presso i Celti la testa mozzata era fonte di ricchezza e prosperità, come racconta ad esempio la leggenda dell’enorme testa dell’eroe Conall Cernach, la quale, se riempita di latte, aveva il potere di ridare forza ai guerrieri dell’Ulster. Particolare attenzione andrebbe poi posta sulla figura dell’eroe gallese Bendigeidfrân, più noto come Brân il “Corvo Benedetto”, il quale, dopo essere stato ferito a morte dal nemico, ordina ai suoi compagni di tagliargli la testa e portarla a Londra, sulla Collina Bianca, al fine di compiere un rito d’immortalità.
Pàthei Màthos: l’avversità come strumento di conoscenza e rafforzamento
La decapitazione, lo smembramento, l’auto-sacrificio, sono concepiti nell’Iniziazione Oscura come evoluzione spirituale, come linfa vitale che nutre l’esistenza e che innesca il processo per la più alta forma di Liberazione, una libertà pura poiché ascritta alla qualità dell’essere e non una libertà plebea dettata solo dalla quantità del fare. Nella Tradizione l’incontro fra il sangue e la terra ha sempre rappresentato una sacra unione e persino la creazione del cosmo è stata spesso collegata all’immolazione di una divinità. Il sangue è un fluido potente, il legittimo custode della nostra Anima e della nostra Memoria, e da sempre è stato effigiato come l’elisir salvifico aldilà di ogni disgregazione. Basti pensare ad esempio al mito di Adone, personaggio della mitologia greca che incontrerà una morte dai contorni sacrificali. Nel X libro delle Metamorfosi, Ovidio ci racconta di quanto la Dea Afrodite fosse innamorato del bellissimo Adone e di come Ella soffrì quando durante una battuta di caccia Egli venne ferito mortalmente da un cinghiale. Secondo il mito, dal sangue del fanciullo ucciso nacquero le anemoni, mentre dalle lacrime disperate di Afrodite sorsero le rose. In altre versioni i due fiori sono invertiti.
Questo aneddoto mitologico può essere inteso come allegoria del potere vitalizzante del sangue, capace di far crescere la vegetazione, capace più genericamente di Creare, elemento che ritroviamo nella testa dei Templari, nella Leggenda delle Teste di Moro e nei vari racconti d’esempio che abbiamo sinora analizzato. Tuttavia son dell’avviso che nel mito di Adone il fattore rigenerante non sia da rintracciarsi unicamente nel sangue, tanto meno in tal circostanza c’è di mezzo una decollazione. La narrazione ovidiana c’informa di come la Dea innamorata mise in guardia il suo pupillo, invitandolo a dar la caccia solo a prede facili e non a fiere pericolose, come appunto i cinghiali. Adone però non diede ascolto alla Dea, decise di cacciare un cinghiale e finì così dilaniato dalla sua zanna. Qui la più facile interpretazione del mito sarebbe alludere ad una punizione divina, ma sinceramente propendo per una spiegazione meno riduttiva. Come abbiamo visto, infatti, a far fiorire le anemoni e le rose non è unicamente il sangue di Adone, ma sono anche le lacrime di Afrodite e da ciò ritengo che sia possibile desumere la reale chiave di tale prodigio: il dolore. Ovviamente non mi riferisco al semplice dolore fisico provato dal giovane, bensì alla sofferenza spirituale arrecata dal suo atto di coraggio. Adone coglie la sua sfida con la natura, affronta il pericoloso cinghiale e trova così la morte, una fine che però si rivelerà preludio di un nuovo inizio. Adone in tal frangente rappresenta l’Iniziato che supera la paura e va oltre la legge stessa rappresentata dal monito di Afrodite, incontrando così non solo la sua morte ma anche la sua immortalità.
Secondo altre versioni del racconto, il cinghiale sarebbe niente meno che il Dio Ares ingelosito. Non so voi, ma a me questa possibilità porta subito alla mente il mito di Ganesha citato precedentemente. Ganesha era molto amato dalla Dea, la quale un giorno decise di farsi un bagno nel fiume e gli ordinò di controllare che nessuno venisse a spiarla. Quando Shiva giunse in prossimità del fiume, Ganesha gli sbarrò la strada e a quel punto il Dio infuriato lo decapitò. La Dea Madre ne fu straziata e così Shiva, per lenire quel dolore, rese Ganesha immortale sostituendo la sua testa. Come possiamo notare esistono delle discrete analogie fra i due personaggi: entrambi sono amati dalla Dea, entrambi ricevono un ordine da Lei [che Ganesha rispetta e Adone infrange, ma che comunque li portano a compiere un atto di coraggio] e infine entrambi vengono uccisi da un Dio furioso [Shiva o Ares]. Anche la resurrezione è in entrambi i racconti collegata al dolore della Dea: nel caso di Ganesha in modo esplicito, mentre per Adone attraverso le lacrime di Afrodite, che generano a loro volta fiori. È bene però ricordare che il mito di Adone non va inteso in modo così semplicistico; intorno alla sua figura, infatti, si teneva un vero e proprio culto misterico che prevedeva eros, morte e rinascita. Un esempio lo troviamo nei santuari di Astante a Byblo, dove durante le sue celebrazioni, le Adonie, dopo le lamentazioni per la sua morte, i fedeli ne cantavano anche la resurrezione.
Il concetto di sofferenza come forma di evoluzione è rintracciabile nella filosofia greca, in particolar modo attraverso il pensiero di Eschilo, grande drammaturgo noto per essere stato precursore della tragedia greca. Eschilo nacque nella sacra città di Eleusi e con molta probabilità ne fu Iniziato ai Misteri. La vera rivoluzione eschilea sta nel ribaltamento del concetto di punizione divina. Per gli antichi Greci la sofferenza umana era il derivato della hybris, ossia quella smisurata superbia capace di rendere l’essere umano talmente ambizioso e tracotante da poter persino arrivare a trasgredire i limiti imposti dagli Dei. Secondo la mentalità ellenica del tempo, quando un uomo rapito dalla propria hybris avesse osato diventare troppo potente, egli sarebbe finito immancabilmente in rovina, poiché vittima dell’invidia degli Dei. Per Eschilo, invece, gli Dei erano entità troppo sapienti e giuste per cedere a bassi istinti come l’invidia, perciò elaborò una nuova visione della sofferenza, dove la punizione non era mandata dagli Dei per capriccio divino, bensì come forma di educazione spirituale. Il concetto di dolore in chiave eschilea è notoriamente riassunto nel motto Πάθει μάθος “pàthei màthos”, letteralmente "imparare soffrendo". Nell’ottica della tragedia greca - a mio avviso spesso veicolo di messaggi esoterici occultati - il ruolo della sofferenza è necessario alla comprensione e al riscatto personale del protagonista, il quale spesso si ritrova ad essere vittima della propria hybris poiché deve rivivere sulla sua pelle una colpa ereditata dagli Avi. Questo ancora una volta mi riporta alla mente la frase di Jodorowsky citata in precedenza: “Il figlio ribelle che redime la stirpe”.
Secondo tale lettura, la stessa hybris assume un’accezione se non positiva quanto meno utile all’evoluzione personale dell’individuo, poiché attraverso quel desiderio di trasgredire i limiti imposti dalla società e dagli stessi Dei, l’eroe trovava il modo per redimere la sua stirpe da antichi peccati, nonché di poter lui stesso accedere ad un nuovo livello di consapevolezza. L’hybris distruttiva è a mio avviso quella tipicamente moderna, quella votata soltanto all’avere, quella dell’uomo gretto che in nome dell’ignoranza e della cupidigia conferma la propria stupidità schiacciando sotto i suoi piedi le leggi della natura, illudendosi di esserne immune, di non farne parte. Ma quando l’hybris è invece votata all’essere, quando l’hybritès è qualcuno che sceglie di oltrepassare i limiti imposti, al puro scopo di travalicare con essi i suoi stessi limiti personali, fisici e interiori, allora l’hybris diventa a tutti gli effetti il fuoco mercuriale che purifica e innalza. Ed è proprio nel contesto di questa catarsi che il Satanista scopre il valore del pàthei màthos, interpretando un ruolo prometeico che lo condurrà a una Sapienza che va ben oltre lo scibile umano. L’Auto-Sacrificio dell’eroe satanico non va però confuso con il “martirismo” giudeo-cristiano. Nel Giudeo-Cristianesimo il concetto di sacrificio ha assunto le forme del pietismo, dove la stessa debolezza e l’autocommiserazione vengono innalzate a virtù. Al contrario nel Satanismo, le persone che per scelta vogliono imporsi il ruolo dell’eterna vittima, al fine magari di essere compatite, non sono in alcun modo considerati dei modelli di virtude. Nel Culto di Satana le tare personali non sono qualcosa che viene “coccolato”, noi non compatiamo chi sceglie la debolezza e non vogliamo essere compatiti, poiché preferiamo usare la nostra stessa fragilità come strumento di auto fortificazione. Premetto che non c’è niente di sbagliato nell’avere delle debolezze, ma sicuramente lo è l’arrendersi ad esse. Allo stesso modo non c’è niente di sbagliato nemmeno nel cadere, anzi, il Satanista spesso ricerca la caduta al fine di mettersi alla prova, tuttavia la sua catabasi è sempre rivolta all’ascesa e non è mai un mero atto di autodistruzione. È per questo che il pàthei màthos non ha niente a che fare con l’autoflagellazione giudeo-cristiana, bensì è una forma di sofferenza comparabile semmai a Prometeo che viene punito per aver rubato il Fuoco agli Dei o anche a Odino che s’immola all’albero cosmico Yggdrasil per ottenere la Sapienza delle Rune.
Pàthei màthos è però un concetto così profondo che non può ridursi unicamente al dolore educativo. Certo, la sofferenza ci insegna e ci fortifica, ma da sola non basta a superare davvero certi confini. La sofferenza in sé rappresenta solo un mezzo, sarà poi il lavoro che andremo ad operare su noi stessi a determinare la vera magia interiore. Una persona tormentata sarà sempre più incline a chiudersi dentro di sé, a osservare di più la propria anima, senza lasciarsi distrarre troppo da quelle dinamiche terrene che spesso ci portano lontani da noi stessi. Se il benessere terreno, tipico di chi sedimenta nella propria zona di confort, è spesso un velo ottenebrante che ci separa dal nostro mondo interiore, la tensione emotiva ci riconnette invece alla verità e a tutto ciò che realmente conta, senza edulcorazioni e mezze misure. Allo stesso modo il dolore acuisce la nostra sensibilità, rendendoci dunque più empatici verso la sofferenza altrui. Spessevolte per poter aiutare gli altri occorre capire che cosa stanno provando e per capirlo davvero dobbiamo averlo provato a nostra volta, aver sentito ciò che sentono e fare dunque della nostra esperienza un porto sicuro per gli altri. Non è infatti raro, anche in contesto del tutto quotidiano, rendersi conto che le persone più ferite sono spesso anche le più profonde, empatiche e consapevoli, mentre coloro che hanno avuto la “sventura” di avere un’esistenza troppo semplice si rivelano in molti casi persone più superficiali, poiché anestetizzate dall’eccessivo benessere. Purtroppo quando la gabbia è troppo confortevole è più difficile accorgersi di essere prigionieri.
È bene anche specificare che il pàthei màthos non è certo masochismo. Limitarsi unicamente a soffrire, abbandonarsi alla propria catabasi senza reagire, non ha niente a che vedere con la sofferenza iniziatica di cui parlo, una sofferenza che per altro non consiste soltanto nel semplice dolore, ma anche in tutte quelle emozioni che portano ad una sfida con noi stessi, come appunto la rabbia, l’inquietudine, la nostalgia, o la paura. Questa tensione spirituale è sempre votata alla dinamicità e deve portare l’Iniziato ad affrontare il suo dolore senza annegarci dentro. A tal proposito mi viene in mente la scena di un noto libro di Ende, La Storia Infinita, quando il piccolo Atreiu e il suo cavallo Artax, per proseguire nella loro Grande Ricerca, devono per forza attraversare le Paludi della Tristezza. I due con non poche difficoltà incedono lentamente nella melma della palude, pervasi da grandissima tristezza, ma il povero cavallo d’un tratto si ferma e viene così tirato giù dalle sabbie mobili. Atreiu, invece, riesce ad avanzare e si salva. Questo passo de La Storia Infinita, libro ricco di ermetismi, fa comprendere come sia indispensabile per ogni Iniziato aver il coraggio di penetrare nelle proprie Paludi della Tristezza ma senza ristagnare in esse. Fermarsi nell’Abisso, lasciandosi dominare dalla paura e dal dolore, significa morte. Entrarci dentro e attraversarlo, senza smettere di avanzare, allora significa pàthei màthos, imparare dal proprio dolore. Perché come scrisse Virgilio in Eneide VI, 126-129 :
“Facilis descensus Averno:
noctes atque dies patet atri ianua Ditis;
sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
hoc opus, hic labor est”.
[Traduzione: Scendere agli Inferi è facile:
la porta di Dite è aperta giorno e notte;
ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo,
qui sta il difficile, qui la vera fatica.]
Tracce dell’Iniziazione Eretica nel Cristianesimo
Fino ad ora abbiamo scavato nelle varie tradizioni antiche alla ricerca di quegli elementi tipici dell’Iniziazione Oscura che Baphomet rappresenta, ridefinendo sempre di più i tratti del Maestro Occulto celato dietro la sua effige. In tempi relativamente più moderni potremmo trovare connessioni all’Auto-Sacrificio anche nel mito del Cristo, ovviamente da interpretarsi nella sua configurazione gnostica. Anche il Cristianesimo, infatti, ha avuto il suo misticismo, dovuto principalmente ad alcune sette eretiche che hanno saputo rileggere i racconti biblici in chiave iniziatica. Il Cristianesimo nacque come setta ebraica, molto probabilmente di stampo esseno, e quando penetrò in terra Romana fu inevitabile che la natura Gentile rielaborasse alcuni tratti di tale prodotto ebraico. Questo rese a tutti gli effetti il Cristianesimo una versione “inGentilita” di Ebraismo, dove la stessa figura cristica era diventata col tempo una sorta di simulacro del popolo Gentile, che inconsciamente cercava un modo per adattare la propria natura ad una religione così estranea.
Un esempio di questa scissione interiore la troviamo in quella che io chiamo ironicamente “la prova del 40”. Per farla breve, nel Vangelo Cristo sta per 40 giorni nel deserto e viene tentato da Satana, il quale gli promette il potere sul mondo in cambio di adorazione, ma Cristo non si piega. Allo stesso modo nell’Antico Testamento gli Ebrei restano per 40 anni nel deserto e vengono tentati da Yahweh, che gli promette il potere sul mondo in cambio di assoluta adorazione. Gli Ebrei a differenza di Cristo accettano e suggelleranno questo accordo definendolo “Alleanza”, sebbene abbia tutti gli attributi disonorevoli del famigerato “patto col diavolo”. Questi due passi del Vecchio e del Nuovo Testamento sono talmente simili da renderne inevitabile la comparazione e da tale raffronto risulta evidente che la versione evangelica rappresenta il goffo tentativo di riscrivere il mito ebraico in chiave Gentile, reinterpretandolo sulla base della propria indole naturale. Un Gentile, cresciuto con i valori eroici propri del suo sangue, non si sarebbe mai piegato ad un Dio che tenta di corromperlo con promesse materiali e pertanto il Gentile proietta così la sua natura su quella del Cristo che, appunto, rifiuta l’offerta. Un altro elemento su cui porre l’accento è anche l’evoluzione del tentatore biblico: nel Vecchio Testamento è rappresentato da Yahweh con il benestare del suo popolo, il quale non lo condanna poiché vive il suo tentativo di corruzione come qualcosa di normale, mentre non appena la radice ebraica entra in terra Gentile attraverso la formulazione del Vangelo, la corruzione divina diviene anormale e malefica, e pertanto nasce l’esigenza di scaricare l’amoralità di Yahweh su Satana. Con il Giudeo-Cristianesimo gli antichi Dei non solo dunque vengono ingiustamente defraudati da Yahweh di tutte le loro virtù, ma si trovano pure costretti a divenire capro espiatorio di tutti i suoi peccati.
Il Cristianesimo è nato dunque come una versione di Ebraismo inGentilito e con il tempo per poter sopravvivere in terra Romana ha dovuto attingere in modo sempre più palese dalla Vecchia Religione, sostituendo i nostri Dei coi loro santi e costruendo le loro chiese sulle macerie dei nostri templi. Tuttavia all’inizio il Cristianesimo era soltanto una creatura ancora informe, dove la natura Ebraica e quella Gentile s’incontravano e scontravano, in un terremoto animico che portò alla creazione di un libro rivelato d’indubbia bipolarità. Tralasciando dunque il Vecchio Testamento, eredità totalmente giudea, è abbastanza normale che leggendo invece il Vangelo si possano trovare in esso tante corruzioni ma anche sottili verità di matrice Gentile, soprattutto se interpretate in chiave simbolica come ho fatto io per voi nella “prova del 40”. Questo spiega perché molte sette eretiche ispirate al Cristianesimo Gnostico avessero spesso tratti luciferini, in parte molto simili a noi. I primi Gentili convertiti, così anche come alcuni santi cristiani in buona fede - citerei ad esempio San Francesco - trasferivano su quel Gesù ebreo l’emanazione dell’eroe Gentile che albergava nei loro cuori. Ovviamente in seguito, più il tempo passava più quella piccola fiamma Gentile si affievolì fino quasi a scomparire, lasciando spazio soltanto alla radice yahwehiana. Tuttavia per colui che sa ancora scavare nel fango della menzogna non è impossibile trovare anche in seno al Cristianesimo preziose simbologie iniziatiche, e quella che a noi ora interessa per proseguire sul Sentiero di Baphomet riguarda niente meno che il Calvario del Cristo.
Il termine calvario, utilizzato oggi in senso figurativo per indicare una grande tribolazione, era in origine il nome dato alla collina su cui ebbe luogo la crocifissione del Cristo. Tale luogo è chiamato anche Golgota, dall’aramaico gūlgūtā, e significa “il luogo del cranio”. La ragione principale per cui questo colle prende tal nome infausto ha diverse spiegazioni; secondo la versione più semplice ciò è dovuto alla presenza dei molti teschi che affiorano dal terreno, mentre secondo quella mitica, il Golgota sarebbe stato niente meno che il luogo in cui fu sepolto Adamo. Aldilà di queste speculazioni credo che la cosa evidente sia la correlazione fra il Sacrificio del Cristo e il Golgota, ossia il cranio, la testa. Questa diade è stata infatti la costante con cui abbiamo condotto il nostro viaggio all’interno di questa lunga esposizione, un collegamento che come avrete ormai intuito è tutt’altro che casuale. È bene anche far notare che il sacrificio cristico incarna a livello iniziatico un Auto-Sacrificio, poiché egli in tal circostanza attua un processo che potremmo definire come un “sacrificarsi a se stesso”. Nel mito cristiano Gesù è Dio e pertanto la crocifissione si può vedere come un sacrificio alla stessa divinità che vive in lui. Allo stesso modo l’Iniziato nel suo Auto-Sacrificio simbolico si sacrifica a se stesso, giacché attraverso quell’atto egli raggiunge la propria divinità interiore. Il Calvario del Cristo è la Notte dell’Anima dell’Iniziato che affronta l’Abisso, e la Resurrezione del Nazareno è altresì la rappresentazione del Sole che risorge, la rinascita dell’Iniziato rinnovato. Nel mito cristico possiamo ritrovare molti Dei ed eroi del passato, come appunto Osiride, Ishtar, Kore, Tammuz, Attis, Adone, Krishna, Ganesha… insomma, una lista infinta di personaggi morti e rinati, discesi e ascesi.
Finora abbiamo analizzato il Calvario del Cristo sulla base della leggenda e del significato, ma ora vorrei provare a farvi riflettere anche sul suo significante, ovverosia osservandolo semplicemente nella sua rappresentazione iconografica. Le immagini, si sa, spesso rivelano molto più delle parole e secondo me osservando Cristo in Croce sul Golgota, possiamo vedere niente meno che un cerchio - il Golgota, il cranio - sormontato da una croce. Questa immagine mi porta alla mente diverse simbologie e tutte piuttosto pertinenti.
Il simbolo più elementare che possiamo scorgervi è la cosiddetta Croce Celtica, più precisamente la Croce Solare, uno dei più antichi simboli del sole. Essa è stata associata al dio norreno Odino, mentre la sola croce senza il cerchio è detta invece Croce di Brigid, Dea celtica della saggezza e della guerra, Colei che incarna il Fuoco Sacro dell’Iniziazione. La Croce Solare, secondo me, oltre al sole potrebbe rappresentare anche il Tempo, giacché ad essa è riconosciuto il suo ruolo raffigurativo della ruota annuale, fatta appunto dalle quattro stagioni, così come le quattro fasi della giornata. A tal proposito potremmo ricordare che la nostra Kali è considerata anche La Signora del Tempo dinamico, immutabile nel suo ciclo perenne. La Croce Solare rappresenta anche le quattro fasi del movimento solare, un percorso da sempre legato a doppia mandata con il processo iniziatico. Infine essa è anche il simbolo dell’evoluzione umana, poiché ritrae in modo simbolico l’unione di terra - linea orizzontale - e spirito - linea verticale - in un singolo punto centrale: l’essere illuminato. La Croce Solare è considerata anche semplicemente un simbolo della Terra, poiché essa racchiude in sé tutti gli elementi e il potere stabilizzante del numero quattro. Il piano terreno, solitamente demonizzato nelle dottrine di mano destra, è considerato invece nel Satanismo come un mezzo utile all’evoluzione personale. Il Satanista sa che il piano terreno è illusorio, ma anziché rifiutare l’illusione chiudendosi in una rinnegazione statica, preferisce cavalcare le sue trame apparenti in modo dinamico e risoluto. Qui torniamo al concetto di ciò che definisco T.U., il Tessuto Umido con cui l’Iniziato interagisce nella sua Via Dei Segni.
Esiste poi proprio in ambito templare una particolare usanza che potrebbe afferire all’imago del Cristo sul Golgota e alla Croce Solare. Come tutti certo sanno, il simbolo per antonomasia dell’Ordine Templare è il gonfalone baussant, il noto vessillo nero e bianco - e talvolta solo bianco - con al centro la tradizionale croce patente in rosso. Questo stendardo veniva custodito dal Maestro del Tempio e usato in battaglia dalla cavalleria di terra. Esisteva però anche un altro simbolo utilizzato dai Templari, in particolare dalla flotta navale del Cavaliere Roger da Flor, capitano di uno dei maggiori vascelli dell’Ordine, il Falcone. Sto parlando del Jolly Roger, la celeberrima bandiera nera dei pirati raffigurante un teschio su due tibie incrociate - che secondo alcune versioni sarebbero femori. La cosa però veramente interessante è la possibile ragione dietro a questo simbolismo, relativa alla particolare usanza di cui appunto vi accennavo. Il rituale di sepoltura templare era infatti alquanto singolare e consisteva nello slogare le gambe del defunto all’altezza del bacino e porle incrociate sul suo petto. La testa veniva infine decapitata e posta sopra le due gambe incrociate. Come dicevamo, questa immagine ricorda chiaramente la croce e il cerchio della Croce Solare e la croce e il cranio del Cristo sul Golgota. Per i Cavalieri del Tempio, come abbiamo visto, la testa aveva un grande valore e di fatti lo stesso idolo templare è descritto come una testa sacra. Occorre inoltre aggiungere che anche le gambe incrociate erano un simbolismo rilevante all’interno del mythos templare: esse rappresentavano il Cavaliere Iniziato, come rivelano alcune opere presenti nella Round Church Templare di Londra.
Breve riflessione sul Sigillo di Lucifero
A tal proposito vorrei aprire una breve riflessione sul Sigillo di Lucifero e proporvi una sua possibile interpretazione. Come abbiamo visto nell’analisi iniziale sulla testa di Osiride, esiste una chiara connessione fra testa e vaso. La stessa lingua latina in origine usava il termine testa per identificare il vaso. Come abbiamo largamente illustrato, la testa può essere concepita come il “vaso spirituale”, il grembo capace di partorire l’essere ultraterreno per mezzo di Thanatos, così come il ventre materno è il “vaso carnale” capace di partorire l’essere terreno per mezzo di Eros. Se osserviamo il Sigillo di Lucifero possiamo secondo me intravedere entrambi questi due vasi. Nella parte alta del Sigillo possiamo scorgere il “Vaso Spirituale di Thanatos”, un triangolo rovesciato, simbolo del Graal, sul quale s’intersecano due lunghe linee che vanno a formare una X. Non so voi ma per me non è difficile collegare questa immagine a quella del Jolly Roger, il teschio sopra le due tibie incrociate, a quella del rituale di sepoltura templare con il teschio posato sopra le due gambe incrociate, così come alla Croce Solare e al Crocefisso sul Golgota, entrambi fatti da una testa e una croce. La parte sotto del Sigillo potrebbe invece rappresentare il “Vaso Terreno di Eros”, poiché possiamo vedervi abbastanza chiaramente il simbolo del fallo [la lama] raffigurato da un triangolo aperto con la punta volta all’insù, e il simbolo dell’organo genitale femminile, [il calice] rappresentato da un triangolo aperto con la punta rivolta verso il basso. Questi due triangoli intersecati potrebbero richiamare proprio alla Ierogamia, il sesso rituale che genera la vita e innalza le energie. In tal modo abbiamo una parte alta del Sigillo legata al mondo preternaturale, thanatico, dove un’oscura porta conduce alla rinascita spirituale, e una parte bassa legata invece al mondo naturale, erotico, dove una porta luminosa conduce alla nascita terrena. Altro dettaglio particolare è da riferirsi a quello che abbiamo identificato come simbolo erotico maschile, la lama: il triangolo aperto con la punta rivolta verso l’alto prosegue infatti in due linee curve che lo fanno sembrare molto simile al simbolo astrologico dell’Ariete, segno marziale fortemente legato agli Dei primaverili della vegetazione, che nel corso di questa esposizione abbiamo spesso citato, come ad esempio Adone, Attis, Tammuz, Dioniso, Dei per altro fortemente connessi all’Iniziazione Misterica.
Infine concludo questa parentesi sul Sigillo di Lucifero aggiungendo un altro piccolo dettaglio numerico: se osserviamo il simbolo possiamo notare come spicchino due numeri romani, ossia il dieci - la grande X centrale - e il cinque - la V sottostante. La loro somma dà quindici, numero abbastanza attinente al nostro studio. Il numero 15 è infatti il numero della quindicesima carta dei Tarocchi, il Diavolo, il che potrebbe già essere abbastanza per desumere una connessione attendibile con il Sigillo di Lucifero. Tuttavia voglio aggiungere altri collegamenti interessanti. Il primo è legato alla Dea Madre, in particolare al suo aspetto tellurico/lunare, poiché il quindici unito al Femminino assume un’accezione misterica, come ci suggerisce lo stesso percorso lunare che, per raggiungere la massima maturità, ha bisogno di quindici giorni. Il quindici nel mese sinodico di ventinove giorni corrisponde al plenilunio, fase lunare di maggiore intensità, e non a caso tale numero era considerato sacro alla Dea sumera/babilonese Inanna/Ishtar. Altro esempio è il racconto simbolico della Presentazione di Maria al Tempio, citato nei vangeli apocrifi, testi caratterizzati da contenuti fortemente gnostici. Maria bambina che sale verso il Tempio deve infatti salire niente meno che quindici scalini e questa è un’allegoria per indicare il percorso della luna. Concludo questa divagazione sul Sigillo di Lucifero citando l’ultimo riferimento che mi viene in mente in merito al numero quindici, ossia il quadrato magico di Saturno, pianeta che, come scopriremo più avanti, è tutt’altro che estraneo alla nostra ricerca. Per chi non lo sapesse, il quadrato magico è uno schieramento di numeri inseriti in una tabella quadrata, dove la somma dei numeri presenti in ogni colonna, in ogni riga e in ogni diagonale, dà sempre lo stesso risultato, denominato costante magica. Il quadrato magico di Saturno ha come costante magica il numero quindici. Questo quadrato deriva dall’antica Cina, la cui leggenda narra di come l’imperatore Yu se ne stesse seduto tranquillo sulle rive del fiume Lo, quando vide emergere dalle acque la tartaruga Shu, la quale aveva sul suo guscio il quadrato magico di Saturno.
Da questa interpretazione potremmo dunque vedere nel sigillo di Lucifero l’unione delle energie thanatiche ed erotiche, morte e amore, ma anche anima e corpo, spirito e materia, dicotomie intese in chiave più ampia come la sintesi delle energie oppositive che governano il Tutto. Un simbolo che nei fatti ci comunica un significato non poi così diverso da quello espresso dallo stesso Caduceo o del Tridente, ossia un’armoniosa unione di forze apparentemente opposte e complementari, integrazione da cui sorge il Tre, il Terzo Serpente, la Terza Via. Ovviamente non intendo assolutizzare questa interpretazione del Sigillo di Lucifero, ma data l’importanza del Dio all’interno dell’Iniziazione Occulta, credo che sia un’ipotesi interessante e mi auguro che possa risultarvi un utile spunto di riflessione.
Il dio Giano e il Giovanni Battista
Proseguendo il nostro cammino sul versante mistico del Cristianesimo non possiamo non citare Giovanni Battista, personaggio molto amato dall’Ordine dei Cavalieri Templari. Se ben ricordate abbiamo per altro già citato Giovanni Battista nella disquisizione sulla testa sacra di Osiride, evidenziando come l’origine del nome Giovanni fosse assonante con quello di Oannes, dio sumero/babilonese associato proprio all’egizio Onnos/Osiride. Il nome Giovanni ha in realtà correlazione anche con Janus, nome latino del dio Giano. Janus è un’antichissima divinità italica ed era ritenuto così importante da guadagnarsi niente meno che il titolo di Janus Cerus [Il Creatore] e Janus Pater [il Padre]. Questo potente Dio veniva rappresentato come una testa a due facce. Tale sua peculiarità fisica serviva a rappresentare la sua funzione di Guardiano della Soglia, di sommo custode delle Porte, sia quelle terrene che quelle ultraterrene. Ma la testa bicefala di Giano era anche atta ad indicare il suo dominio sul Tempo, poiché Egli poteva guardare sia nel passato che nel futuro, pur essendo eternamente nel presente. L'origine arcaica del Dio Padre Giano affonda però le sue radici, come spesso accade, nel Culto della Madre.
La Dea più onorata nel Mediterraneo era infatti la dea Dia, da cui deriva lo stesso termine Dio e in seguito anche Dea. Il Nome Dia mutò poi in Diana, da cui appunto Iana, Ianua, o più comunemente Janua, ritenuta genitrice di Janus, il figlio della natura che cresce, muore e risorge, regnando con la Mater. Con l’avvento del patriarcato la divinità maschile prese il sopravvento su quella femminile e così Janus sostituì Janua, acquisendo le prerogative della Madre, assumendo così il ruolo di guardiano delle porte e guardiano del tempo. Janua è dunque la forma arcaica di Janus e come il figlio era considerata Signora del Tempo, esattamente come abbiamo visto anche con Kali. Il Tempo è una caratteristica dominante nel Satanico Culto delle Origini; da Kali, a Janua/Janus, a Saturno. Dio del Tempo è anche ad esempio Zurvan, divinità principale dello zurvanismo, movimento religioso iranico connesso allo zoroastrismo. Zurvan era un’entità connessa al Tempo, ma il tempo di cui parliamo non è quello concepito da noi esseri umani, abituati a percorrerlo in un unico verso. Il Tempo a cui mi riferisco è un essere perfetto, non lineare ma circolare, [io oserei dire addirittura spiroidale] dove presente, passato e futuro sono unicamente prospettive soggettive. Zurvan veniva rappresentato con le stesse fattezze simboliche del Signore del Tempo ellenico, Aion/Kronos, ossia testa di leone e corpo avvolto dalle spire di un serpente. È interessante notare che anche Samael viene talvolta raffigurato nel medesimo modo.
Janua/Janus venivano spesso rappresentati con due volti, uno maschile e uno femminile, e da ciò deriva il noto appellativo di “Giano Bifronte”. Questa particolarità non può non farci pensare al classico Baphomet di Levi, anch’esso con tratti diadici volti a richiamarne l’essenza androgina. Da notarsi anche il fatto che gli stessi Templari asserirono in alcune deposizioni che la loro Testa Sacra fosse bicefala, talvolta persino tricefala. Sulla possibilità di una testa trifronte non mi soffermerò troppo, dato che le triadi divine sono davvero molte, talvolta unicamente maschili, come la trimurti induista o la triade babilonese, altre volte solo femminili, come la Triplice Dea presente in varie forme e culti, e altre ancora miste, come nel caso della triade romana e di quella egiziana. Lo stesso Lucifero venne descritto da Dante nella Divina Commedia con tre teste. Un caso particolare che però voglio citare in tal circostanza è l’esistenza di una Janua Trifons, testimoniata da un affresco presente nell'abbazia San Pietro di Perugia. Il raro affresco raffigura una divinità tricefala come rappresentazione della Trinità, con tre volti femminili, e pertanto venne poi considerata eretica e vietata nel concilio Tridentino da papa Urbano VIII. L’arte è l’arma più grande che un Figlio del Dio dell’Anima possiede e la forma prisca dell’Esoterista è stata sicuramente quella dell’Artista, poiché attraverso le sue creazioni ha potuto occultare antiche sapienze rilevabili soltanto dall’occhio dell’Iniziato. Ritengo dunque che Janua/Janus sia nei fatti una divinità con due volti apparenti e che infine si rivelerà triadica soltanto a quanti avranno saputo guardare oltre, armonizzando le polarità dicotomiche in virtù di una terza faccia sorta dall’integrazione delle prime due. Il significato della testa bicefala di Janua/Janus è comunque essenziale alla comprensione del ruolo dell’Iniziatore Occulto.
Chi mi conosce sa che ho sempre affermato che nel Satanismo esiste un’Etica comune, ma che di certo non necessitiamo di dettami. Questo è perché l’Erede di Satana ha compreso il potenziale della sua Via dei Segni e ha imparato ad attingere Sapienza direttamente dal T.U. [Tessuto Umido] esterno a lui. La natura è viva e insegna a chi sa osservare senza bisogno di dottrine. Spesso si pensa che il mito sia stato scritto per spiegare i misteri della natura, ma non è da escludere che gli stessi fenomeni naturali siano il Verbo con cui gli Dei ci raccontano il Mito. Da quest’ottica anche il Tempo, con i suoi cicli e le sue stagioni, non è dunque qualcosa di casuale ma un reale insegnamento misteriosofico. È il caso ad esempio dei Solstizi e della tradizione misterica ad essi connessa. Secondo il mito, dopo che Saturno [Signore dell’Età dell’Oro] fu detronizzato da Zeus [Signore dell’Età del Bronzo] fu proprio Giano ad accoglierlo, divedendo il trono e gli onori, al fine di permettergli di ricostituire la nuova Era Aurea. Janua/Janus è la divinità preposta ad aprire e chiudere le Porte solstiziali, attraverso le quali il Sole può dare inizio al suo percorso annuale, fatto di Ascesa e Discesa. Janua/Janus e Saturno sono due entità fortemente connesse, non solo entrambi sono legati al Tempo, ma sono anche simili nella propria essenza dualistica. Saturno, infatti, è connesso sia al piombo che all’oro, Egli incarna l’aspetto della gravezza terrena nella sua materialità, ma è anche il Signore dell’oro alchemico, ovverosia dell’anima che si evolve dallo stato caduco dell’umano per tornare al suo stato di grazia primevo. I Saturnali rappresentavano una festività Romana con profondo significato iniziatico, essi celebravano la morte spirituale seguita dalla resurrezione, la rinascita del Sole Invitto, il dio Mitra che è nato da una pietra e che nel solstizio oltrepassa la Porta della sua trasmutazione. Se ricordate bene, inoltre, anche il Soslan degli Sciti era nato da una pietra, per poi essere cresciuto da sua madre Satana. La pietra che dà i natali all’eroe può rappresentare la nascita terrena, nel corpo, nella materia, appunto la pietra grezza degli alchimisti che attraverso un preciso percorso che va dal Nero al Rosso, si trasforma in oro, ossia nel sole risorto.
Janua/Janus non è estraneo a tutto questo, potremmo dire che Saturno e Giano siano in un certo senso aspetti della stessa natura, un’essenza connessa al Tempo, alle Porte, ai passaggi fondamentali della palingenesi iniziatica. Janua/Janus è una divinità antichissima, basti pensare che persino in sanscrito la parola Yana designa le “porte”, “i portali”. E se pensiamo anche all’inglese Janitor, ritroviamo il ruolo preponderante di Giano, ossia “il custode”, il “portiere”, colui che detiene le chiavi di ogni passaggio e concede a colui che intraprende la sua Discesa agli Inferi di tornare alla sua Luce. La stessa Ishtar nella sua Discesa deve attraversare sette Porte come preludio della sua Ascesa e anche Lei, proprio come Saturno, incarna sia il principio terreo che quello etereo, la terra umida e nera che genera la vita fisica e la sacralità celestiale di cui è investita in quanto autentica Regina dei Cieli. Giano è dunque il Guardiano della Soglia e tale soglia è rappresentata simbolicamente dai solstizi, in particolare quello invernale. Nonostante infatti Giano fosse festeggiato pubblicamente a Gennaio [lo stesso termine Januarius deriva proprio da Janua] è altresì vero che Giano veniva celebrato in forma misterica proprio durante i due solstizi.
Questa piccola parentesi su Giano era fondamentale per far comprendere la reale origine del mito cristiano del Giovanni Battista, posteriore alla Tradizione Originale ma comunque intriso di significati esoterici. Occorre tener conto del fatto che quando una nuova religione s’impone sui culti che la precedono, coloro che vogliono mantenere viva la propria tradizione senza incorrere in condanne si trovano spesso costretti a utilizzare i nomi della nuova religione, caricandoli però segretamente di significati differenti. È il caso ad esempio dei seguaci del Vudù, deportati come schiavi in America e costretti dai cristiani a convertirsi. Quelle genti furono costrette a dare alle proprie divinità i nomi dei santi cristiani, in modo da poter continuare a celebrarli senza rischiare la vita. Il vero danno però lo subirono le generazioni future che, ormai dimentiche del segreto dei propri antenati, continuarono a celebrare quei santi senza ricordare la reale essenza che su di essi era stata strategicamente trasferita. Questo spiega come il Vudù di oggi sia così pregno di Cristianesimo, a differenza di quello originale praticato dagli antichi Yoruba. Stessa dinamica potremmo dire che sia avvenuta in ambito misterico ellenico/romano, dove molti insegnamenti, per sopravvivere, furono riadattati ai miti cristiani, sebbene col tempo l’interpretazione allegorica di certi personaggi sia stata sostituita con quella letterale.
È quindi lecito pensare che i due Giovanni, Battista ed Evangelista, siano nei fatti le due facce di Giano, l’una ascritta al portale degli uomini [Solstizio d’Estate] e l’altra a quello degli Dei [Solstizio Invernale]. Queste due porte annuali sono collegate rispettivamente al Cancro e al Capricorno; la prima si apre a Litha e rappresenta la Discesa nel mondo terreno, la seconda è invece segnata da Yule, durante i Saturnali, e rappresenta l’Ascesa al mondo divino. La cosa particolare è che Litha, il Solstizio d’Estate, viene festeggiato come apice della luce in quanto inizio dell’estate, mentre Yule è vista come ricorrenza tenebrosa, dato che principia la stagione invernale. Le cose però raramente sono ciò che sembrano e infatti nel Solstizio d’Estate il sole, nonostante sia al suo apogeo, è destinato da quel momento in poi a calare verso le tenebre invernali, così come nel Solstizio d’Inverno, sebbene sia il giorno più buio dell’anno, il sole comincia la sua risalita verso la luce. Questo fenomeno naturale è decisamente in linea con gl’insegnamenti del Culto, poiché ogni Erede di Satana sa che per raggiungere la Luce si deve attraversare la Tenebra e che pertanto ogni Discesa è necessaria alla propria Ascesa. Quando un essere umano nasce si trova simbolicamente nel suo Solstizio d’Estate e lentamente cresce e discende fino alla sua morte. Il Solstizio d’Inverno è così la morte, fisica o anche solo iniziatica, ma di conseguenza è anche la rinascita verso il mondo degli Dei.
"Mors janua vitae - Vita janua mortis"
[la morte è la porta della vita; la vita è la porta della morte]
I due Giovanni diventano dunque le due facce di Giano, i due Solstizi con significati annessi, tuttavia in realtà inizialmente a rappresentare il Solstizio Invernale non era l’Evangelista [che per altro si festeggia il 27 dicembre] bensì lo stesso Gesù Cristo, il quale è stato “fatto nascere” dalla Chiesa Cattolica il 25 dicembre per sostituirsi al culto mitraico del Sol Invictus. Fu così che il Nazareno divenne la nuova forma del Dio Sole e laddove Giovanni Battista apriva il portale degli uomini durante il Solstizio Estivo, così Gesù apriva quello divino durante il Solstizio Invernale. In Giovanni 3:30 troviamo infatti: “Egli deve crescere e io invece diminuire”. Teoricamente qui il Battista si riferirebbe al fatto che Cristo deve crescere in quanto Messia, mentre lui deve farsi da parte, ma credo che agli occhi dell’Iniziato sia evidente il parallelismo con il sole che, appunto, dal Solstizio d’Estate [Giovanni Battista] deve diminuire, mentre dal Solstizio d’Inverno [Gesù] deve crescere.
Giovanni Battista è la forma che il misticismo cristiano dà all’Iniziatore, egli è infatti “Colui che battezza”. Giovanni era un Maestro della setta degli Esseni e iniziava i suoi discepoli attraverso l’immersione nelle acque del Giordano, l’acqua come simbolo di vita in contrapposizione con il fuoco dello Spirito Santo, rappresentato invece da Gesù, anch’egli un maestro della setta degli Esseni. Lo Spirito Santo è da intendersi come fiamma spirituale, il fuoco sapienziale di Sophia, la Mater di Saggezza che i Cristiani hanno completamente annullato, creando una Trinità priva di Madre e sostituendola con lo “Spirito Santo”. In Matteo 3:11 Giovanni afferma: “Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me ed egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco”. Qui troviamo una chiara informazione su due differenti rituali iniziatici, uno fondato sull’acqua e uno sul fuoco. Ricordate ad esempio il rituale d’immortalità perpetrato dalla Grande Madre Demetra, Signora dei Misteri Eleusini, sul piccolo principe Demofoonte? La Dea immerse il bambino nel fuoco, ma la regina La interruppe impedendo il compimento del rito. È chiaro dunque che il battesimo dell’acqua caratterizza il Solstizio d’Estate, la fase iniziale del Cammino, mentre il battesimo nel fuoco è connesso al Solstizio d’Inverno e conduce all’immortalità dell’anima. Dalla nostra esegesi del mito cristiano possiamo rintracciare le orme di Giano, l’Iniziatore Occulto a due vie che nei fatti non sono antitetiche ma complementari. A tal proposito potrei citare Guènon, che in Simboli della Scienza sacra riguardo a Giano scrive:
“Giano è il ‘Signore delle due vie’, di quelle due vie della destra e della sinistra che i pitagorici rappresentavano con la lettera Y e che sono in fondo identiche al dèva-yàna e al pitri-yàna. Si può facilmente comprendere da ciò, come le chiavi di Giano siano in realtà le stesse di quelle che, secondo la tradizione cristiana, aprono e chiudono il ‘Regno dei cieli’ (la via per la quale questo viene raggiunto corrisponde in tal senso al dèva-yàna), tanto più che, sotto un altro profilo, queste due chiavi, una d’oro e l’altra d’argento, erano anche quelle dei ‘grandi misteri’ e dei ‘piccoli misteri’.”
La Y pitagorica, simbolo del bivio spirituale fra Via della Mano Destra e Via della Mano Sinistra, l’abbiamo già incontrata nel breve articolo “Il Tridente e la Terza Via”, dove appunto illustravo come nel Satanismo la perfezione fosse generata dall’integrazione degli opposti, un’integrazione data però non dall’annullamento della realtà duale, bensì dalla sperimentazione dinamica delle singole polarità e la loro conseguente armonizzazione. Questo concetto non è differente da ciò che ci racconta Guènon, parlando di Giano anche come del “Signore del Triplice Tempo”, attributo conferito anche a Shiva, compagno della Devi di cui Kali è l’aspetto oscuro. Dèva-yàna e Pitri-yàna sono letteralmente “la porta degli Uomini e la porta degli Dei”, riferimento ai due portali solstiziali.
Il Giovanni cristiano è dunque una rivisitazione moderna dell’antico Giano, la figura che rappresenta l’Iniziatore, o forse sarebbe meglio dire, il Maestro che è stato Iniziato da un principio superiore. Nonostante nella leggenda cristiana sia proprio il Battista a battezzare il futuro Messia, Giovanni subirà una decapitazione, ulteriore elemento che ad uno sguardo esoterico lo rende a tutti gli effetti la personificazione del sacerdote iniziato che diviene poi a sua volta un maestro iniziatore. Famosa è difatti la morte di Giovanni Battista per volere di una Donna, l’emblematica Salomè. Se ricordate avevamo fatto un breve accenno su Salomè in merito agli Sciti, affermando che alcuni studiosi avessero notato delle analogie fra l’oscura Dea scitica Argimpasa e la biblica Salomè, e posso dire che il paragone è tutt’altro che inappropriato. Argimpasa, come Kali, veniva rappresentata con una testa mozzata in mano, Ella incarnava l’aspetto terrifico della Mater, l’Iniziatrice per antonomasia alla Via Oscura. Giovanni Battista è comunque un personaggio che meriterebbe una particolare attenzione, poiché anche in ambito cristiano la sua figura ha creato controversie e scissione. In Luca 1:44 Gesù su Giovanni Battista disse che era “maggiore tra i nati da donna” ma in Matteo 11:11 lo definisce anche “il più piccolo del Regno”. Questi passi vengono spesso intesi come un segnale di rivalità fra i due personaggi, mentre da un punto di vista iniziatico potrebbero essere interpretati come evidenza del fatto che il maestro terreno, per quanto saggio e grande fra gli uomini, resta comunque ispirato da un Maestro Occulto di natura divina. Ma aldilà delle mie speculazioni è innegabile che è esistita una netta spaccatura fra coloro che identificavano in Gesù il Messia e chi invece considerava tale il Battista. Effettivamente lo stesso Gesù fu battezzato proprio da Giovanni Battista e la storia dei due personaggi ha molte somiglianze, al punto tale che i seguaci dell’eresia giovannita hanno accusato i Cristiani di aver attinto dalle vicende del loro maestro per creare il mito di Gesù
Dal mio punto di vista questa faida è poco rilevante, dato che sia Giovanni che Gesù sono entrambi emanazioni dell’unico autentico Iniziatore Occulto, figura ben più antica e tratteggiata in modo decisamente migliore nei culti precristiani. Tuttavia, conoscendo il modus operandi predatorio dei Cattolici, non mi stupirebbe troppo che anche i Cristiani delle origini abbiano rubato meriti a Giovanni Battista. Occorre anche dire che ci sono storiografi che hanno persino dubitato dell’esistenza del Santo, ma esistono anche studiosi che hanno dubitato dell’esistenza storica di Gesù, quindi in quanto a teorie e revisionismi non ci facciamo davvero mancare niente! Per quanto mi riguarda non trovo assolutamente impossibile che siano esistiti due uomini Ebrei che circa duemila anni fa si sono dati a consistenti campagne politico/religiose, in fondo succede da sempre. Ciò a cui invece non credo in alcun modo è la sacralità di cui son stati investiti. Ritengo che Gesù, come anche Giovanni, siano semplicemente stati vestiti con abiti non propri, abiti molto più antichi e che, soprattutto Gesù, non hanno saputo portare adeguatamente rispetto a molti altri avatara precedenti. La mitizzazione di certi uomini è sempre stata una conseguenza storica dei giochi di potere condotti da altri uomini. Sebbene dunque io preferisca l’eresia giovannita, resta comunque anch’essa il risultato di una manipolazione di verità più antiche e la purezza di una verità originale resta per me assai migliore di tutte le sue rivisitazioni alterate, spesso ree di apportare più confusione che conoscenza.
Per concludere l’esposizione sul Battista non possiamo non fare un accenno anche a Giovanni Evangelista, sostituito poi da Gesù come controparte solstiziale del primo. L’Evangelista, definito discepolo molto amato da Gesù, era un giovane apostolo dai tratti talmente efebici da sembrare femminile. Non a caso alcune correnti di pensiero alternative hanno associato Giovanni Evangelista alla Maddalena, cosa che ovviamente la Chiesa non ha riconosciuto. La cosa curiosa è che l’Evangelista è considerato il patrono dei fabbricanti di candele, degli scrittori, dei teologi, di chiunque tenti di “fare luce”, e pertanto era egli stesso considerato un “portatore di luce”, prerogativa decisamente luciferina. Il ruolo prometeico del portatore di luce è fortemente connesso al Solstizio Invernale, poiché da quel momento il sole comincerà a risalire la sua ellittica, a “crescere”. Sotto quest’ottica, anche l’Evangelista quindi non è altro che un’eggregora del Sol Invictus, il Dio Solare, il Portatore di Luce, una delle facce di Janua/Janus, la faccia che apre la Porta degli Dei. Come sempre, tanti sono i nomi e le forme, ma unica è l’essenza. Alcune forme saranno più integre, altre corrotte, ma ciò che è certo è che l’essenza, invece, è sempre immutabile e pura.
Salomè e le Donne tagliatrici di Teste
Per quanto riguarda la figura di Salomè è abbastanza marginale da un punto di vista storico, ma è altresì carica di significati simbolici. Secondo la leggenda cristiana, il Battista non approvava il matrimonio fra il Re Erode Antipa e la cognata Erodiade, la quale aveva abbandonato il marito per unirsi al Re. Per la mentalità ebraica del tempo una condotta simile era riprovevole e così Giovanni condannò pubblicamente quell’unione, finendo incarcerato dal sovrano offeso. Il racconto prosegue introducendo l’ammaliante Salomè, figlia di Erodiade, la quale si esibì per il Re in una danza sensuale. Erode fu così compiaciuto che chiese alla giovane di esprimere un desiderio, affermando che qualunque cosa ella avrebbe chiesto, lui l’avrebbe accontentata. Salomè chiese allora la testa del Giovanni Battista su di un piatto d’argento e il Re, sebbene inorridito, mantenne la sua promessa e fece decapitare il Battista. Aldilà del racconto biblico, probabilmente non privo di alterazioni, anche in questa storia possiamo rintracciare alcuni elementi tipici dell’Iniziazione Oscura: Eros, Muliebre, Decapitazione, Thanatos.
Nella Bibbia è presente anche un’altra donna che decapita un uomo e mi riferisco ovviamente al celebre passo di Giuditta e Oloferne. Nel caso di Giuditta la decapitazione è inserita in un contesto giustizialista, dato che la donna uccide Oloferne giacché egli aveva invaso la sua città. Storicamente tale episodio pare non trovare riscontri concreti, il Libro di Giuditta arriva soltanto nel 382 e.v. ed è riconosciuto unicamente dalla Chiesa Cattolica ma non da Ebrei e Protestanti. Tuttavia quello che a noi interessa è in realtà l’aspetto simbolico: anche qui, infatti, ritroviamo la dicotomia Eros e Thanatos; Giuditta per riuscire a uccidere Oloferne dovrà prima sedurlo [Eros] e solo dopo lo decapiterà [Thanatos].
Un altro caso di Donna che decolla un uomo è la meno nota Tomiri, regina dei Massageti, un popolo iranico che viveva nell’Asia centrale e che è stato collegato agli Sciti e agli Alani. Secondo il racconto di diversi antichi scrittori, la regina Tomiri fu chiesta in moglie dal re persiano Ciro ma ella rifiutò. Ciro, ferito nell’orgoglio, decise allora di attaccare i Massageti, ma ne uscì sconfitto. A quel punto i Persiani, indispettiti, elaborarono uno sleale stratagemma che consisteva nel fare ubriacare i loro avversari per poi coglierli di sorpresa durante il sonno. I disonesti Persiani così fecero, attaccarono gli inermi Massageti e fecero prigioniero il generale Spargapise, figlio della regina, che, piuttosto che sottostare a quella condizione, scelse di togliersi la vita. La regina Tomiri ne fu addolorata, e furiosa chiese a Ciro una battaglia vera, senza trucchi e inganni. Ciro acconsentì ma ne uscì perdente e perse la vita. A quel punto Tomiri entrò ella stessa nel campo di battaglia e fra i tanti cadaveri cercò quello di Ciro. Quando lo trovò lo decollò e pronuncio la macabra frase: “Saziati del sangue di cui fosti assetato” e gli immersa la testa in un otre piena di sangue. La regina tenne la testa mozzata di Ciro come trofeo e usò il suo cranio come coppa per bere il vino.
Anche in questa vicenda, seppur in modo meno evidente, abbiamo l’elemento erotico rappresentato dall’interesse romantico di Ciro verso la regina ed ella non si concede. Il rifiuto di Tomiri incarna metaforicamente l’aspetto violento di Eros, la tensione sessuale in equilibrio fra attrazione e opposizione. Come Tomiri si nega, creando così Guerra - Marte come forma speculare di Venere - così anche Giovanni che giudica immorale l’unione di Erodiade ed Erode crea un conflitto connesso ad Eros. Ugualmente le stesse Kali e Chinnamastā che stanno erette sopra emanazioni dell’Eros ci offrono un’ulteriore immagine della veemenza sessuale, in tal caso non rappresentata da contrarietà, bensì dalla semplice predominanza della Dea. Eros in questi episodi è rappresentato anche dalla seduzione come arma per irretire l’uomo, lo abbiamo visto nella vicenda di Salomè che danza sinuosa davanti a Erode e lo ritroviamo anche in Giuditta che seduce Oloferne. Una circostanza simile è quella della sumera Inanna, la quale fa ubriacare il dio Enki per sedurlo e sottrargli i Me, potenze sapienziali che la Dea voleva donare agli uomini. In questo caso non solo la Signora riflette il suo ruolo di seduttrice, ma adempie anche alla sua funzione luciferina di Portatore di Luce, Colei che porta la fiaccola e che, come Prometeo, ruba la Luce agli Dei per offrirla anche agli esseri umani.
La Dea Oscura, così come la donna Satanista, incarna il femminino virilizzato, dove per virile non intendiamo strettamente la mascolinità, quanto la forza attiva, l’elemento igneo connesso all’azione espansiva. Allo stesso modo l’uomo Satanista impara a connettersi con il femminino e questo non implica l’effeminarsi, bensì semmai il prendere contatto con la propria sensitività acquea, con la forza attrattiva e magnetica tipica dell’essenza animica. Nella società in cui siamo stati cresciuti siamo abituati a immaginare il muliebre come passivo e sottoposto al maschile e questo, aldilà dei meri risvolti sociali, si traduce in squilibrio energetico microcosmico e macrocosmico. La Femmina letale e seduttiva finora descritta non è da intendersi come la caricatura moderna della femminista, né deve rappresentare lo spauracchio del maschio insicuro: Ella è semmai l’emanazione diretta di un principio superiore, l’aspetto oscuro della Mater necessario per ripristinare quegli equilibri attualmente perduti. Kali domina simbolicamente su Shiva e taglia teste furiosa, ma è anche Madre e compagna amorevole e protettiva, nota per essere violenta con gli ingiusti e per iniziare i suoi figli all’Evoluzione personale; Chinnamastā è anche Lei svettante sopra l’Eros, ma si taglia la testa al fine di nutrire con il suo sangue. Anche Giuditta seduce e uccide, ma lo fa per salvare la sua gente, ugualmente Tomiri si rivela oscura, ma lo fa per vendicare la morte ingiusta del figlio. Infine anche Inanna, come abbiamo visto, cede sì ad un atto oscuro di seduzione e inganno, ma lo fa allo scopo d’illuminare la Via dell’uomo. Ecco dunque che troviamo come sempre la violenza e la tenebra al servizio della virtù, sebbene talvolta gli scopi restino inizialmente celati. Tuttavia, nonostante questi racconti parlino dell’aspetto più cruento dell’Iniziazione, non ci si dovrebbe mai scordare che la vera Forza è delicata. Ci basti pensare ad esempio all’Undicesima Lama dei Tarocchi, appunto la Forza, raffigurata non da un guerriero che massacra il nemico, non da una donna che calpesta o decapita, bensì da una Fanciulla che apre la bocca a un Leone. E quella fanciulla rappresenta la vera forza dell’Iniziato, la forza Gentile di chi ha camminato nelle tenebre e sa dominare su ogni cosa grazie alla propria luce.
La figura della Donna che decapita è comunque un archetipo più profondo di quanto si pensi ed è forse proprio per questo che alcuni artisti hanno dedicato a questa Imago così tante opere. Perché nel cuore di ogni uomo, personaggi come Giuditta, Salomè, Tomiri, incarnano la Dea Oscura, la Mater nel suo aspetto terribile, Lei che è Kali ed è Lilith ed è Sekhmet ed è Argimpasa! Lei che è Madre e può rivivere in ogni moglie, in ogni amante, in ogni figlia, e che quando è libera dalle catene della domesticazione non può che non incutere un riverenziale Sacro Terrore. Lei che offre la Mela all’uomo, rimettendolo in contatto con l’animico primevo che egli stesso contiene. Questa oscura Signora splendente è un Ente che dovete tenere bene a mente, poiché, come vedremo meglio nel nostro viaggio, in Lei si cela il profondo segreto di Baphomet.
In merito all’archetipo iniziatico della Tagliatrice di Teste, vi invito a visitare questa galleria d’immagini appositamente selezionate per voi, affinché vi sia chiaro in quanti incubi - e in quanti sogni - Ella viva. [Per visionare la GALLERIA clicca qui]
PARTE II – Etimologie e Interpretazioni
Finora abbiamo cercato di scoprire l’identità del Baphomet attraverso l’osservazione della sua figura, basandoci in primis sugli indizi storici pervenutici dalle deposizioni templari e ricercandone così le tracce mitologiche. Nella seconda parte del nostro viaggio ci concentreremo invece sul nome stesso, scavando nelle varie teorie etimologiche e nelle diverse interpretazioni che pensatori e occultisti di ogni tempo hanno sapientemente elaborato.
DALL’OCCITANO: La prima teoria etimologia è quella che abbiamo già incontrato all’inizio dell’articolo, nel paragrafo “Baphomet, l’idolo dei Templari”. Questa teoria venne formulata dallo studioso di lingua araba Silvestre de Sacy e c’informa che in lingua occitana il termine Baphomet non era altro che una storpiatura del nome Maometto. Lo stesso termine Bahomerrid in lingua d’Oc era utilizzato per indicare la moschea. Anche secondo lo studioso John Charpentier il termine Baphomet avrebbe a che fare con Maometto, sebbene egli asserisca che possa addirittura essere la contrazione di due nomi: Battista e Maometto. Insomma, data la forte assonanza si potrebbe senza dubbio collegare i due termini, [Baphomet e Maometto] tuttavia occorre anche riportare la confutazione dello storico Peter Partner che nel suo libro sui Templari scrive:
“Era impossibile che i Templari avessero desunto dall’Oriente la pratica di adorare un idolo che aveva il nome del profeta Muhammed, dal momento che non esisteva alcun idolo con tale nome, in tutto l’Estremo Oriente, nemmeno fra sette separatiste quali quelle degli israeliti o dei drusi”.
Effettivamente è abbastanza improbabile che il Baphomet possa essere Maometto, perché se anche i Templari si fossero convertiti all’Islamismo, non avrebbero mai avuto un idolo a forma di testa mozzata, dato che per i musulmani è vietata sia l’adorazione delle reliquie che la rappresentazione iconografica o scultorea della divinità. Io resto dell’idea che il termine Baphomet associato a Maometto possa risultare plausibile solo se si pensa ad un modo di dire usato dai templari per indicare qualcosa che aveva fattezze simili ad un islamico. Un luogo comune dell’epoca che portava ad associare un uomo con la barba ad un arabo di religione islamica. Se realmente l’idolo templare fosse stato una testa barbuta, questa prima teoria potrebbe trovare un senso, anche se decisamente non è la mia preferita.
DAL LATINO: Per quanto riguarda la lingua latina sono state formulate diverse teorie.
1 - La prima - proposta secondo alcuni dal martinista francese Victor Emile Michelet e secondo altri dall’occultista Eliphas Levi - vedrebbe nel termine Baphomet l’acronimo di una frase latina che, se letta da destra verso sinistra e raccogliendo la prima lettera o sillaba iniziale di ogni parola, fornirebbe proprio il nome Baphomet. La frase in questione sarebbe: “Templum Omnium Hominum Pacis Abbas” e come potrete notare, prendendo solo le iniziali e leggendo la frase al contrario, forma il termine Baphomet.
TEMplum Omnium Hominum Pacis ABbas, ossia BA – P – H – O – MET.
La frase latina in cui si celerebbe il termine Baphomet viene solitamente tradotta come “Padre del Tempio della Pace di Tutti gli Uomini”.
Sinceramente credo che in tal modo sia fraintendibile, poiché in realtà Abbas significa Abate e non Padre - che in latino sarebbe Pater. Qui il termine Padre è utilizzato non in senso letterale di padre, inteso come genitore umano o divino, ma come padre spirituale di un tempio. Riterrei pertanto più pertinente tradurre la frase con “Abate [Sommo Sacerdote] del Tempio della Pace di Tutti gli Uomini”. Per quanto mi riguarda trovo questa interpretazione abbastanza discutibile, poiché se vogliamo trovare il significato di una parola giocando con gli acronimi, allora possiamo sfornarne altri cento altrettanto verosimili. Insomma, credo che questa teoria, per quanto suggestiva, sia un po’ troppo forzata e che non possa pertanto rappresentare la versione più attendibile.
2 - Altra teoria connessa ad un acronimo latino - sebbene contenga anche un termine di origine greca - è stata elaborata dall’austriaco Von Hammer-Purgstall, secondo il quale Baphomet altro non sarebbe che il risultato delle sillabe iniziali della frase: “Ab Ophibus Templum”, dove “Ab – Oph – Tem”, se lette al contrario, darebbero appunto “Ba – Pho – Met”. La traduzione della frase sarebbe “Tempio da cui derivano i Serpenti”, dove Templum è logicamente il tempio e Ophibus la latinizzazione del termine greco ὄφις [óphis], ossia serpente, che declinato nella sua forma ablativa c’informa circa la provenienza [appunto Ab Ophibus, ossia “da dove arrivano i serpenti”].
Il senso della frase è da ricondursi probabilmente agli Ofiti, ossia coloro che sacralizzavano la figura del serpente, sia a livello simbolico che teologico. Gli Ofiti, chiamati anche Naasseni - dall’ebraco nâhâsh che significa sempre “serpente" - rappresentano un’eresia gnostica che vede nella figura del Serpente il vero salvatore dell’umanità. Il Serpente tentatore dell’Eden è visto dagli Ofiti come un portatore di luce e conoscenza, un liberatore dalla tirannia di Yaldabaoth, il demiurgo Yahweh, visto come creatore del mondo e del corpo, ma non come creatore dell’anima. Per gli Ofiti il creatore dell’anima è in realtà la Sophia, madre stessa di Yaldabaoth, sorella “sinistra” del Cristo solare, chiamato anche Adam Qadmon. Quest’ultimo era a sua volta figlio della trinità ofita formata dall’Uomo Primo, l’Uomo Secondo e lo Spirito Santo, riconosciuto come l’Agape, la Grande Madre. Se dico sorella “sinistra” è perché Sophia, la Saggezza, nacque per errore dalla mano sinistra della Dea Madre, mentre il Cristo nacque dalla destra, grazie anche alla partecipazione dell’elemento maschile. Sophia, invece, è figlia solo del femminile e mentre cadde sulla Terra generò suo malgrado dei figli, fra cui appunto il sovversivo Yaldabaoth/Yahweh. Che l’eresia ofita convinca o meno non è in tal sede oggetto di discussione, ma sicuramente può offrire spunti utili ad ogni Satanista Originale. Lo Gnosticismo, pur avvalendosi delle faziose forme del Giudeo Cristianesimo, resta comunque una corrente abbastanza affine al Satanismo; esso potrebbe essere considerato come l’ultima vestigia misteriosofica precedente al crollo definitivo della Tradizione Gentile, per mano delle religioni di Yahweh. In ogni caso tenete a mente il nome degli Ofiti, poiché ritroveremo altre teorie che fanno afferire ad essi il termine Baphomet.
Sebbene non sia una grande sostenitrice delle etimologie fondate su acronimi, ritengo l’argomentazione di Purgstall migliore di quella di Levi, [o Michelet] se non altro per il suo significato. Il serpente è indubbiamente collegato al Culto delle Origini, una creatura antica e sapiente squisitamente pregna di simbolismo satanico. Esiste anche nella mitologia classica un personaggio chiamato Ofiuco, il cui nome significa “chi porta il serpente” ed è infatti rappresentato con un serpente che avvolge il suo corpo, mentre gli tiene con una mano la coda e con l’altra la testa. Se ricordate abbiamo incontrato anche altri Enti avvolti dalle spire di un serpente, come gli Dei del Tempo Zurvan e Aion, lo stesso Samael e persino Lilith. Ofiuco è tradizionalmente associato al Dio della Medicina Asclepio, noto per il suo bastone magico avvolto da un serpente. Approfondiremo meglio il significato del Bastone di Asclepio nella terza parte di questo articolo, inerente all’analisi del Baphomet leviano. Interessante infine notare che se la frase del Purgstall avesse contenuto il termine latino Opibus anziché Ophibus, avrebbe significato “Il Tempio da cui derivano le ricchezze”, che in un certo qual modo suonerebbe come un richiamo alle teste sacre apportatrici di ricchezza e fecondità.
DAL GRECO: Anche sul versante greco non mancano le interpretazioni.
1 - L’ipotesi su una radice greca del termine Baphomet venne formulata ancora una volta da Von Hammer-Purgstall, il quale fece derivare il nome da bàptismòs/bàptein, [battesimo/immersione] e mètis [saggezza] pertanto Baphomet sarebbe da tradursi come “battesimo della saggezza”.
Questa versione è davvero molto interessante e credibile nel suo significato, ma sinceramente mi fa storcere un po’ il naso da un punto di vista etimologico. Passi senza dubbio l’accostamento con il battesimo/immersione derivante da baptismòs, ma la saggezza da dove è stata estrapolata? Saggezza in greco deriva da saphès, da cui appunto proviene il termine sophia, ma come collegare dunque “sophia” a “met”? L’unica possibilità che mi viene in mente è il termine mètis, lemma greco dal quale deriva anche la parola “mente” e quindi l’intelligenza, la prontezza mentale, l’intuizione. Tuttavia non mi convince al centro per cento, dato che saggezza e intelligenza non sono certo la stessa cosa: l’intelligenza è qualcosa d’innato, la saggezza invece è sempre frutto dell’esperienza. A questo punto ho ipotizzato che l’unico collegamento accettabile potesse essere rintracciato in un’altra etimo di “saggio”, ossia nel termine greco exàgion, il quale significa “peso” , “pesare”, e in senso figurato anche il valutare qualcosa, lo sperimentarlo e solo allora saperlo dunque “misurare”. Questo potrebbe avere un senso perché, oltre ad essere possibile origine del termine saggezza, ha anche lo stesso significato del termine greco mè-tron, ovverosia letteralmente la “misura”, che è per altro più assonante al “met” di Baphomet. Potrebbe dunque essere corretto definire Baphomet come l’unione di baptismòs e mètron? “Battesimo della misura” o “immersione nella misura” logicamente non ha molto senso, ma occorre aggiungere che nelle lingue indo-ariane la radice Ma indica sia il misurare che il pensare, giacché il pensiero era considerato un “misurare con la mente”. Anche la stessa parola greca mètis suggerita pocanzi ha nei fatti la stessa radice sanscrita di misurare e pensiero.
2 - Oltre a Purgstall, anche lo studioso tedesco Friedrich Nicolai ha ricondotto Baphomet ai termini baptismòs e mètis, sebbene ne dia un’interpretazione leggermente differente. Per il Nicolai, infatti, il termine metis afferisce direttamente alla Dea Metis, dunque lo tradusse come “Battesimo di Metis”.
Metis era la divinità greco/romana della prudenza, della ragione, della sapienza e dell’intelligenza intuitiva, colei che incarnava la prontezza mentale e l’astuzia. Metis era un’Oceanina, ossia una potente dea delle acque, elemento che ci riconduce al suo ruolo fortemente psichico, fluido. L’acqua è infatti il portale fra i mondi, l’anello di congiunzione fra dimensione terrena e multiversi eterici, ma anche più semplicemente fra mondo interiore ed esteriore. L’acqua è il conduttore universale delle energie, anche quelle psichiche, è Metis ne è Signora. Ella è considerata sposa di Zeus e madre della somma dea Atena. Nella mitologia classica Metis è nota per due episodi in particolare: il primo la vede mettere in campo la sua astuzia per riuscire a far rigurgitare a Crono i suoi figli divorati, mentre nel secondo è proprio Lei a venire mangiata da Zeus. Questi passaggi apparentemente banali ci danno precise informazioni sulla ciclicità che Ella incarna. Nella prima circostanza Metis estrae da Crono i suoi figli, episodio a mio avviso paragonabile al mito vedico del sacrificio del grande serpente Vrtra per mano di Indra. Vrtra conteneva ogni cosa nel suo stomaco ed Indra lo sventrò affinché ogni principio creativo potesse uscire e generare il mondo. Tagliare a metà il grande serpente Vrtra rappresenta senza dubbio la totalità dell’Uroboro che diviene la dualità del Caduceo, ossia la realtà monadica che viene sacrificata a se stessa per generare la vita. Se nel primo episodio possiamo dunque vedere in Metis “colei che sacrifica”, nel secondo incontriamo “colei che viene sacrificata”, passaggio in cui per altro riecheggia il sopravvento del patriarcato di Zeus.
Tuttavia, sempre in massima espressione della ciclicità e del tempo, dal suo divoratore nasce a sua volta Atena, nuova forma della Madre, della Metis, della sacra Sophia. Quando Metis venne divorata, infatti, era gravida e la figlia Atena si sviluppò così dentro Zeus per poi nascere dalla sua testa. Questa particolare nascita mi ricorda anche il mito di Dioniso, il Trigonos, il “nato tre volte”. Esistono diverse versioni riguardo alla generazione di Dioniso ma il più noto ci racconta che in origine Egli era Zagreo, figura prettamente nota in ambito misterico come figlio della Regina degli Inferi Persefone. Zagreo rappresenta il frutto proibito derivante dall’unione fra la Kore - Persefone, la fanciulla che diverrà regina infera - e il Serpente Divino - secondo alcune fonti Zeus, secondo altre Ade. Come scrive Nonno di Panopoli nelle Dionisiache: “A causa delle nozze con questo drago celeste il grembo di Persefone divenne fertile, gravido per generare Zagreus, l’infante con le corna”. Zagreo ha infatti tutte le caratteristiche del Dio della Natura: selvatico, agreste, ctonio, nato clandestinamente ma al contempo destinato a regnare sul mondo. Il nome Zagreo significa letteralmente “fatto a pezzi” e ciò rimanda alle pratiche sinistre di morte iniziatica e anche al mito osirideo dello smembramento, che abbiamo precedentemente affrontato. Zagreo, sotto forma di toro, viene smembrato e divorato dai Titani, ma grazie all’intervento di Atena il suo cuore viene salvato dalla mattanza. Zeus allora lo mangiò, affinché la sua anima potesse rimanere viva in Lui, e poi si unì carnalmente alla mortale Semele, al fine di farlo rinascere attraverso il suo grembo. Secondo alcune versioni, Semele incontrò la morte prima ancora di partorire e così Zeus, per non far perire Zagreo, lo introdusse nella sua coscia, dove lo incuberà fino alla sua rinascita. Ecco dunque che Zagreo nasce due volte, sebbene nella seconda rinascita Egli verrà conosciuto sotto il nome di Dioniso.
La seconda versione del mito sulla sua rinascita ripresenta l’elemento del parto ultraterreno, un parto che non avviene in modo naturale per mezzo di un ventre materno, bensì tramite la coscia o la testa di un dio. Ciò lo ritroviamo anche nella leggenda scita della nascita dell’eroe Batraz, avatara dell’Ares scitico, figlio del Narto Xæmyc e di una discendente del popolo dei Donbettyrtæ, i geni delle acque. [Da notarsi la frequenza con cui la madre di grandi eroi e divinità sia sovente connessa all’elemento acqueo: Metis era un Oceanina, la madre di Batraz era una Donbettyrtæ, ecc.] Il racconto narra che quando Xæmyc incontrò per la prima volta la sua promessa sposa, ella gli apparve come una rana, ma lui la prese ugualmente con sé. Quella stessa notte la sposa palesò il suo reale aspetto e Xæmyc si ritrovò dinnanzi una bellissima donna luminosa come il sole di mezzogiorno. Lei gli spiegò che ogni giorno era costretta a restare nel corpo di una rana e che ogni notte poteva invece riacquisire il suo reale aspetto. Un giorno però il perfido Syrdon schermì Xæmyc per via dell’orrido aspetto diurno della sua sposa e la donna lo udì. Offesa capì che non poteva restare in mezzo ai Narti e manifestò al marito il desiderio di tornare fra la sua gente. Prima di andarsene però ella rivelò a Xæmyc di essere incinta di un figlio maschio e con un soffio depose l’embrione nel corpo del marito, fra le sue spalle. La Donna disse al suo sposo di farsi aiutare da Satana, Madre dei Narti, non appena fosse trascorso il tempo opportuno. Fu così che il gonfiore fra le spalle di Xæmyc crebbe fino a che Satana non lo aiutò a dare alla luce Batraz, l’infante d’acciaio, incandescente e destinato a divenire un potentissimo eroe capace di vivere sia in cielo che nelle acque che in terra.
Queste rinascite attraverso vie inconsuete ci trasmettono senza dubbio l’idea di una nascita fuori dall’ordinario, la nascita di un’anima antica, divina. Ecco dunque che, per tornare alla dea Metis, la versione pura e semplice del Nicolai assume una sua ragion d’essere, dato che come abbiamo potuto appurare, Ella indossa alla perfezione il manto esoterico della Tradizione iniziatica di cui Baphomet è emblema. Metis è intelligenza, sapienza, sagacia, Metis è colei che tira fuori e colei che entra dentro. Metis è la Signora che viene divorata da Zeus e si rigenera attraverso Atena, così come il cuore di Zagreo viene divorato da Zeus e risorge come Dioniso. [Notare fra l’altro che Atena, nuova forma di Metis, nasce dalla testa di Zeus, fattore che ben si riallaccia all’ipotesi dei due Vasi incubatori espressa nel paragrafo sulla Testa Sacra e sul Sigillo di Lucifero.] Per il Nicolai, dunque, Baphomet significa non genericamente “battesimo della saggezza” ma specificatamente “battesimo di Metis”, ossia l’Iniziazione della Dea della Saggezza. Altro fatto interessante è che, come racconta Proclus, Metis - chiamata anche Epikarpaios - fosse venerata pure presso gli Ofiti, gli adoratori del Serpente, e che venisse considerata come una divinità androgina della natura germinante. Gli Ofiti, già incontrati nell’analisi della possibile etimo latina, erano gli adoratori del Serpente biblico, visto non come un nemico ma come un liberatore dalla dittatura demiurgica. Occorre inoltre aggiungere che essi avevano concepito due battesimi: uno dell’acqua e uno del fuoco. Questi due battesimi sono fasi dell’Iniziazione riconducibili alle porte solstiziali di Janua/Janus, riprese e alterate poi dalla mitologia cristiana con la creazione del personaggio di Gesù e dei due Giovanni. Sta di fatto che il battesimo de fuoco [che come abbiamo già ricordato, simbolicamente non è dissimile dall’immersione nella fiamma di Demofoonte da parte di Demetra] era definito proprio “Battesimo di Meti”.
3 - Un’altra teoria che proviene dal greco vuole far derivare Baphomet da βαφευς, bapheis, ossia “tintore”, e μητις, mitis, cioè “metis”, l’intelligenza, la saggezza. Di conseguenza è stata tradotta come “Tintura di Saggezza”.
Su tintore credo ci siano pochi dubbi, il termine βαφή, baphi, significa “tinta”, da cui deriva per altro anche “intingere”, ulteriore richiamo all’immersione. Sul mitis, invece, restiamo sempre in dubbio, poiché il suo significato è soggetto a più interpretazioni. Il Met di Baphomet potrebbe essere collegato alla dea Metis e di conseguenza alla sapienza, alla saggezza, all’acume, così come magari essere legato a metros, dunque alla misura, al misurare. Io sinceramente sarei propensa anche a considerare l’ipotesi che possa derivare da μήτηρ, mitir, ossia madre. In tal caso il risultato sarebbe “tintura madre” o “tintura della madre” o anche “madre che tinge”, “madre tintore”, “madre tinta”. Ma cosa potrebbe significare il termine Tintore? Oltre al collegamento con l’immersione, riscontrabile anche dal termine “in-tingere”, [che ci ricollega dunque a baptismòs, il battesimo] la tinta evoca il chiaro significato di colore, tintura. Per illustrare meglio quello che ritengo essere il reale significato esoterico del Tintore, mi avvarrò di alcuni passi tratti dal testo apocrifo Il Vangelo Secondo Filippo. In Filippo 43 troviamo:
“Dio è un tintore. Come le buone tinture, che si dicono genuine, muoiono con le cose che sono state tinte con esse, così è con le cose tinte da Dio: poiché le sue tinture sono immortali, esse diventano immortali grazie ai suoi colori. Ora Dio, ciò che immerge, lo immerge nell’acqua”.
In questo passo ermetico ritroviamo alcuni riferimenti all’immersione come mezzo rituale d’iniziazione. Il battesimo per mezzo dell’acqua di Giovanni Battista, l’apertura della porta solstiziale estiva che conduce al portale degli uomini. Questo passo ci comunica che come le energie vitali muoiono una volta che muore il corpo animato da esse, allo stesso modo le anime iniziate al divino si rendono invece immortali, poiché sono appunto tinte con i colori di Dio. Ciò che pertanto viene tinto con colori mortali resta mortale, mentre ciò che viene tinto con colori immortali è destinato a divenire immortale. Nell’atto di tintura, paragonabile all’Iniziazione, il Nume trasferisce sull’uomo il suo potere divino, il quale viene appunto “intinto” nell’essenza del Sacro. Lo stesso concetto lo possiamo ritrovare nel soffio divino di Sophia degli Ofiti, come anche nello Spirito Santo dei Cristiani. Un’altra metafora simile, riconducibile al soffio di Sophia, la troviamo sempre nel Vangelo Secondo Filippo, 51:
“Vasi di vetro e vasi d’argilla sono fabbricati col fuoco. Ma se si spezzano, i vasi di vetro sono rimodellati, perché furono prodotti mediante un soffio; se invece si spezzano i vasi d’argilla, vanno distrutti, perché furono fabbricati senza il soffio”.
Qui riceviamo un dettaglio in più. Il passo c’informa che non basta essere generati dal potere creativo di Dio per essere immortali, bensì occorre anche essere stati pervasi dal soffio di Sophia. Un altro passo molto interessante sempre di Filippo ci fornisce nuove informazioni sul Tintore:
“E il Signore prese settantadue colori, li gettò nel calderone e li ritrasse tutti bianchi e disse: “Il Figlio dell’Uomo è invero giunto come un Tintore”.
Ancora una volta la divinità viene accostata al ruolo di Tintore e veniamo anche introdotti al significato della funzione stessa. Qui Filippo illustra il procedimento con cui l’Ente si rende Tintore, ossia ponendo settantadue colori in un calderone e facendoli diventare bianchi. Ed è proprio su questo punto che mi voglio soffermare, giacché esso mi permette di illustrarvi al meglio la mia opinione sul Tintore. Perché il Tintore, oltre ad essere l’Iniziatore Occulto che In-Tinge l’adepto nelle acque sapienziali e nel fuoco spirituale, è anche chi genera dall’ingenerato, rendendo manifesto il visibile. Allo stesso modo può anche attuare il processo inverso, al fine di perpetuare il ciclo palingenetico del Cosmo. In parole molto semplici sto parlando di creazione e distruzione, di torri elevate ed abbattute, di polvere che si fa carne e carne che si fa cenere. I settantadue colori del Tintore sono le settantadue forze primordiali che, se combinate fra loro, reificano l’essenza eterica sul piano terreno; per essere più chiara, potremmo dire che sono come dei “colori” primari che, se ben assemblati fra loro, possono generare altre sfumature, e con esse si può “disegnare” il mondo visibile. Molte cose sono governate da questo particolare fattore, il numero 72, a partire dalla massa della Luna che è un settantaduesimo quella della Terra, così come Saturno è invece settantadue volte più grande, o anche l’asse terrestre che si sposta di un grado proprio ogni settantadue anni. Anche il nostro stesso corpo è composto al settantadue per cento di acqua, la vita di un ovulo dura niente meno che settantadue ore e mediamente il battito cardiaco di un uomo sano è di settantadue pulsazioni al minuto. Settantadue è un numero talmente sacro che è stato spesso utilizzato anche in ambito cultuale, come i discepoli mandati da Gesù che erano appunto settantadue, stesso numero erano gli Immortali del Taoismo, i discepoli di Confucio, le razze discendenti da Mosè, gli anziani della sinagoga nello Zohar. Settantadue sono anche le lettere del “nome divino svelato”, le lettere del nome di Dio tratte dal 14 capitolo dell’esodo, versi 19, 20 e 21, il cosiddetto Schemamphorash. Settantadue è anche il risultato gematrico del nome Yahweh secondo la Cabala.
È però bene sottolineare che queste settantadue forze sono sempre connesse al piano fenomenico e non a quello supernale; esse sono infatti sovente connesse ad episodi che ce ne fanno intuire la loro natura terrena. Un esempio sono i settantadue gradini della scala di Giacobbe, metafora del percorso di Ascensione, cammino dunque da intraprendere in questo mondo per accedere a quello superiore. Ovviamente il suo patrocinio sulle forze telluriche ha talvolta conferito a questo numero anche un’accezione negativa, basti pensare che gli stessi Demoni della Goetia sono tradizionalmente settantadue, contrapposti ad altrettanti spiriti delle schiere angeliche. Osiride fu rinchiuso in una cassa - a mio avviso allegoria per il corpo - da settantadue discepoli di Set/Tifone. Settantadue erano le lingue della famigerata confusione babelica, così come Maometto credeva che terminare i pasti con il sale, tutelasse dalle settantadue “malattie”. L’astrologia cinese, inoltre, considera trentasei le stelle benefiche [supernali] e settantadue quelle malefiche [infernali], la cui somma dà il numero centootto, cifra sacra usata per le ripetizioni dei mantra vedici.
[Da notare che sia 36 che 72 che 108, sommati danno il numero 9, cifra che rappresenta l’Ascesa - e quindi la Porta degli Dei - così come il 6 rappresenta invece la Caduta, ossia la Porta degli Uomini. Questo ci suggerisce dunque che tutte queste forze, supernali o infernali che siano, aldilà delle concezioni morali a loro attribuite, hanno sempre una funzione atta ad elevare l’Iniziato].
L’opera del Tintore risiede dunque nel coagulare il bianco per generare i colori, così come nel solvere i colori per ricreare il bianco. Il Tintore è il Bagatto che con il suo pugnale rituale taglia in due l’Uroboro [il Bianco] per creare il Caduceo, [i 72 colori], ossia la Dualità in cui l’anima può esperire se stessa. È lo stesso discorso che facevamo con Indra che squarta suo fratello, il grande serpente Vrtra chiuso nella contemplazione di se stesso, al fine di poter estrarre da Lui tutte le realtà che conteneva. Queste realtà contenute in Vrtra e in Uroboro sono il Tutto, l’Etere, l’Akasha, la Quinta Essenza, o, come avrebbe detto Dante:
“la Bianchezza, che è un colore di luce corporale … e la contemplazione è più piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia”.
Il bianco diventa dunque la somma di tutti i colori, di tutte quelle forze che prese singolarmente e assemblate fra loro si rivelano la struttura metafisica dell’Universo. Potremmo paragonare i colori a dei meta-atomi spirituali che, se uniti insieme, determinano nuove strutture meta-molecolari. Il Tintore si esprime nei suoi due ruoli attraverso i volti di Janus/Janua, facendo attraversare il bianco presso la porta solstiziale estiva, per creare i colori, e facendo solvere i colori nella porta solstiziale invernale, per tornare al bianco originale. Per spiegare meglio questo concetto, riporto un breve estratto dell’opera Il Mondo Magico degli Heroi di Cesare della Riviera, il quale parlando di Saturno scrive:
”Hora cotal Piombo, e Saturno, è detto Padre degli altri Dei, cioè de gli altri magici metalli; conciosiacosa ch’eglino da principio sono tutti entro di lui celati: ma nella fabbrica del magico Mondo escono in luce, essendo dall’Heroe con arte spagirica fatti manifesti, e palesi”.
Questo pezzo di Della Riviera mi ha sempre fatto pensare al Tintore, alla sua opera di creazione e disgregazione, volta ad eternare l’esistenza. Qui Saturno è definito Padre di tutti gli Dei e gli Dei stessi vengono paragonati ai magici metalli, tutti contenuti dentro di Lui. È pertanto lecito immaginare Saturno come il grande serpente Vrtra che contiene tutte le forze dentro di sé, come il colore Bianco che contiene tutti i colori. Della Riviera continua dicendo che nella “fabbrica del magico mondo” - probabile allegoria della nostra realtà terrena - tutto ciò che è insito in Saturno esce in luce, per mano dell’Heroe che con arte spagirica li rende manifesti. L’Eroe è dunque il Bagatto che squarta l’Uroboro rappresentato dall’Arcano Zero, è l’Indra che taglia in due il serpente Vrtra e libera così dal Bianco tutti i settantadue colori, e lo fa per rendere le forze del mondo invisibile palesi nel mondo visibile, per rendere l’archetipo amorfo un simbolo tangibile. Curiosa poi la definizione “spagirica”, termine usato per la prima volta dal medico ed alchimista Paracelso, che deriva dal greco antico σπάω, spáō, “separare”, e ἀγείρω, ageiro, “riunire”. Ancora più curioso se poi si pensa che l’etimologia di “simbolo” deriva dal greco symbállō, che significa “mettere insieme”, “riunire”, così come una delle varie etimologie possibili di Diavolo deriva da “diàballō, “mettere di traverso”, “separare”. Il Diavolo è dunque l’eroe che divide il Tutto, che estrae dal bianco i settantadue colori per generare la realtà. Allo stesso modo il “simbolo” potrebbe bene rappresentare l’unione dei colori, l’unione di precise energie che, una volta assemblate fra loro, creano gli elementi del visibile. In effetti il simbolo è esattamente l’Imago vivente, la manifestazione visibile di un’energia, di un’idea.
L’arte spagirica dell’eroe che estrae da Saturno/Bianco tutti i metalli/colori è un ciclo continuo di separazione e riunione, concetto che non può non riportare alla mente il mito dell’integrazione già affrontato in precedenza. Osiride, come anche Zagreo/Dioniso, sono esempi di arte spagirica, dove il corpo viene appunto “diviso”, smembrato, per poi essere riunito e dar luogo alla resurrezione. L’arte spagirica come chiave d’immortalità mi fa pensare anche ad un altro fenomeno naturale molto interessante. Esiste infatti una medusa definita “immortale”, poiché ha la capacità di rigenerarsi in eterno. Si chiama Turritopsis Nutricola ed è stata scoperta da dei biologici genovesi. In pratica questa misteriosa creatura, una volta raggiunta l'età adulta, è in grado di invertire il processo di invecchiamento e tornare allo stato larvale, per poi crescere nuovamente, in un ciclo potenzialmente infinito. La cosa degna di nota è che la Turritopsis riesce a fare ciò attuando il “transdifferenziamento” delle proprie cellule. In poche parole, in un qualsiasi organismo in fase di sviluppo, le cellule cominciano a "differenziarsi", ossia si dividono in cellule muscolari, epiteliali, e via dicendo. La medusa in questione, invece, una volta raggiunta la maturità sessuale, riesce a fare il processo inverso, cioè fa tornare le cellule ad uno stato larvale, amorfo, per poi ricominciare a differenziarle e tornare così un esemplare adulto. Come vedete, questa eccezionale creatura attua su di sé un vero e proprio processo di arte spagirica, dividendo le proprie cellule nella sua fase di crescita - la divisione del bianco nei suoi colori - per poi riunirle e riportarle ad uno stadio originale - i colori che tornano a formare il bianco.
Per concludere questa disquisizione sul Tintore, possiamo riassumere affermando che Baphomet , nella sua veste di Tintore, rappresenta l’Iniziatore Occulto che mette in atto la sua opera demiurgica di creazione e distruzione, la quale si riflette nel percorso iniziatico in arte spagirica di discesa/divisione [coagulare le energie per farle passare dalla Porta degli Uomini del Solstizio d’Estate] e di ascesa/riunione [solvere le energie per farle accedere alla Porta degli Dei del Solstizio Invernale]. Il Tintore è il Saturno Maestro che in quanto Oro contiene in sé tutte le fasi dell’Iniziazione, il Bianco che attraverso l’opera diabolica - inteso come divisoria - rende tutti i gradini della scala di Giacobbe manifesti e pertanto percorribili dall’anima incarnata. Ovviamente su questo aspetto emerge chiaramente una sostanziale differenza fra il pensiero Gnostico e quello Satanico, nonostante esistano anche notevoli somiglianze. Gli Ofiti, infatti, percepivano la realtà terrena come un mondo illusorio e pertanto impuro e malevolo, disprezzo che di conseguenza si estendeva anche al corpo fisico. Questa visione è tipicamente di Mano Destra ed è condivisa da molte religioni, non solo da quelle abramitiche ma anche ad esempio da quella induista. Nel Satanismo, invece, così come nel Tantra e in generale in tutti i sentieri della Mano Sinistra, la realtà fisica è ovviamente percepita come un’illusione, ma tale illusione, anziché essere rifiutata, viene sfruttata al fine della comprensione e dell’elevazione personale. La realtà metatronica è per i Satanisti un mondo basso e ingannevole, ma altresì utile per mettersi alla prova, per acquisire esperienza e rievocare il Ricordo del proprio “nome divino svelato”. Ogni Satanide è per sua natura sia animale che divino, pertanto egli è un portale vivente fra supernale e infernale: egli trae dai simboli del visibile la conoscenza dell’invisibile, egli è un Demone di Carne, l’Erede dei Caduti, e in quanto tale un legittimo intermediario fra naturale e preternaturale. A tutti gli effetti egli cammina sulle acque, in sospeso fra i mondi. Per tutti questi motivi ritengo l’etimologia di Baphè come Tintore molto interessante, la quale trova riscontro anche nel latino Bapheus, che significa sempre Tintore.
DAL SICILIANO: So che sicuramente qualcuno, leggendo di un’ipotesi etimologica tratta da una lingua regionale, potrebbe aver storto il naso, ma spesso nei nostri dialetti si riscoprono tesori preziosi. La mia città natale è in Liguria, vicino a Genova, ma da diversi anni vivo in Sicilia e spesso ho incontrato termini che non avevo mai sentito prima. Il vocabolo che in particolare vorrei portare alla vostra attenzione è proprio “Tinto”, che per i siciliani rappresenta un’offesa. Nel dialetto siculo definire qualcuno “tinto” significa dargli della brutta persona, significa che quell’individuo è cattivo, che agisce in cattiva fede o che ha pensieri maliziosi. Talvolta la parola “tinto” si usa anche per gli oggetti, per indicare che sono di cattiva fattura, difettosi, taroccati. La cosa davvero interessante è però la sua origine. Il tinto siciliano deriva infatti dal termine latino tinctus, ossia “bagnato”, “impregnato”, “immerso”, e il motivo per cui veniva utilizzato come insulto è dovuto al fatto che anticamente i siciliani definivano “tinto” colui che era stato battezzato ereticamente e quindi non da cristiano. Non a caso esiste un modo di dire siculo che recita letteralmente: “tintu e malu vattiatu” [tinto e mal battezzato] proprio per indicare una persona cattiva, ingannevole, non per bene, così come anche un oggetto contraffatto e non realizzato come “Cristo comanda”. Forse questa informazione potrebbe sembrare banale, ma nei fatti rende molto più attendibile la teoria greco/latina di Baphomet come Tintore, ossia il battezzatore eretico, l’Iniziatore Occulto.
DAL CELTICO: A proporre un collegamento fra Baphomet e Celti è lo studioso di mitologia templare Giulio Malvani, che sul numero 6 della rivista Revue d'Histoire Celtique scrive un articolo dal titolo “Le origini celtiche della simbologia Templare”, in cui propone un’ulteriore teoria sull’etimo di Baphomet. Secondo l’autore il termine Baphomet deriverebbe dall'anglosassone hoff n mat , il cui significato sarebbe "il sapiente opaco". Per il Malvani l’aggettivo opaco equivarrebbe a “morto”, inteso come trapassato, entrato nei Regni dell'Aldilà.
Senza nulla togliere alla brillante intuizione di Malvani, aggiungerei che il concetto di opacità è simbolicamente connesso alla materia, alla pesantezza del piombo umano che ambisce a divenire oro. L’opacità non è sinonimo di tenebra, un corpo opaco è semmai un oggetto attraverso il quale non passa la luce, pertanto antitesi della brillantezza e della trasparenza. Per tali motivi l’opacità si può collegare al mondo infernale, materiale, dove la Sophia del supernale discende nell’aspetto di Achamoth, per diffondere sapienza a coloro che abitano il piano terreno, la terra dell’opacità. In tal modo l’appellativo “sapiente opaco” potrebbe perfettamente adattarsi al ruolo di Baphomet e più in generale del Dio Caduto in Terra per Portare Luce. Il Malvani ha una sua precisa opinione anche sul Baussant, il vessillo templare, conferendogli ancora una volta una possibile origine celtica.
“Anche il Baussant, il famoso vessillo templare, trova la sua spiegazione nella tradizione celtica. Anzitutto due parole sull'etimologia che non va ricercata, come è stato fantasiosamente proposto, né in beau sang (il bel sangue), né in vaut cent (vale cento), ma assai più semplicemente nell'antico termine baussant che compare nel vocabolario francese e significa "di due colori"; inizialmente fu applicato al mantello dei cavalieri, poi fu esteso all'araldica quale sinonimo di "bipartito". Questa è, dunque, l'etimologia”.
I due colori, in tal caso il Bianco e il Nero, sono rappresentativi della polarità tipica del mondo duale, annoverando la tenebra e la luce, la materia e lo spirito, l’infernale e il supernale, il sacro e il profano. L’autore continua:
“Baussant, ovviamente, compare anche nel grande gioco celtico, quello degli scacchi, che si svolgeva su una scacchiera detta fidchell (il legno dell'intelligenza) ed era appannaggio degli Dei, dei Re e dei guerrieri: ossia di coloro i quali, manovrando opportunamente le Forze del Bianco e del Nero, potevano determinare le sorti dei popoli”.
Questo pezzo è particolarmente interessante e mi fa pensare alla leggenda scitica sull’origine del gioco della Dama, la scacchiera inventata dal Narto Soslan e che inizialmente voleva tenere solo per sé, sfidando mortalmente chiunque osasse voler provare a giocare con lui. Questa rappresenta solo l’ennesima conferma della discendenza scitica dei Celti. Inevitabile inoltre non pensare anche al Gioco Stellare elaborato dall’O9A, Ordine per altro di origine britannica e quindi fortemente connesso alla tradizione celtica nel suo aspetto più sinistro, dove si utilizza una scacchiera come strumento operativo di un sistema magico volto a sviluppare il pensiero acasuale dell’Iniziato, sia su base microcosmica [Magia Interna ed Esterna] che macrocosmica [Eonica]. Il Malvani prosegue descrivendo la concezione di trascendenza tipicamente celta, dove l’Iniziato nonostante sia consapevole della bipartizione fra Nero e Bianco, mondo terreno e mondo ultraterreno, li fa compenetrare, definendo tale processo con la squisita espressione: “l'irruzione del Sacro nel Profano”. Per fare ciò, per sacralizzare il profano, per illuminare l’opacità, i Celti dovevano darsi a quella che il Malvani chiama l’avanture, ossia l’avventura eroica.
“Per attraversare la sottile porta fra i mondi, un metodo c'è, ed i Celti ne parlavano come di avanture. Avanture (da noi si dice "avventura", ma il senso è troppo materiale, e quindi ristretto e limitativo) è un'impresa straordinaria in cui uno è chiamato a dare alta e nobile prova di sé, della sua capacità di trascendere le normali limitazioni umane: la paura della Morte e dell'Ignoto, in primo luogo. Cercare l'avanture: ossia balzare in sella, armarsi di lancia e spada e gettarsi a capofitto nella mischia, tanto meglio se si è stanchi e soli, se i nemici sono molti e agguerriti. Tanto meglio: perché allora maggiormente rifulgerà il nostro potere spirituale (è sempre il nostro Spirito che domina la Materia!) e Dio si manifesterà in noi dando forza al nostro braccio e aiutandoci a sviare i più pericolosi colpi dell'avversario”.
Senza ombra di dubbio trovo tale concetto perfettamente in linea con il pensiero satanico, giacché troviamo nell’avanture celtica un perfetto connubio di eroismo, superamento dei propri limiti e pathei mathos. La sfida, il mettersi alla prova, il dinamismo e lo spirito di battaglia sono tratti tipicamente satanici, sebbene di epoca in epoca possano esprimersi sotto forme differenti. L’antinomismo per sua stessa natura non può essere assolutizzato, esso è inscindibile dal contesto sociale, politico e religioso in cui il Satanista vive e pertanto è destinato a mutare la sua forma a seconda delle circostanze. L’articolo del Malvani verte poi sul rilevante ruolo della donna all’interno della cultura celtica:
“Nessun popolo, forse, ha onorato la Donna più dei Celti che vedevano in lei quasi un trait-d'union con l'Aldilà, poiché la riconoscevano più pronta dell'uomo a percepire le voci dell'Occulto, forse in virtù di una maggiore sensibilità psichica e di un più raffinato, misterioso intuito. Per questo il guerriero riceveva le armi da una Dama. (…) Per questo, pur essendo la religione celtica solare, la somma divinità era una Dea; a chi chiedeva loro ragione di tale apparente contraddizione, essi rispondevano: «Così è anche nel volgere del giorno: il Sole è superiore alle tenebre della Notte, ma è dal mistero di queste che Egli si leva radioso ogni mattino»”.
Questo elemento si connette perfettamente all’essenza femminea di Baphomet, rintracciabile anche nel culto della Dea Kali e delle tagliatrici di teste, Colei che inizia all’Oscura Via del Guerriero, l’unico che ha Camminato nelle Tenebre e pertanto l’unico che può rendersi Portatore di Luce. I Templari non a caso dedicavano alla Madre la forza della propria spada e del proprio cuore, sebbene poi il loro trasporto per la Sacra Signora sia stato tradotto in devozione verso la Madonna cristiana. Negli antichi regolamenti dell' Ordine leggiamo come i Cavalieri del Tempio La pregassero:
“Le orazioni a Nostra Signora si devono recitare ogni giorno, per prime, nella Magione, salvo la compieta di Nostra Signora che si recita tutti i giorni, nella Magione, per ultima, poiché nel Nome di Nostra Signora ebbe inizio il nostro Ordine, e in Suo onore, se Dio vuole, sarà la fine della nostra vita e dell'Ordine stesso, quando a Dio piacerà che ciò accada”.
Che l’etimologia celtica di Baphomet come “sapiente opaco” possa convincere o meno è chiaramente soggettivo, ma per quanto mi riguarda credo che l’essenza di Baphomet abbia molti elementi in comune con la tradizione celtica. Una cultura che, come più volte ho voluto sottolineare in questo articolo, trova le sue radici nella cultura scitica, cosa che infine ci conferma anche lo stesso Malvani parlandoci del culto dei crani, afferente alla testa mozzata propriamente bafometica:
“Il significato della "testa mozza" presso i Celti è profondo, significato peraltro comune a tutti i popoli che affondano le loro radici nelle "terre della steppa", poiché è là che il culto dei crani ha avuto origine. Anche i progenitori dei Romani venivano di là, dalla steppa; per questo quando, durante gli scavi per le fondamenta del Tempio di Giove Optimo Maximo, venne alla luce una testa umana, il fatto fu interpretato come favorevole auspicio e si predisse che il luogo (Capitolium, da caput humanum) sarebbe divenuto "la testa" dell'Impero.
Non solo dunque i Celti provengono dagli Imperi Nomadi della Steppa, ma anche i nostri diretti avi Romani. Forse la mia fissazione verso i Popoli Scitici è sicuramente alimentata dal fatto che sia stato proprio il mio Guardiano a parlarmene in tempi non sospetti, tuttavia credo che esistano validi elementi storici per poter considerare tale terra come la possibile origine del Clade Satanico. Le terre della steppa si estendevano per altro dalla Scizia dell'antichità classica sino alla Zungaria moderna, Zungaria che significa letteralmente “mano sinistra”. Zungaria, inoltre, può essere pronunciata anche “Sungaria”, termine che personalmente trovo molto assonante con Sang Real, ossia la stirpe reale proveniente non dal Gesù cristiano come oggi vogliono farci credere, bensì dal primo vero “Cristo”, il Dio Caduto per offrire conoscenza all’essere umano e unirvisi nella carne: Satana.
DALL’ARABO: Dall'arabo son state tratte diverse teorie.
1 - La prima etimo di Baphomet che ci perviene dall’arabo la dobbiamo all’orientalista austriaco Joseph von Hammer-Purgstall, il quale riconduce il termine alla parola Bahoumid, che significa Vitello.
Questa versione non è secondo me del tutto impossibile; il toro è sempre stato sacralizzato fin dalla preistoria, era spesso adorato come controparte maschile della Madre, la Vacca Sacra. Esempi di Dei Toro li troviamo nell’egizio Apis, nel sumero Toro Celeste Gugalanna, sposo della Dea Infera Ereshkigal, nel babilonese Marduk e anche nel fenicio Baal. Anche lo stesso Shiva cavalca un toro bianco di nome Nandi, per non parlare del noto mito cretese di Teseo e Arianna, incentrato proprio sul Minotauro del re Minosse. Ma il toro non è estraneo nemmeno ai culti misterici, basti pensare al fatto che lo stesso Dioniso, precedentemente citato, era associato al vitello sacrificale, riferimento allo smembramento da parte dei Titani. Particolare attenzione andrebbe poi rivolta al culto mitraico diffuso in terra Romana, dove il toro era direttamente collegato al Dio. I seguaci di Mitra venivano iniziati attraverso un particolare rituale che consisteva nel lavarsi con il sangue del toro. L’Iniziato scendeva nella Fossa Sanguis, si sdraiava e veniva ricoperto dal sangue del toro sacrificato sopra la fossa. Questo rituale violento rappresentava una sorta di battesimo del sangue, dove il toro incarnava il Nume che attraverso il suo sangue purificava l’Iniziato. Insomma, il toro era talmente oggetto di adorazione nei diversi culti Gentili che la Bibbia cominciò a ridisegnarlo come creatura demoniaca, il simbolo per antonomasia dell’idolatria pagana che volevano estirpare. Un esempio noto lo troviamo in Esodo 32, dove si narra la vicenda di Aronne e il Vitello d’Oro. In seguito Giudei e Cristiani compresero che la figura del toro era troppo popolare per poter essere sradicata e così finirono per farla propria. Lo stesso Yahweh venne così talvolta associato al toro, così come l’apostolo Luca e in alcuni casi persino Gesù, ovviamente nella veste di vitello sacrificale.
2 - Un'altra teoria etimologica che ci arriva dalla lingua araba è connessa al misticismo dei Sufi, dove il ricercatore Ismael Idries Shah, forse più noto con lo pseudonimo Arkon Daraul, lo farebbe derivare da Abu-Fihamat traslato poi in Bufihamat, che significa Padre della Comprensione - o secondo altre versioni dell’Ignoto. Secondo il professor italiano Roberto Volterri, vi sarebbe poi in ambito sufico anche un’altra terminologia che ha una certa assonanza con il nostro Baphomet, ossia Ra-El-Fahamat, che significherebbe niente meno che “Testa della Conoscenza”.
La radice araba del termine “comprensione” è FHM e può essere usata anche per indicare in senso più esteso la conoscenza e persino il colore nero o l’essere anneriti dal carbone. Sebbene l’attuale cultura giudeo-cristiana dia al nero un’accezione negativa, in realtà esso è il colore della vera Sapienza. Il nero rappresenta le tenebre in cui l’Iniziato può conoscere se stesso, oltre le distrazioni proprie delle geometrie luminose del nostro piano. Il nero rappresenta la Nigredo, il processo essenziale per l’evoluzione personale e collettiva. Kali deve il suo nome al colore nero, persino Osiride, oltre ad essere definito il Grande Verde come richiamo alla vegetazione rigogliosa, era altresì detto il Grande Nero, oscuro come la terra umida da cui nasce la vita. La natura dà i suoi frutti solo quando il seme viene immerso nella nera terra e soltanto dopo un lungo periodo, avvolto dalle tenebre e dal silenzio, esso potrà rifiorire nella luce. Come scrissi una notte di molti anni fa: “Nella Notte cresce un Seme che vedrai fiorire soltanto all’Alba. Buio e Silenzio l’hanno nutrito ma ora Lui illumina e canta”. La Natura insegna molto senza bisogno di dottrine e così anche l’Iniziato deve seguire l’esempio del seme se vuole crescere e dare frutto. Anche il carbone è simbolicamente connesso all’opera al nero, esso non è dissimile dal piombo saturnale, pesante e opaco ma destinato a rifulgere nell’aurea rinascita. A proposito del carbone Nietzsche scrisse:
“Perché sei così duro - chiese il carbone al diamante - non siamo forse parenti stretti? E tu perché sei così tenero - fu la risposta - non sei forse mio fratello?”
Questa citazione di Così parlò Zarathustra è emblematica dell’imprescindibile sodalizio fra carbone e diamante, piombo e oro, nero e bianco, tutti nei fatti simboli della dicotomica natura umana, dove le apparenti opposizioni si scontrano per incontrarsi, dove l’individuo che eravamo e quello che saremo convivono in noi fin dalla nascita, oltre la comune concezione di tempo.
DALL’EGIZIANO: Sul fronte egiziano ho trovato un’interessante teoria nel libro Bphomet – Sulle tracce del misterioso idolo templare, degli studiosi Volterri e Piana; purtroppo non sono riuscita a rintracciare la fonte diretta, dato che i due autori dicono soltanto di averla tratta da un articolo sul web di un certo Silvano Danesi. Secondo l’autore di questa teoria etimologica, Baphomet potrebbe derivare da un’antica divinità egizia di nome Bapfi, il cui significato sarebbe “Io sono il suo Ba”, ossia “Io sono il suo Spirito”. Il Danesi avanza anche l’ipotesi che il termine Baphomet possa essere la composizione di Ba, “spirito”, Fw, “glorificare” e Met, “morte”, tradotto dunque in “Lo spirito viene glorificato nella morte”. Il Danesi argomenta la sua teoria accennando di come per i Templari fosse onorevole morire in battaglia.
Effettivamente potrebbe avere un senso, abbiamo visto che nell’Iniziazione Oscura tipica della Via Sinistra esiste senza dubbio una forte connessione fra morte ed elevazione dello spirito, tuttavia, pur non essendo preparata sull’antica lingua egizia, istintivamente ho ipotizzato che il Met finale di morte potesse anche essere letto come Maat, Dea della verità e della Giustizia. In tal modo la frase potrebbe dunque anche tradursi in “lo spirito viene glorificato dalla verità” o anche “lo spirito glorifica la verità”, o persino letteralmente “lo spirito glorifica la Dea Maat”. Ad ulteriore conferma di questa possibilità, occorre dire che nell’antico egiziano la parola mwt significa “madre”, pertanto potrebbe significare altresì “lo spirito glorifica (o è glorificato da) la Madre”. La perplessità maggiore che avevo riguardava però il termine fw come “glorificare” e così ho deciso di chiedere un parere a Khaibit, Satanista, collaboratore e amico che da anni studia la tradizione egizia:
“Il fonema F è uno dei meno usati come prima lettera e in nessuno dei dizionari ritrovo un “Fw” che stia per glorificare. Anzi, non c’è proprio nessun Fw, fatta eccezione per una variante di “Ftw” (che significa “quattro”) nel dizionario di Budge. Il termine F3w (letto Fau), invece, viene tradotto nel dizionario di Faulkner come magnificenza/splendore, mentre in quello di Budge come malvagio/sbagliato. A questo punto credo che la ricostruzione più sensata al massimo potrebbe essere B3-f, cioè Baf, che significa “Il suo Ba”.
Sulla base delle informazioni di Khaibit, possiamo supporre che forse il Danesi abbia recuperato il suo “glorificare” dalla traduzione faulkneriana di F3w, come splendore e magnificenza. Più esatto sarebbe dunque forse “lo spirito risplende nella morte” o “lo spirito risplende nella verità [Maat]” o ancora “lo spirito risplende nella Madre”. Stando invece all’ipotesi più attendibile di B3-f, come “il suo Ba”, proposta da Khaibit - e anche dal Danesi quando analizza il nome Bapfi - potremmo tradurre come “il suo Ba (spirito) nella morte” oppure ancor meglio “il suo spirito nella Madre” o anche “il suo spirito è nella morte” o “nella Madre” o “nella verità/Maat”. Altra ipotesi formulata dal Danesi è che il nome Baphomet possa essere collegato alla Dea Madre, in particolare alla Dea gatto Mafdet. Leggiamo:
“È probabile che il gatto dei Templari fosse in realtà il simbolo di Iside, la Dea dai molti nomi, e in particolare della sua forma Mafdet, in quanto Dea che presiede alla Casa della Vita, ossia il luogo dove si coltiva la sapienza e dove, sotto la protezione di Thot, si conoscono gli antichi segreti. Il gatto è dunque un simbolo sincretico, che univa le molteplici tradizioni, ancora vive, che si rifacevano alla Dea Madre, meglio, ad una divinità androgina. E qui arriviamo a Baphomet, la cui assonanza a Mafdet è sintomatica”.
Effettivamente la somiglianza fonetica fra i due lemmi è abbastanza evidente, ancora di più, aggiungerei, se si considerasse Baphomet non solo come deformazione di Mafdet, bensì come contrazione dei nomi Bastet e Mafdet, entrambi aspetti della Dea felino. Bastet è nota a tutti come la Dea egizia dei gatti e Mafdet ne incarna la sua forma arcaica. Ancora una volta mi avvalgo dell’esperienza di Khaibit per illustrarvi meglio l’identità di questa entità dalle sembianze feline. Nell’articolo BAST/SEKMHET - Dalle Origini alla Confusione Storica, l’autore scrive:
“Mafdet era la Dea felinide (o mangusta) che si trova menzionata già dalla prima dinastia (e c'è perciò chi sostiene sia una sorta di predecessore di Bast/Sekhmet) Era dea della giustizia legale e della pena di morte, e proteggeva dagli animali velenosi. Sebbene il suo culto sia stato in buona parte assorbito da quello di Bast, nel nuovo regno le attribuirono il ruolo di regnante sulla Sala della Sentenze, dove i nemici del faraone venivano decapitati con l'Artiglio di Mafdet”.
Avete notato niente di particolare? Ebbene sì, anche Mafdet, forma antica di Bastet, può essere annoverata fra le Dee tagliatrici di teste. Anche qui ritroviamo la decapitazione, sebbene in chiave punitiva. Non mancano tuttavia nel culto della Dea gatto elementi fortemente iniziatici e a tal proposito ci vene in soccorso il mito di Bastet/Sekhmet. Attraverso l’analisi storica della diade Bastet/Sekhmet si può desumere che esse non siano due entità separate, bensì due aspetti della stessa divinità. Bastet incarna l’aspetto più docile e benevolo della Dea, mentre Sekhmet, così come l’arcaica Mafdet, rappresentano un aspetto più oscuro ed aggressivo. La leggenda vuole che Ra, deciso a punire gli uomini, invii la Dea Madre Hathor per sterminarli e che Ella diede inizio alla purificazione dell’umanità assumendo la forma di Sekhmet. La sua furia era inarrestabile e così Ra e gli altri Dei, mossi a compassione, decisero di fermare la Dea irata. Per riuscire nell’intento prepararono una birra mischiata ad ocra rossa, al fine di farle credere che fosse sangue. Ra lo fece cadere sulla terra e Sekhmet, bevendolo, si ubriacò e si addormentò. Fu da allora che la Dea Sekhmet divenne Bastet, mutando da leonessa a gatta. Impossibile sarebbe non comparare questo episodio all’analogo induista, con protagonista la Dea Kali. Anche Lei, infatti, così come Sekhmet rappresenta il lato iracondo della Dea Durga e viene creata per sconfiggere degli spiriti impuri e malvagi. Persino in questa narrazione troviamo l’elemento sangue - Kali beve ogni goccia del feroce Raktabija - e anche in questo caso gli Dei sono incapaci di fermarla, ad eccezione di Shiva che, essendo da Lei il più amato, riesce nell’intento. Kali e la Dea felina dell’Antico Egitto sono sempre rappresentazioni coerenti dell’Iniziatore Occulto.
"Non si accarezza la gatta Bastet, prima di aver affrontato la leonessa Sekhmet"- detto egizio.
Tornando però al nostro Baphomet, oltre all’analogia con Kali Ma, ha senso parlare di Dea felino? La risposta la lascio ad ognuno di voi, ma mi permetto di perorare tale ipotesi fornendo ulteriori elementi. Come certo saprete, il gatto è sempre stato venerato nell’antico Egitto, da sempre ammirato come animale misterioso e fortemente connesso al mondo ultraterreno. Curiosamente, però, l’amore per i felini era proprio anche dei Templari, i quali avevano un debole per i gatti, in particolare certosini, al punto da dedicar loro un atteggiamento quasi reverenziale. Secondo alcune deposizioni, il famigerato idolo templare poteva essere niente meno che il noto felino domestico. Caso particolare è quello del processo a Brindisi, in data 4 giugno 1310, dove alcuni Templari convocati a testimoniare, non appena un gatto dal manto grigio fece capolino nell’aula, si alzarono in piedi e abbassarono il capo in segno di rispetto verso la creatura. Curioso è anche il caso di un altro ordine eretico, i Catari, i quali vennero accusati da alcuni testimoni di praticare un rituale molto simile a quello templare. Essi attendevano l’arrivo di un gatto nero che giungeva fra loro scendendo lungo una fune e ogni partecipante lo baciava sulle zampe, sull’ano e sui genitali.
Anche i Templari venivano accusati di adorare un idolo che potevano toccare solo attraverso una fune a contatto con il proprio corpo e non da meno erano le accuse di rituali orgiastici, ove era compreso il gesto rituale del bacio dell’ano e dei genitali, sia dell’idolo che degli altri confratelli. Se queste accuse siano vere o infondate non possiamo saperlo, tuttavia non possiamo non considerare che effettivamente il gatto è un simbolo sacro della Signora, soprattutto in Egitto. Altresì coerenti con il Suo Culto solo i rituali orgiastici, praticati in diverse tradizioni, come ad esempio nel Tantra di Kali e Shiva, nel culto sumero-babilonese di Ishtar/Inanna, o anche nei Riti dedicati alla Dea Achamoth, la quale rappresenta il lato oscuro - e terreno - di Sophia. Nemmeno Bastet fa accezione, Ella era considerata Dea dell’Amore e dell’Eros e nel suo giorno celebrativo - il 31 ottobre – Erodoto racconta che i suoi fedeli si lanciavano in feste, banchetti e danze, dove si beveva vino e ci si dedicava a rituali di natura erotica. Tipico era anche l’atteggiamento provocatorio e volutamente sconcio, decisamente antinomico per i tempi; un esempio è l’usanza delle chiatte galleggianti sul Nilo, dove donne e uomini suonavano e danzavano fra fiori e vivande, per poi avvicinarsi alla riva e fare gestacci, nonché mostrare i genitali, a quelle persone che non erano volute salire a bordo. Questo buffo costume mi porta alla mente l’anàsyrma, un gesto rituale greco di carattere apotropaico, che consisteva nel sollevarsi la gonna e mostrare le parti intime, in modo goliardico e scherzoso. Un esempio è il caso dei Misteri Eleusini, in cui venivano celebrate Demetra e Persefone anche attraverso l’anàsyrma, in ricordo della simpatica megera Baubo che in questo modo fece sorridere la Madre durante la sua permanenza in Terra. [Secondo altre versioni non fu il gesto di Baubo a farLa sorridere, ma la reazione divertita di un bambino che osservava la scena; entrambe le possibilità mi sembrano credibili, anche se conoscendo lo spirito tanto austero quanto giocondo della Signora, non riterrei impossibile che possa aver trovato buffa la triviale spudoratezza di Baubo!]
L’etimologia egizia e i collegamenti con la Dea felino sono sicuramente molto interessanti e vi ritroviamo elementi comuni alla Tradizione Oscura. Come abbiamo potuto vedere, anche qui ritorna la decapitazione, la Tenebra in azione a favore della Luce, espressa dalla Dea furiosa e sanguinaria che distrugge i malvagi. Ulteriore elemento accumunante è il Serpente tagliato in due; esiste un mito egizio in cui il serpente Apopis viene decapitato da una divinità con fattezze feline, al fine di permettere al Dio solare di poter proseguire il suo cammino e risorgere dalle tenebre. Questa divinità felina è stata associata a Neith, a Ra, ad Atun e ovviamente a Bastet. Le versioni sull’identità dell’assassino di Apopis sono molteplici e variano a seconda dell’interpretazione, ma ciò che resta indubbio è che fosse un’entità felina. Io sono propensa a identificare tale sacro eroe con la Signora, la Sekhmet/Mafdet furiosa, Dea del Giudizio. La vicenda di Apopis è stata ovviamente romanzata, ma credo che il suo significato ermetico non sia molto lontano dall’uccisione del serpente Vrtra da parte di Indra. Se rammentate la mia interpretazione a riguardo, Vrtra rappresentava la stasi monadica dell’Uroboro, mentre Indra incarnava il Creatore della dualità dinamica insita nell’emblema del Caduceo. L’esegesi del racconto egizio richiama lo stesso significato primordiale, ovvero l’interruzione violenta della stasi, rappresentata anche qui dal serpente che frena il cammino del sole. Anche la dicotomia Notte e Giorno potrebbe rappresentare la contrapposizione fra le regioni caotiche dell’Oltre e la nostra dimensione metatronica, dove il caos oscuro si converte in fulgide geometrie esperibili dall’anima incarnata.
È dunque possibile ipotizzare che l’idolo templare fosse un gatto? Forse no, ma sicuramente esso era collegato all’oggetto della loro adorazione, magari proprio un simbolo dell’Iniziatore Occulto. Il gatto ha sempre avuto un fascino talmente potente da esser spesso considerato diabolico, non a caso in epoca medievale veniva associato alla stregoneria, al punto che i Cristiani erano soliti catturarli e bruciarli nei roghi. Celebre è il tragico caso di Ypes, una cittadina belga dove per ben settecento anni [dal X secolo e.v. al XVII e.v.] nella seconda settimana di quaresima si teneva il cosiddetto “mercoledì dei gatti”, il quale consisteva nel gettare questi poveri animali da torri e campanili, al fine di allontanare il “demonio”. Questa macabra tradizione è perdurata per secoli e la cosa incredibilmente ridicola è che oggi gli eredi di questi assassini siano gli stessi che ogni anno ad Halloween mettono in guardia le persone dai Satanisti, accusandoci di sacrificare gatti, cosa che a differenza loro non abbiamo mai fatto e mai faremo.
DAL PERSIANO: A prospettare un’interpretazione persiana fu l’orientalista francese Edgard Blochet, il quale riprende la teoria del bahumid arabo, ipotizzato da Hammer-Purgstall, e lo compara al persiano vohumita, termine composto da vohu, letteralmente “buono” e mita, ossia “misurato”. In poche parole Baphomet, secondo Blochet, significherebbe dunque il “ben misurato”, traducibile a mio avviso anche con “colui che misura bene”, a evidenziare il suo ruolo di “misuratore” già incontrato.
Il concetto di misura lo ritroviamo anche in una delle possibili etimologie di Metatron, figura angelica della mitologia giudeo-cristiana che, come sempre, è stata ricostruita sulla base di divinità più antiche. Secondo le mie Informazioni, Metatron, sebbene soltanto parzialmente, sarebbe una rivisitazione abramitica del Primo Uomo Asceso, il primo Maestro formato dall’Iniziatore Occulto durante la fondazione del Culto delle Origini. Metatron non è semplicemente un nome ma un ruolo, a cui può adempiere solo l’Asceso. In definitiva, Blochet ci racconta la sua teoria su Baphomet in un articolo dal titolo Études sur le gnosticisme musulman, pubblicato sulla Rivista di studi orientali, e trae la conclusione che Baphomet possa essere un angelo mazdeo [zoroastrismo] che in seguito venne assorbito dallo gnosticismo iranico sotto spoglie cristiche.
DALL’EBRAICO: La lingua ebraica ci fornisce due teorie etimologiche differenti, la prima formulata sempre dal nostro ormai famigliare Purgstall e la seconda dallo studioso Hugh J. Schonfield.
1- Fra le diverse teorie del Purgstall ce n’è una tratta dai termini ebraici Maphtah Bet Yahweh, traducibili in “La Chiave della Casa di Dio”. Sebbene io non conosca la lingua ebraica e non possa avanzare grandi critiche, trovo questa etimologia abbastanza debole, sia a livello di mera assonanza che come significato. Identificare Baphomet come una chiave può avere una sua ragion d’essere, ma l’accostamento a Yahweh mi risulta una palese forzatura. Ciò che invece avrebbe decisamente più senso sarebbe l’accostamento con la dea felina Mafdet, già incontrata nell’analisi dell’etimologia egizia, la quale era per altro anche investita del titolo di “Chiave della Casa della Vita”, così come l’etimo stessa del nome della dea Hathor era “Casa di Horus”, dio solare della tradizione egizia.
2- La seconda è forse fra le più interessanti, proposta da Hugh Joseph Schonfield, noto studioso dei Rotoli del Mar Morto rinvenuti a Qunram. A Schonfield va il merito di aver rintracciato in alcuni scritti esseni il cosiddetto Codice Atbash, ossia un codice di sostituzione alfabetica atto a celare ermeticamente alcune letture. In poche parole, il codice Atbash è un cifrario segreto che si fonda sulla sostituzione della prima lettera dell’alfabeto ebraico con l’ultima, la seconda con la penultima e così via. In questo modo, se l’Atbash fosse applicato ad esempio all’alfabeto italiano, la lettera A diventerebbe la Z e la Z diventerebbe la A, così come la lettera B diventerebbe la V e viceversa, la C sarebbe sostituita con la U, e così via. Esempi di codice Atbash li ritroviamo anche nella stessa Bibbia, come ad esempio nel libro di Geremia in cui viene spesso citata la città di Sheshach, luogo che in realtà con tale nome non è mai esistito. Applicando però l’Atbash, scopriamo che Sheshach non è altro che il nome in codice di Babel, dove le lettere SH-SH-K traslitterate danno le lettere B-B-L. Ebbene Schonfield ebbe la brillante intuizione di applicare il codice Atbash al termine Baphomet, scoprendo che dalla sua decrittazione emergeva la parola “Sophia”, ossia la Sapienza, nonché la divinità femminile adorata dagli Ofiti, gli Adoratori del Serpente di cui abbiamo precedentemente parlato.
Terminata l’analisi delle differenti versioni linguistiche, passiamo ora ad illustrare le diverse interpretazioni di noti pensatori ed occultisti.
SECONDO FULCANELLI: La teoria dell’alchimista Fulcanelli verte ad un’interpretazione simbolica del Baphomet di tipo alchemico, interpretandone le fattezze come l’unione mistica degli elementi dell’Opera. Ne Le Dimore Filosofali, il Fulcanelli, analizzando un gruppo scultoreo nel Maniero della Salamandra di Lisieux, associa la figura di un’enorme testa barbuta con il noto emblema bafometico. Leggiamo:
“Con le sue corna e la sua corona, il simbolo solare assume il significato di vero e proprio Baphomet, cioè d’immagine sintetica nella quale gli Iniziati del Tempio avevano raccolto tutti gli elementi dell’alta scienza e della tradizione”.
Per l’autore il Baphomet era dunque la creazione templare di un simbolo atto a racchiudere in sé il significato più profondo dell’Opera Alchemica. Fulcanelli continua la sua descrizione del Baphomet, arrivando alla sottostante rivisitazione iconografica:
“Il volto del Baphomet era costituito da un triangolo isoscele dal vertice orientato verso il basso, geroglifico dell'acqua che, secondo Talete di Mileto, fu il primo elemento ad essere creato. Un secondo triangolo simile, ma contrario rispetto al primo e più piccolo, si inscriveva al centro e occupava lo spazio in relazione al naso nella faccia umana. Questo triangolo rappresentava il Fuoco e più precisamente il fuoco contenuto nell'acqua, la scintilla divina che penetra nella materia. Sulla base capovolta del grande triangolo era posta la lettera latina H, però più larga, con la barra centrale tagliata da un cerchio mediano. Questo segno ermetico rappresenta lo Spirito universale e cioè Dio stesso. Sempre all'interno del triangolo grande era segnato a sinistra il cerchio lunare a spicchio e a destra il cerchio solare con al centro il punto apparente. Questi due ultimi segni erano posti come se fossero gli occhi del volto umano. Infine, alla base del piccolo triangolo interno, la croce messa sul globo rappresentava il duplice segno dello zolfo, principio attivo associato al Mercurio, principio passivo e solvente di tutti i metalli. Spesso, un segmento più o meno lungo, posto al vertice del triangolo si divideva in linee a tendenza verticale, dove il profano riconosceva, non l’espressione dell’irraggiamento luminoso, ma una specie di barbetta. Ciò spiegherebbe le diversità delle descrizioni che sono state fatte del Baphomet, che lo vedono come testa di morto con l'aureola, come bucranio, talvolta con la testa dell'egizio Api, o di un capro, o meglio ancora, come l’orribile testa di Satana in persona! Espressioni lontane dalla verità ma che portarono alle accuse di demonologia e stregoneria a carico dei poveri Cavialieri del Tempio”.
Sinceramente non ho mai trovato la versione del Fulcanelli particolarmente avvincente. Nonostante, infatti, la sua disquisizione alchemica sia senza dubbio interessante, resta un’interpretazione molto soggettiva e non riesco bene a cogliere in che modo data immagine possa essere collegata al Baphomet. Ritengo comunque coerente immaginare il Baphomet come la fusione degli elementi alchemici dell’Opera, giacché lo scopo dell’Iniziazione Oscura è proprio l’evoluzione dell’individuo e il Magnus Opus ne è il risultato. Credo anche però che questa ricostruzione bafometica, pur a volerla formulare sulla base dei principi alchemici, sia manchevole di molti altri elementi a mio avviso necessari al compimento dell’Opera. Le considerazioni finali su Satana hanno infine confermato inevitabilmente la mia impressione di faziosità del Fulcanelli, un uomo dal quale ci si aspetterebbero meno pregiudizi verso il Dio dell’Anima, proprio in virtù della sua notevole cultura in ambito esoterico. Certe uscite superstiziose verso Satana me le aspetterei da un pretuncolo di paese, non certo da un uomo che si desume abbia passato un’intera vita immerso nei grandi saperi ermetici. Purtroppo però il peso dell’indottrinamento spesso rende ciechi anche i più sapienti, giacché l’inconscio sa sempre come prevalere sulla coscienza, nel bene e purtroppo anche nel male. Sul versante etimologico, invece, dobbiamo riconoscere all’alchimista una teoria decisamente più interessante:
“Nella pura espressione ermetica, corrispondente al lavoro dell’Opera, Baphomet deriva dalle radici greche tintore e luna, o anche la forma genitiva di madre o matrice, che ha comunque lo stesso significato di luna, poiché la luna è la vera madre o matrice mercuriale, che riceva la tintura o lo sperma dallo zolfo, il quale rappresenta il maschio, il tintore. Possiamo dire che lo zolfo, padre e tintore della pietra, feconda la luna mercuriale per immersione, cosa che riconduce al battesimo di Meti, espresso anche dalla parola Baphomet. Questo appare dunque come il geroglifico competo della scienza, rappresentata dal resto dalla personalità del dio Pan, immagine mitica della natura in piena attività”.
Potremmo dunque riassumere la versione fulcanelliana come “Tintore della Luna”. Credo che identificare nel termine Baphomet la gloria delle nozze alchemiche fra zolfo e luna mercuriale sia molto in linea con l’essenza dell’Iniziatore Occulto, che come abbiamo visto ha forti legami sia con Eros che con Thanatos. Rivisitando in chiave personale la sua interpretazione, prendendo βαφευς - tintore - inteso come colui che “intinge”, “immerge”, e μης , o meglio μην, considerando dunque anziché “luna” il genitivo di “madre” e quindi “della madre” [in latino la forma genitiva corrisponde al complemento di specificazione] abbiamo di conseguenza “il tintore della madre”, ovvero colui che è stato predisposto dalla Signora a tale compito. L’Iniziato che per opera dell’Iniziatore Occulto diviene a sua volta Iniziatore, tramandando così la Tradizione. In tal caso Baphomet potrebbe essere la Signora stessa, ma con molta probabilità anche il suo primo Sacerdote, colui che quando Lei e i Discesi camminavano sulla Terra diede inizio al Culto delle Origini.
SECONDO RENE GUENON: René Guénon, in Études sur la Franc-massonerie, propone una nuova possibile teoria basandosi sulla versione araba bahumid, vitello, avanzata come abbiamo visto da Hammer-Purgstall in Mémoire. La teoria prospettata da Guenon si fonda sulla confutazione della teoria dell’orientalista austriaco, sostenendo che tale termine arabo non esista e che sia più corretto sostituirlo con bahimah, letteralmente “tutti gli animali”. Tale proposta la trovo poco convincente dal punto di vista fonetico, mentre sul fronte del significato possiamo trovargli un senso collegando tale appellativo a Paśupati e Potnia Theron.
Pashupati è una divinità induista il cui nome significa letteralmente “Signore degli Animali” o anche “Signore del Bestiame”. Era un’arcaica incarnazione del Dio Shiva e tuttora è molto riverito nella setta degli Shivaisti, in particolare in Nepal. Alcuni storici hanno per altro trovato una connessione fra l’antico Pashupati e il dio celtico Cernunnos, anch’Egli appellato con il titolo di “Signore degli Animali” o “Signore del Mondo Selvatico”.
Potnia Theron significa “Signora di tutti gli Animali”, titolo conferito alla Dea del tutto in linea con le numerose raffigurazioni in cui è circondata da fiere. Questo epiteto è stato attribuito ad Artemide nell’Iliade, ma anche a Cibele, a Ishtar e, aggiungo io, ad Argimpasa. La Dea scita, oltre ad essere rappresentata con una testa mozzata in mano, in alcune opere si rivela davvero molto simile alle Potnia Theron classiche. È chiamata Potnia Theron anche la Dea dei Serpenti minoica, della quale si trovano raffigurazioni simili in alcune statue della dea Hekate, l’egizia Iside e, ancora, la scita Argimpasa. A tal proposito vi ho preparato un piccolo collage, visibile alla vostra destra.
Oltre al lemma arabo, il Guénon trova un ulteriore riscontro nell’ebraico “Behemot”, forma plurale del termine bəhēmāh, ossia “animale”. Behemot significherebbe dunque “tutti gli animali”, esattamente come l’arabo bahumid. Behemot è citato nel Libro di Giobbe, dove viene descritto come una creatura mastodontica e potente. Nel Dizionario Infernale di de Plancy, Behemot viene raffigurato con fattezze d’elefante, tratto che non può che farci pensare al dio Ganesha, già incontrato in precedenza.
SECONDO ALEISTER CROWLEY: L’esoterista inglese Aleister Crowley era fortemente affascinato dalla figura del Baphomet, al punto da adottarne persino il nome, e scrisse a riguardo in più occasioni. Sull’etimologia troviamo qualcosa in Le Confessioni di Aleister Crowley del 1929:
“Presi il nome "Baphomet" e per sei anni e più cercai di scoprire il modo corretto per scrivere questo nome. Sapevo che doveva avere otto lettere e anche che le corrispondenze numeriche e letterali dovevano essere tali da esprimere il significato del nome in modo da confermare ciò che gli studiosi occulti avevano scoperto su di esso, e anche per chiarire i problemi che gli archeologi non erano finora riusciti a risolvere. Una teoria del nome è che esso rappresenti il battesimo della saggezza; un’altra, che si tratti della storpiatura di un titolo che significava "Padre Mithra". Inutile dire che il suffisso "R" va a sostegno della seconda teoria. Ho aggiunto la parola come pronunciata dal Mago. Essa è pari a 729. Questo numero non era mai apparso nel miei lavori cabalistici e, pertanto, non significava nulla per me. Tuttavia, si giustifica come il cubo di nove. La parola, il titolo mistico dato da Cristo a Pietro, come pietra angolare della Chiesa, ha questo stesso valore. Finora, il Mago ha dimostrato grandi qualità! Egli aveva chiarito il problema etimologico e mostrato perché i Templari avrebbero dovuto dare il nome "Baphomet" al loro cosiddetto idolo. Baphomet era Mitra Padre, la pietra cubica che era la pietra angolare del Tempio”.
Mi rendo conto che letta così potrebbe risultare di difficile comprensione, pertanto cercheremo di definire meglio il contesto in cui l’occultista britannico ha redatto questa teoria. Ciò che ho appena riportato è un estratto del diario Rex de Arte Regia di Crowley, dove racconta dell’incontro con l’entità Amalantrah, uno spirito che Crowley definisce “saggio Magus”. Il Mago di cui parla in questo estratto del suo diario è l’entità che gli ha rivelato il segreto del nome Baphomet. La sua teoria non nasce dunque dalla ricerca etimologica ma da un’esperienza personale, una visione frutto di un rituale di magia sessuale praticato con la sua compagna del tempo, Eve, e con l’ausilio di “Nostra Signora dei Sogni”, che si presume possa essere una metafora per indicare l’oppio. Crowley in questo stato alterato di coscienza ebbe questo dialogo con lo spirito Amalantrah, il quale gli fornì degli indizi che indussero Crowley a ipotizzare che Baphomet significasse “Padre Mithra”. Grazie a questo dialogo soprannaturale, Crowley stabilisce che il numero cabalistico di Baphomet è 729 e che il suo simbolo geometrico è “il segmento di una colonna ottagonale, ossia la combinazione del numero otto con il fallo”. Poi il dialogo fra Crowley e il suo Magus spiritico continua e quest’ultimo gli spiega che:
“Baphomet, dall’ebraico e non dal greco, dove O come Vau ed E come Yod, Th in unica lettera, Tau. Poi a Crowley appare anche una R finale, lettera da considerarsi però muta”.
Da queste informazioni Crowley unisce a modo suo i pezzi e conclude così scrivendo:
“A quel punto capii. Baphomet è essenzialmente mitraico, perciò significa semplicemente Padre Mithra”.
Crowley scriverà di Baphomet anche nel celebre Magick, dove leggiamo:
“Questo serpente, Satana, non è il nemico dell'uomo, ma colui che ha fatto diventare divina la nostra razza, conoscendo il Bene e il Male. Egli ordinò "conosci te stesso", e insegnò l'Iniziazione. Egli è "il diavolo" del "Libro di Thoth", e il suo emblema è il Baphomet, l’Androgino che è il geroglifico della perfezione arcana. Egli è dunque Vita e Amore. Ma soprattutto la sua lettera è "ayin", l'occhio, così che egli è luce, e la sua immagine zodiacale è il Capricorno, il capro che salta e il cui attributo è Libertà”.
Il modo in cui Crowley è giunto alle sue conclusioni è troppo intimo per poter essere giudicato. Non riesco a connettere totalmente Baphomet a “Padre Mithra”, ma da persona che, proprio come Crowley, oltre allo studio ha anche una sua profonda dimensione spirituale, fatta di visioni e comunicazioni non sempre comprensibili, non mi sento di essere troppo critica verso il resoconto di una testimonianza vissuta in prima persona. Che questa interpretazione convinca o meno resta comunque uno spunto di riflessione utile, sebbene forse non mi suoni fra le più convincenti. Ciò che comunque Crowley scrive riguardo a Satana mi trova ovviamente molto d’accordo. Nonostante ci siano molte sfumature crowliane abbastanza lontane dal Satanismo Originale, affermare che Satana è colui che ha reso divina la nostra razza è totalmente in linea con il pensiero USIano, nonché identificarlo come Iniziatore. E aldilà delle differenze che possono sussistere fra i tanti Iniziati che hanno percorso il Sentiero, è sempre emozionante rendersi conto di quanto spesso la Sacra Fonte della Sapienza sia sempre la stessa, unendoci nel Suo Nome, oltre le differenze.
SECONDO ALBERT PIKE: Il Massone statunitense Albert Pike scrisse qualcosa in merito al Baphomet nel suo Morals and Dogma:
“È assurdo supporre che gli uomini di intelletto adorassero un idolo mostruoso chiamato Baphomet, o che riconoscessero in Maometto un profeta ispirato. Il loro simbolismo, inventato secoli prima, per nascondere ciò che era pericoloso confessare, fu ovviamente male interpretato da coloro che non erano iniziati, e ai loro nemici sembrò essere panteistico. I simboli dei saggi diventano sempre gli idoli della moltitudine ignorante. Ciò che i Capi dell’Ordine [NdA Ordine Templare] veramente credevano e insegnavano, viene indicato agli Adepti per mezzo dei suggerimenti contenuti nei Gradi elevati della Massoneria, e per mezzo dei simboli che solo gli Adepti capiscono”.
Secondo Pike, il Baphomet non sarebbe dunque un’entità definita, ma il risultato di un’imago ermetica volta a celare il segreto della sapienza templare. Il Baphomet interpretato come comunione di simboli lo ritroviamo anche con l’alchimista Fulcanelli, secondo il quale l’idolo rappresentava appunto una configurazione simbolica della Grande Opera. Le dichiarazioni di Pike in merito alla mostruosità del Baphomet ovviamente non possono trovare il mio consenso: Lo zoomorfismo è consueto nell’iconografia sacra di molti culti, pertanto se il volto caprino del Baphomet fosse davvero una mostruosità, allora si dovrebbe considerare aberrante quasi l’intero pantheon egizio! Occorre inoltre aggiungere che il “macabro” è nel Satanismo un elemento piuttosto frequente, non per degradare l’Ente come accade nelle rappresentazioni salomoniche, ma per far della paura stessa la prima soglia iniziatica. Albert Pike, essendo un Massone, probabilmente non ha mai concepito [o condiviso] un percorso sapienziale più sinistro, pertanto le fattezze oscure di Baphomet possono essergli apparse niente meno che grottesche e “mostruose”. Il cospirazionismo moderno è solito collegare la Massoneria al Satanismo, ma un importante Massone come Albert Pike dimostrò chiaramente di non simpatizzare per il demoniaco. Sempre in Morals and Dogma, Pike scrive:
“Lucifero, il Portatore di Luce! Strano e misterioso nome per uno Spirito delle Tenebre! Lucifero, il Figlio del Mattino! È Lui che porta la Luce e che con il suo splendore intollerabile acceca le anime deboli, lascive ed egoiste? Non ne dubito!”
Poi riguardo alla figura di Satana aggiunge:
“Satana non è un Dio Oscuro bensì è la negazione di Dio. Il Diavolo è la personificazione dell’Ateismo o dell’Idolatria. Per gli Iniziati [NdA Iniziati alla Massoneria] Satana non è un’entità reale ma una Forza, creata per il bene ma che potrebbe servire il male. Essa è lo strumento della Libertà e del Libero Arbitrio. Ciò rappresenta questa Forza, la quale presiede oltre la generazione fisica, sotto la miologica e cornuta forma del Dio Pan; da qui venne il capro del Sabba, fratello dell’Antico Serpente e il Portatore di Luce”.
Da queste considerazioni non si evince in alcun modo il pensiero Satanista, forse si potrebbe trovare qualche connessione con il Laveyanesimo, ma nemmeno troppo marcato. Pike, infatti, non accomuna il Diavolo all’Ateismo in chiave positiva, come accade invece con Lavey, per Pike l’Ateismo, così come l’idolatria dei profani - fra cui vanno inclusi anche i Cristiani, ai quali il Massone era molto avverso - erano un male da osteggiare. Per questo illustre Libero Muratore l’unica forma nobile di spiritualità era quella conferita dall’Iniziazione Massonica, dove il divino era concepito unicamente sottoforma di forze utili all’essere umano per conseguire la sua illuminazione. Davanti a tale visione potremmo dunque associare personalità come Pike al Luciferianesimo, nella sua essenza prometeica, ma sicuramente non al Satanismo Originale. Per Pike Baphomet era dunque un simbolo di sapienza, ma una sapienza circoscritta alla dimensione terrena. Per intenderci, potremmo dire che il Massone concepiva Baphomet più come Achamoth che come Sophia, ossia la conoscenza più bassa, quella confacente alle cose mortali e non quella elevata e sacra patrocinata appunto dalla Sophia. E a sostegno della materialità di Baphomet interviene anche un altro Massone, Albert Mackey, il quale nella sua Enciclopedia della Framassoneria scrive che Baphomet altro non è che “un impressionante simbolo che insegnava la lezione della mortalità”.
Sebbene queste dichiarazioni su Baphomet possano apparire come un tentativo di sminuirne l’essenza, io non credo affatto che siano poi così distanti dalla mia concezione. Baphomet è effettivamente l’Iniziatore Occulto alla Via Oscura, un sentiero che più che mai si esprime nell’esperienza terrena. Achamoth non è separata da Sophia, Achamoth è la Sophia che Discende e si fa carne, al fine di sedurre l’uomo con la sua Luce, elevandolo e consacrandolo ai Suoi Misteri. Baphomet rappresenta la Divinità che si fa Demone, il demonico inteso come ruolo, come intermediario fra l’uomo e il divino. Baphomet è l’Iniziatore che sceglie di sporcarsi e sporcarci nel fecondo fango tellurico, portando alla vera Luce soltanto attraverso il passaggio nelle Tenebre. Non è dunque un Maestro che si pone su un trono a elargire dottrine, bensì Qualcuno che si muove con noi, fra noi, in una sorta di lezione peripatetica nell’Abisso lunga tanto quanto la nostra vita.
SECONDO ANTON LAVEY: Per il fondatore della Chiesa di Satana di San Francisco, principale ideologo della filosofia Razionalista, il Baphomet fu un elemento così importante da immortalarlo persino nel logo stesso dell’associazione. Stando alle fonti ufficiali, Lavey avrebbe creato il logo della Chiesa di Satana ispirandosi ad un disegno di Stanislas de Guaita, mentore del noto esoterista svizzero Oswald Wirth.
Riguardo a Baphomet, Lavey scrisse qualcosa nella sua celebre Bibbia di Satana:
“Il simbolo del Bafometto fu usato dai Templari per rappresentare Satana. Attraverso i secoli tale simbolo è stato chiamato con molti nomi diversi, tra cui: La Capra di Mendes, La Capra di mille giovani, La Capra nera, La Capra di Giuda e – forse il più appropriato di tutti – Il Capro Espiatorio. Egli rappresenta le Potenze delle Tenebre combinate alla fertilità generativa della capra”.
Riguardo al pentagramma rovesciato, simbolo entro il quale solitamente viene iscritta la testa del Baphomet, Lavey afferma:
“Nella sua “pura” forma il pentagramma comprende la figura di un uomo all’interno della stella a cinque punte, con tre punte verso l’alto e due verso il basso – a simboleggiare la natura spirituale dell’uomo. Nel satanismo è utilizzato anche il pentagramma, ma dato che il satanismo rappresenta gli istinti carnali dell’uomo, o l’opposto della natura spirituale, il pentagramma è invertito per ospitare perfettamente la testa del capro – le corna, che rappresentano la dualità, la sfida alla spinta verso l’alto; gli altri tre punti invertiti o la trinità negata. Le figure ebraiche attorno al cerchio esterno del simbolo derivano dagli insegnamenti magici della Cabala e sono la definizione del Leviatano, serpente dell’abisso acquoso identificato con Satana. Tali cifre corrispondono alle cinque punte della stella rovesciata”.
Sul significato specifico della capra ne parleremo nella terza parte di questa esposizione, analizzando le simbologie presenti nella celeberrima illustrazione di Levi. Ho riportato l’interpretazione laveyana per pura onestà intellettuale, ma chi conosce il mio pensiero sa bene che non esiste corrente satanica che meno apprezzo di quella Razionalista. Trovo infatti indubbiamente aberrante mutilare il Culto di Satana del suo aspetto spirituale. Il Laveyanesimo è una filosofia atea e tendenzialmente illuminista, un pensiero più o meno utile all’Iniziato durante le prime fasi di ripulitura dai dogmi cristiani, ma a mio avviso limitante qualora l’Iniziato decidesse di fermare la sua conoscenza del Culto soltanto ad esso. Nessun percorso iniziatico è più caustico e potente del Satanismo. Il Culto, oltre al suo lato per l’appunto cultuale, svela la sua essenza più profonda nell’Iniziazione Sinistra-Misterica. Il Satanismo è uno strumento eccellente per quanti realmente ambiscono ad ascendere verso la propria deificazione, pertanto ritengo paradossale eliminare dal Culto la Spiritualità. Togliere dal Satanismo il Sacro sarebbe come sottrarre dall’essere umano il respiro, e un corpo che non può respirare altro non è che un cadavere. Il Satanismo non sarà mai la vacua idolatria di un cadavere, di un alveare secco, il Culto è celebrazione della carne viva, dell’opera attiva dell’Ape, del dinamismo che intercorre fra corporale e spirituale, oscuro e luminoso, materiale e sacrale. Privare la nostra Via di una singola sua parte significa distruggerla, trasformarla da Via degli Eroi a Via degli Storpi.
Per quanto concerne il pentacolo capovolto, che secondo Lavey dovrebbe appunto rappresentare i bassi istinti carnali e la negazione della spiritualità, per me rappresenta invece l’Appeso, l’Iniziato che percorre attraverso l’esperienza terrena il suo Dodicesimo Arcano, la sua auto-immolazione nelle Tenebre al fine di raggiungere la Sapienza e la conseguente Rinascita. L’uomo a testa in giù è Wotan appeso all’Albero della Vita, è la Discesa come preludio dell’Ascesa. Lavey, inoltre, sostiene implicitamente che nella materialità vi sia la negazione della spiritualità, mentre nel Satanismo Originale il materiale e il preternaturale coincidono, l’uno contiene l’altro, senza divisione. Il fatto che nel Satanismo non si stigmatizzi la carne e la materia, come accade invece nel Cristianesimo, non significa che il Culto di Satana sia scevro di spiritualità. Per quanto concerne invece le tre punte inferiori della stella come simbolo della “trinità rinnegata”, la ritengo una teoria abbastanza fantasiosa, oserei dire quasi divertente. I nostri simboli esaltano soltanto Satana e noi stessi, non nascono certo per rinnegare ciò che nei fatti nemmeno esiste. La trinità cristiana è soltanto un plagio di triadi ben più antiche, a partire dalla stessa Triplice Dea.
SECONDO HELENA BLAVATSKY: Secondo la celebre teosofa russa, Baphomet significherebbe “Capro di Dio”, inteso come il capro espiatorio tipicamente ebraico. Nei rituali giudei, infatti, gli antichi sacerdoti erano soliti sacrificare due capri, al fine di purificare la comunità dai propri peccati. Tale ritualità si celebrava durante lo Yom Kippur, letteralmente “giorno dell’espiazione”. La cerimonia consisteva nell’uccidere il primo capro sull’altare del tempio, allo scopo di purificazione, mentre il secondo capro, detto emissario, veniva simbolicamente caricato di tutti i peccati del popolo e condotto nel deserto, dove veniva infine gettato da una rupe. Anche nel Cristianesimo esiste il concetto di capro espiatorio e lo ritroviamo in niente meno che nello stesso Gesù Cristo, il quale si grava dei peccati altrui e s’immola per redimerli.
Personalmente trovo il concetto di “capro espiatorio cristiano” davvero poco satanico. Nel Satanismo, infatti, la deresponsabilizzazione dell’individuo è tutto fuorché salvifica, dunque ipotizzare che qualcun altro possa pagare per le nostre colpe è totalmente estraneo alla nostra forma mentis. Nel Culto di Satana ogni merito ed ogni errore sono direttamente correlabili al singolo individuo e non possono essere delegati a terzi, nemmeno a esseri eccezionali, quali Profeti o Dei. Il concetto ebraico di capro espiatorio, invece, ha generato anche il comune senso figurato dell’espressione stessa, ossia capro espiatorio inteso come cosa, simbolo, gruppo o persona che viene caricato di ogni colpa e peccato. Secondo tale chiave di lettura potremmo dunque affermare che Satana stesso è diventato un capro espiatorio della nostra società, la quale attribuisce al nostro Dio ogni nefandezza. Satana è stato trasformato nello spauracchio, nello specchio su cui proiettare il nostro stesso male, un male che non essendo in grado di accettare scarichiamo sulla sua figura. Ecco dunque che Satana diventa così il capro espiatorio oppresso da tutti i peccati dell’uomo, per poi essere simbolicamente gettato nel lago di fuoco nello stesso modo in cui il capro emissario dei Giudei era gettato dalla rupe. Secondo Helena Blavatsky, Baphomet era anche un simbolo di Azazel, Principe Incoronato dell’Inferno. Azazel corrisponde al mesopotamico Samas/Utu, dio solare fratello gemello di Inanna. I Gemelli Divini sono presenti in molte tradizioni. Nella Bibbia, Azazel viene spesso citato negativamente e in Levitico 16:8-10 troviamo proprio un riferimento al rituale ebraico dello Yom Kippur:
“E getterà le sorti per vedere quale dei due debba essere del Signore e quale di Azazel. Farà quindi avvicinare il capro che è toccato in sorte al Signore e l'offrirà in sacrificio espiatorio; invece il capro che è toccato in sorte ad Azazel sarà posto vivo davanti al Signore, perché si compia il rito espiatorio su di lui e sia mandato poi ad Azazel nel deserto”.
Questo passo ci fa comprendere che il capro caricato dei peccati del popolo ed esiliato nel deserto era offerto ad Azazel, come a voler trasferire su di Lui ogni peccato ed ogni male. A conferma del legame fra Azazel e il capro del Yom Kippur è anche una possibile etimologia del nome stesso. Secondo alcuni studiosi, il termine Azazel potrebbe infatti derivare dall’ebraico asasèl, ovvero l’unione delle parole es, “capra”, e asàl, “andarsene”, chiaro rimando alla vicenda biblica del capro inviato nel deserto nel giorno dell’Espiazione. A tale tesi aggiungerei anche l’interessante parallelismo che intercorre fra il Sigillo di Azazel e il Sigillo di Saturno, evincibile dal suo Quadrato Magico di cui abbiamo precedentemente parlato.
SECONDO CARL GUSTAV JUNG: Il celebre psicanalista svizzero considerava il Baphomet come l’emblema archetipico del Dio Cornuto, tradizionalmente associato al dio Cernunnos. Quest’antica divinità ha effettivamente tratti iconografici molto simili al Baphomet, come potete notare voi stessi dall’immagine a destra.
Nonostante Cernunnos fosse particolarmente onorato presso i Celti, Egli era considerato anche in Italia e più anticamente nell’intera area indoeuropea. Lo stesso Paśupati, illustrato nell’interpretazione di Guénon, afferisce a Cernunnos, sia per le sue fattezze che per il suo ruolo primordiale di signore degli animali e della natura selvaggia. Cernunnos è dunque il Signore della Selva, ma la natura non è da considerarsi soltanto in chiave fenomenica, bensì anche da un punto di vista simbolico. Cernunnos incarna infatti la forza indomabile che alberga dentro ogni uomo, l’istinto bestiale e al contempo divino che ci permette di riprendere contatto con la nostra natura più profonda. Non a caso tutte le divinità cornute son sempre state caratterizzate da una potente sessualizzazione, basti pensare ad esempio al dio Pan o al britannico dio Herme, nume provvisto di grandi corna e fallo svettante. In ogni tradizione Gentile, la divinità cornuta ha sempre raccontato lo spirito della foresta, la legge della natura che prevale sulle caduche leggi dell’uomo. Altresì importante è il ruolo della fecondità, come possiamo notare ad esempio nel Dio Toro e nella Dea Vacca, ben rappresentati dal fenicio Pater Baal e dalla egizia Mater Hathor.
Curiosamente voglio aggiungere che la più celebre rappresentazione di Cernunnos la troviamo nel Calderone di Gundestrup, manufatto creato anticamente in un territorio che corrisponde all’incirca all’attuale Bulgaria. Non per voler insistere nel tiare in ballo i miei amati Sciti, ma non credo sia un caso che la Bulgaria corrispondesse alla Scizia Minore. Come abbiamo detto, gli Sciti, oltre ad avere molto in comune con i Celti, erano anche degli eccellenti orefici e spesso raffiguravano cervi, animali psicopompi della cultura sciamanica. Il cervo era sacro agli Sciti e lo stesso Cernunnos è rappresentato con corna di cervo, spesso accompagnato da un serpente a sua volta cornuto. Il Baphomet è una figura che da sempre affascina l’intero panorama esoterico ed è forse per questo che molti occultisti hanno tentato di bollare come ignoranti coloro che lo associavano al Diavolo, nel goffo tentativo di prendere così le distanze dal Satanismo. In realtà il Baphomet, comunque lo si voglia guardare, è fortemente satanico e l’ignoranza non sta dunque nel collegare il Baphomet al Satanismo quanto nel considerare quest’ultimo come “culto del male”. E se anche volessimo considerarlo male, per chi male sarebbe? Forse lo sarebbe per i deboli, per i servili, per gli illusi, per gli stolti, per tutti coloro che seguono la Via degli Storpi. Di certo però il Culto di Satana non sarà mai male per quanti invece osano, cercano, scavano e percorrono con pervicacia la Via degli Eroi.
La somiglianza fra Baphomet e il Diavolo è palese, negli stessi Tarocchi il Quindicesimo Arcano Maggiore è chiaramente una figura bafometica. Nella psicologia del profondo, il Diavolo ha un ruolo molto simile a quello di Baphomet, egli si configura come un Guardiano della Soglia, uno specchio capace di mostrarci i nostri limiti e le nostre paure. Satana attraverso il terrore che noi stessi siamo dà forma a quell’incubo interiore che ci ha sempre impedito di avanzare. Il Satanismo in tal senso potrebbe vedersi come un male, poiché non lascia spazio alle comode illusioni, a quel torpore animico dettato da una falsa pace dei sensi. Il Diavolo dunque è sì un distruttore, ma lo è soltanto al fine di renderci liberi da quelle parti di noi destinate a morire. Dentro ognuno di noi c’è una montagna di cadaveri ammassati l’uno sull’altro e tutti questi corpi morti hanno il nostro volto. L’unico modo per poter rinascere è dunque sgravarsi di questi cadaveri, parti di noi che spesso vivono come fantasmi in un’illusione. Baphomet ci aiuta a distruggere questi spettri, scala con noi quella montagna di cadaveri e li decapita uno a uno, lasciando così soltanto noi sulla cima, trasformati, vincenti, redenti dalla nostra stessa dannazione.
SECONDO ANTON LONG: Ho deciso di concludere questa disamina sulle interpretazioni etimologiche con la versione di Anton Long, ideologo dell’Ordine dei Nove Angoli. E se l’ho lasciata per ultima è perché la ritengo quella maggiormente in linea con la mia ricostruzione. La concezione dell’O9A riguardo a Baphomet è nei fatti una sintesi perfetta di questo scritto, dato che raffigura in modo chiaro l’essenza della Signora Oscura come Iniziatore Occulto.
Riguardo all’etimologia Long scrive:
“Il nome Baphomet viene considerato dai Satanisti tradizionali con il significato di “Signora (o Madre) del Sangue”, la Signora che a volte si lava nel sangue dei suoi nemici e di cui le mani sono quindi macchiate. La presunta derivazione del nome Baphomet proviene dal greco βαφη μητρα (Baphe Metra) e non come a volte viene detto, da μητιος (metios), la forma antica di “saggio”. Un tale uso del termine Madre/Signora era abbastanza comune negli ultimi scritti alchemici greci – per esempio Giamblico nel De Mysteriis ha usato μητριζω (metrizo) per indicare “posseduto dalla madre degli dèi”. Gli ultimi scritti alchemici tendevano ad usare il prefisso per indicare un tipo specifico di “amalgama” (e per alcuni questa è una metafora per l’amalgama di Sol con Luna in senso sessuale)”.
Long continua poi le sue riflessioni affermando anche di essere stato più volte contestato per la sua interpretazione e sinceramente non riesco davvero a capirne il motivo. Trovo questa etimologia coerente, sicuramente originale ma nemmeno poi così inconciliabile con le versioni “ufficiali”. Se si pensa ad esempio al termine latino Bapheus - Tintore - largamente accettato, non è in contrasto con il greco Baphe - Tinta - di Long. “Madre”, invece, è stato effettivamente poco considerato dalla maggior parte degli occultisti, sebbene nella versione del Fulcanelli, “Tintore della Luna”, troviamo μην, termine che può essere considerato sia come “luna” che come il genitivo di “madre” [e quindi “della madre”]. In ogni caso, Fulcanelli o meno, è abbastanza chiaro anche per quanti non conoscano le lingue antiche che il “Met” di Baphomet possa lecitamente essere connesso al termine Mater. Ad ogni modo, per confutare ogni dubbio, Long argomenta la sua intuizione fornendo esempi di contesti letterari in cui certi termini sono stati utilizzati con la stessa accezione da lui proposta:
“βαφή: tintura, immerso nel, macchiato; e una metafora del sangue, qv. Eschilo, Πέρσαι, vv.316-7:
πυρρὰν ζαπληθῆ δάσκιον γενειάδα
ἕτεγγ᾽ ἀμείβων χρῶτα πορφυρέᾳ βαφῇ
μητρίς: madrepatria; qv. Pausaniae Graeciae Descriptio, Libro X, capitolo 24,2:
μητρὶς δέ τοι οὐ πατρίς ἐστιν
μήτηρ: madre; qv. Esiodo,Ἒργα καὶ Ἡμέραι, 563, dove ricorre l’espressione “madre di tutti”:
εἰσόκεν αὖτις γῆ πάντων μήτηρ καρπὸν σύμμικτον ἐνείκῃ
μῆτις/μήτιος: saggio, esperto, destrezza. La forma μήτιος si presenta in Pindaro, Odi di Nemea,3, 9:
τᾶς ἀφθονίαν ὄπαζε μήτιος ἀμᾶς ἄπο
μητρίζω: posseduto dalla madre degli dèi, Giamblico, De Mysteriis, III, 9, 10:
οἰ τῷ Σαβαζιῳ κάτοχοι καὶ oἰ μητρίζονες”
Tutti i vari esempi in cui Long dimostra l’uso appropriato del lemma “madre” sono a mio avviso più che leciti, l’unico mio dubbio resta in merito al termine Baphe tradotto in “tinta di sangue”. In senso strettamente etimologico, infatti, il termine Baphe si fermerebbe a “tinta” e ritengo che l’aggiunta “di sangue” sia dunque una rielaborazione di Long sulla base del significato esoterico che attribuisce alla Signora. Nell’estratto soprastante, ad esempio, per legittimare il significato di Baphe come “tinta di sangue”, riporta due versetti in greco de I Persiani di Eschilo, che tradotti sarebbero:
“bagnò la rossa fitta ombrosa barba,
color mutando entro purpureo bagno”.
O anche:
“E ombrosa barba intrise,
mutando il colore della pelle in rossa tinta”
In questi versi la parola Baphe significa soltanto “tinta” e il rosso, o meglio il porpora, sono indicati dalla parola πορφυρέᾳ. Ecco dunque che la citazione di Eschilo non riesce a dissipare il mio dubbio inerente all’etimologia di Baphe come “tinta di sangue”. Concordo dunque con Long sul significato di Baphe-Metra come “Madre Tinta”, ma più che come “Tinta di Sangue” semplicemente “Tinta”, inteso come “immersa nel Sacro”, immersa nelle acque sapienziali o altresì come sinonimo di macchiata in riferimento all’essere “unta”. Altrettanto plausibile il significato di Tintore, ossia colei che tinge, che immerge, che unge, che appunto inizia i suoi figli al Culto. In ogni caso da un punto di vista esoterico non sarebbe comunque così folle assecondare Long nella sua idea di “Tinta di Sangue” o “Colei che Tinge col Sangue”, dato che, come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti, il sangue era utilizzato in diverse iniziazioni, vedesi ad esempio quella mitraica che prevedeva di bagnarsi nel sangue di un toro. In ogni caso, se anche volessimo prendere in considerazione l’idea del sangue proposta da Long, oltre ai consueti significati inerenti alla morte, aggiungerei che nel Sentiero Sinistro - Vama Marg – ai fluidi corporei viene conferito un valore sacrale, in particolare agli umori femminili, soprattutto al sangue mestruale.
Il termine Vama Marg, come suggerisce lo studioso di Tantra e tradizioni indoarie Narendra Nath Bhattacharyya, può essere tradotto come “Sentiero Sinistro” e anche come “Sentiero della Donna”. Il Sentiero Sinistro puro ha infatti sempre tenuto in grande considerazione il Sacro Femminino, percependo il corpo della donna come un’emanazione della divinità. Proprio per tale ragione la tradizione Kaula ha studiato a lungo il potere dei diversi umori femminili, detti kala, corrispondenti alle fasi lunari. I kala identificati dagli adepti del Kaula sono sedici e il Mahakala, ossia il Kala supremo, comprende proprio il flusso mestruale. È pertanto evidente che nel Sentiero Sinistro il sangue femminile fosse ritenuto un elemento importante della Tradizione. Anche restando in ambito misterico possiamo notare come le mestruazioni fossero osservate con sacralità, poiché segnavano il passaggio dall’infanzia alla maturità sessuale, rappresentato archetipicamente dalla Signora che da Kore [la fanciulla] si trasforma in Persefone [regina infera]. Oltre al sangue mestruale non si può non considerare anche il sanguinamento femminile dovuto alla rottura dell’imene. Kenneth Grant nel suo I Culti dell’Ombra ci ricorda come lo stesso Marte, dio della guerra, nella culture più arcaiche fosse inteso non come dio del sangue a causa della battaglia, bensì per l’assalto sessuale, ossia lo sverginamento della fanciulla che conduce alla fecondazione e alla vita. Per assalto qui non si vuole intendere il barbaro stupro, ma l’innata violenza dell’atto sessuale, paragonabile in chiave simbolica al Grande Sacrificio del Serpente Vrtra, trafitto dal Dio della Folgore al fine della Creazione. Chiunque abbia avuto occasione di vedere il grande classico di Dario Argento Profondo Rosso, ricorderà forse questa frase molto ermetica: “Brindo a Te, Vergine Stuprata”. Ovviamente se letta in senso letterale è un’amenità, ma se osservata in chiave esoterica è semplicemente un brindisi alla vita, alla generazione, al perpetuo susseguirsi dei cicli, dove i due Geni sulla Ruota si alternano senza però smettere di alimentarsi a vicenda. È quindi possibile che la Dea Macchiata [di sangue] possa collocarsi in un contesto più erotico che thanatico, sebbene non si può negare una connessione fra questi due aspetti.
Aldilà comunque dell’etimologia, il significato di Baphomet secondo l’O9A è a mio avviso il più interessante fra tutti quelli proposti sinora dai maggiori esponenti del panorama esoterico. Per Long, Baphomet sarebbe identificabile con il lato oscuro di una Dea primordiale, una Signora che sotto diversi nomi incarna sia gli aspetti sinistri che quelli numinosi del Culto. A Lei erano dedicati riti che comprendevano sacrifici di sangue, in particolare decapitazioni. La cosa particolare è che le tracce a cui Long fa riferimento sono localizzabili in un territorio che anticamente era connesso ai Celti, popolo che come abbiamo visto soleva far uso di certe pratiche. Baphomet è nei fatti la Kali degli antichi Indù, la Bhairavi di cui abbiamo lungamente parlato. Baphomet raccontata da Long veste perfettamente i panni dell’Iniziatore Occulto e pertanto ho trovato a dir poco sorprendente quanto la sua brillante interpretazione collimasse con la mia. Qui, infatti, Long aggiunge:
“L’immagine di Baphomet (per esempio quella fornita da Levi) come una figura ermafrodita è una confusione romantica e/o una distorsione: essenzialmente dell’unione simbolica/reale della Signora e del Sacerdote e del suo successivo sacrificio”
Questo piccolo stralcio conferma senza dubbio l’idea di Baphomet come “Colei che Tinge”, colei che appunto, per tornare all’etimo siciliana, “battezza in modo eretico”. Long parla invero della dualità fra Signora e il suo Sacerdote, ossia Colui che secondo le mie ricostruzioni corrisponderebbe al Primo Iniziato, il primo Sacerdote e Scriba del Culto delle Origini, Colui che diffuse gli insegnamenti dei Primi Discesi [I Caduti]. Per quanto riguarda infine i risvolti più estremi delle teorie O9A, come appunto i sacrifici di sangue, possono essere più o meno discutibili, sebbene nei fatti non così incoerenti per un Ordine che segue concretamente la Via Sinistra, un sentiero con lati oscuri innegabili. È bene però anche ricordare che, nella pura Vama Marg orientale, determinati sacrifici spesso rappresentano una morte spirituale piuttosto che fisica, come abbiamo visto ad esempio nel rito del Chöd. Long però non si ferma qui è annota un’altra singolare proposta etimologica:
“C’è una tradizione per quanto riguarda l’origine del nome Baphomet che merita di essere annotata, anche se non è considerata come autentica non avendo sostenitori attuali. Questa tradizione considera che il nome derivi da βούβαστις (Boubastis, ndt) – il nome greco della dea egiziana Bastet, annotato da Erodoto (2.137 sgg). È interessante che Erodoto identifichi la dea con Artemide, la dea della Luna. Bubastis era considerata come la figlia di Osiride e di Iside e spesso è rappresentata come una donna con la testa di gatto – i gatti le erano considerati sacri. Artemide era una dea incurante dell’amore ed è stata considerata come la sorella gemella di Apollo (la sua identificazione come una «dea della luna» seguì naturalmente da questo, poiché Apollo era collegato con il sole). Così come Apollo, anche lei spesso donò morte e piaghe e fu propiziata a volte con sacrifici. È interessante notare che:
(a) βουβαστεία (Boubasteia, ndt) è il nome Pitagorico che significa «cinque» (si veda Giamblico: Theologumena Arithmeticae, 31) – forse un collegamento con il «pentagramma»?
(b) si dice che i Templari, con i quali viene collegato il nome di Baphomet, adorassero la loro divinità sottoforma di un gatto.
Il suffisso deriva da «madre» o «signora» usato in senso religioso (qv. Giamblico «De Mysteriis»). Questo nome – Baphomet – è quindi quello che descrive la dea «oscura» (cioè lunare), alla quale venivano dedicati sacrifici e che in passato fu effettivamente conosciuta come «Boubastis» – cioè Bastet, alla quale i gatti erano sacri. Quindi Baphomet potrebbe essere considerata come una forma di Artemide/Bastet – una divinità femminile con un lato o una natura «oscura» (se vista attraverso la morale convenzionale) alla quale furono dedicati sacrifici e alla quale continuano ad essere dedicati”.
Anche questa intuizione di Long si rivela appropriata, non solo per quanto abbiamo già espresso riguardo a Bast/Sekhmet nel paragrafo sulla etimologia egiziana, ma anche per un altro dettaglio che a mio avviso ci riporta ancora una volta a Baphomet. Kenneth Grant ne I Culti dell’Ombra rileva difatti un interessante parallelo fra Tantra e tradizione egizia, evidenziando come la parola indiana Sakti, [uno dei nomi della Devi, la Dea, che indica il potere creativo] corrispondesse in Egitto a Sekht, la dea leonessa Sekhmet, Oscura Signora del Giudizio che con il suo artiglio decapita gli indegni. Ella, oltre a questo prominente aspetto thanatico, aveva anche una manifestazione erotica nel “caldo infuocato sole meridionale”, rappresentazione africana del calore sessuale. Allo stesso modo il termine Pasht in sanscrito significa “animale” e nei Tantra Pashu ha una specifica connotazione in riferimento alle unioni sessuali non santificate dalla tradizione ortodossa, in poche parole il sesso “illecito”. In Egitto ritroviamo Pasht in Bast, la Dea felina alla quale, come abbiamo precedentemente raccontato, venivano dedicati rituali orgiastici. Curioso notare inoltre che il termine stesso “bastardo”, per indicare un figlio illegittimo, deriverebbe proprio da Bast, la quale incarna dunque un antico nome della Madre dei Demoni, la Madre Oscura che generò la Razza Satanica. Questo collegamento potrebbe dunque vedere in Baphomet non solo l’Iniziatore Occulto della Tradizione ma anche quello della nostra stessa Stirpe. Long infine conclude la sua esposizione con un ulteriore collegamento, raccontando di come una comunità del Nord della Scozia [territorio celtico] adorasse una dea della guerra, il cui nome non è mai stato documentato. Questa comunità, presumibilmente antenati dei Pitti e stanziati sulle rive del Fiume Oykel, viene citata però da Tolomeo con il nome di Smertae, che significa “popolo macchiato”. Dato che in alcune iscrizioni galliche è stato trovato un riferimento ad una dea della guerra chiamata Rosmerta, letteralmente “la Dea tanto macchiata”, secondo Long è possibile che questa divinità fosse proprio la Signora venerata dagli Smertae e che potesse essere un’antica incarnazione di Baphomet. Curiosamente l’autore ci fa notare che, nella stessa area territoriale degli Smertae, viveva un’altra comunità conosciuta con un nome traducibile come “la gente dei gatti”, il che riconfermerebbe il ruolo dei felini all’interno del culto di Baphomet, cosa per altro rintracciabile anche in diverse deposizioni templari.
Nonostante sia una teoria interessante, non posso però evitare di nascondere qualche perplessità sull’etimologia di Rosmerta e Smertae. Secondo il Dizionario della Lingua Gallica del Delamarre, l’esatta etimologia della dea Rosmerta sarebbe “la Grande Provvidente”, dove il previsso ro- è un accrescitivo, quindi “molto”, “grande”, mentre smert sta per “provvidenza”, “datrice”. Anche nel Dizionario Etimologico delle lingue Indo-germaniche il termine smert viene fatto risalire al verbo gallese darmerth, che significa “fornire”, e al sostantivo armerth, cioè "fornitura". Nella trasmissione orale della lingua irlandese antica si trova invece ɸare-smerto-m, il cui significato è “lucentezza”. L’etimologia di Rosmerta è dunque connessa al suo ruolo di “provvidenza”, “Colei che dà molto” e questo collimerebbe con il ruolo che i Celti le attribuivano, ossia Dea Madre della natura e dell’abbondanza. In diverse immagini vediamo infatti la Dea Rosmerta con la cornucopia, il cosiddetto corno dell’abbondanza. Il termine irlandese per lucentezza, oltre a rappresentare il ruolo luminoso della Nutrice, potrebbe anche collegarsi al dio della luce Lugh, suo consorte, corrispondente al Mercurio romano. Obbiettivamente non riesco a capire come Long abbia potuto trasformare “Colei che da molto” con “la molto macchiata” e sinceramente fatico anche a comprendere come possa proprio la dea Rosmerta rappresentare al meglio una sanguinaria dea della guerra. Aldilà comunque delle sottigliezze etimologiche, si sa che la Signora cela in sé molte polarità perfettamente integrate, come guerra e amore, vita e morte, luce e ombra. Tuttavia nel pantheon celtico Rosmerta incarna in realtà gli aspetti più materni e numinosi della Dea, cosa che invece non si può dire per forme ben più oscure come ad esempio Morrigan o le forse meno note Búanann, Bodb o Nemain, dee della guerra, della morte e del caos. In definitiva, comunque, a parte qualche dubbio di carattere etimologico, la visione di Long in merito a Baphomet resta senza dubbio quella che ritengo più in linea con il mio pensiero.
Ipotesi personali sull'etimologia del nome Baphomet
Come abbiamo potuto appurare, Baphomet è un termine controverso, la sua origine è stata ricercata da molti studiosi nelle diverse lingue antiche e per quanto mi riguarda ritengo ognuna di queste teorie più o meno plausibili. Forse, paradossalmente, l’etimo sicula del termine “Tinto” ha regalato alla teoria greco/latina del Tintore un posto d’onore nel mio cuore, dato che considero la figura di Baphomet come l’emanazione diretta dell’Iniziatore Occulto. L’etimo greca proposta da Long - Madre del Sangue - se presa letteralmente e filtrata dunque dall’interpretazione soggettiva dell’autore, che riconduce il termine “Tinta” al sangue, è secondo me la più affidabile e trova riscontro anche nel latino Bapheus Mater, ovverosia Madre Tintore, Madre Tinta, Madre che Tinge, dove per “Tingere” penso appunto al significato siciliano che abbiamo illustrato, cioè “battezzare in modo eretico”. In questo modo il termine Tingere e Battezzare corrispondono, rendendo così baphe/bapheus - Tintore - sinonimo di baptismos - battesimo. Và inoltre ricordato che “battesimo” deriva da baptô, cioè “immergere”, e che anche il termine “tingere” - e la sua derivazione “intingere” - hanno come significato etimologico quello di “essere immersi in un liquido”. Ecco dunque che il Tintore assume a piena regola il ruolo di battezzatore, l’Iniziatore, e in questo caso la Madre che Inizia, corrispondente dunque alla Kali, alla Bhairavi, all’Argimpasa, insomma, l’Oscura Mater Splendente che attraverso l’infernale ci conduce al supernale.
Dopo questa breve sintesi del nostro viaggio etimologico, vorrei proporvi altre ipotesi che negli anni ho formulato, tesi che ho rispolverato dai miei vecchi diari e che ora trovano la loro giusta collocazione in questo scritto. Premetto che le mie teorie sono il frutto di una ricercatrice indipendente e non certo di una linguista, quindi nonostante la mia grande passione per la filologia non ho la pretesa che esse vengano ritenute più attendibili di quelle sinora affrontate. Il mio scopo come sempre è solo quello di fornire ulteriori spunti di riflessione, permettendo così all’essenza di Baphomet di potersi svelare anche in nuove forme, sempre immensamente potenti, sempre ispiranti.
1- La città di Pafo
Il primo spunto che rintracciai anni fa durante le mie ricerche è abbastanza debole ma comunque curioso. Esiste una cittadina sull’isola di Cipro chiamata Pafo - Pafos in greco e Baf in turco - nota per aver dato i natali terreni alla dea Afrodite, divenuta patrona stessa della città. Secondo la leggenda fu proprio sulla costa di Pafo, nei pressi di Capo Aspron, che dalla spuma del mare nacque la bellissima Dea, precisamente sullo scoglio Petra tou Romiou. In questa cittadina greca era molto sentito il culto di Afrodite e in suo onore vennero erette statue e un glorioso tempio. A tal proposito voglio ricordare che la Mater scita Argimpasa, la Dea Serpente connessa a Kali di cui abbiamo parlato, era secondo gli storici greci associata proprio ad Afrodite Urania, in tutti i suoi aspetti erotici e terrifici.
Il mito di Pafos racconta di come il Re di Cipro Pigmalione fosse famoso per la sua abilità di scultore e della sua totale insoddisfazione per tutte le donne che incontrava. Egli era particolarmente legato ad una sua opera, una statua dalle fattezze femminili che ricordava moltissimo la dea Afrodite, alla quale era molto devoto. Pigmalione finì per innamorarsi del suo stesso simulacro, amandolo come se fosse realmente la sua compagna. Diede un nome alla statua e fu Galatea. Il Re era talmente rapito dalla sua creatura che ogni giorno pregava la Dea di poter dar vita alla statua, permettendogli così di amarla e di essere a sua volta amato. Un giorno Afrodite, commossa dalla sua devozione e dal suo puro amore, concesse al vecchio Re di potersi unire a Galatea, soffiando la vita nella statua forgiata dalle sue stesse mani. Pigmalione e Galatea si sposarono e dalla loro unione nacquero due figli: Pafo e Metarme, due gemelli, un maschio e una femmina. Esistono diverse varianti del racconto e come sempre l’essenza si nasconde dietro le innumerevoli forme, ma una fra le versioni più interessanti vedrebbe Pafo - fondatore della città stessa - come padre di Cinira, il quale, unendosi a Metarme [secondo alcune fonti sua zia, per altre sua figlia], generò niente meno che Adone. Altre versioni dicono invece che Cinira si unì alla figlia avuta con Metarme, Smima, ma in ogni caso restano costanti alcuni elementi, come appunto la presenza di un incesto e la nascita prodigiosa di un essere semidivino. Smima/Metarme, infatti, a causa di quell’unione illecita fu trasformata in un albero di Mirra e dopo nove mesi nacque Adone, il quale era conteso fra due mondi, fra due Enti, proprio come la Sacra Figlia dei Misteri.
Questa leggenda, purtroppo drasticamente scalfita dal tempo e dalle troppe diverse voci che l’hanno cantata, ha per me un significato ben preciso, ma eviterò di farvi perdere tempo con ulteriori riflessioni fuori tema. Per ora mi limiterò a evidenziare il parallelo fra Galatea e Smima, entrambe madri di una prole straordinaria [Galatea madre di due gemelli connessi alla fondazione di Pafo e Smima madre di Adone] ed entrambe partecipi di un incesto [perché anche la stessa Galatea si potrebbe dire figlia di Pigmalione in quanto sua creatura]. Questo mito in qualche modo è una rielaborazione di un mitologema più antico, ossia la nascita portentosa di creature semidivine. In un certo senso Galatea è da vedersi come la madre di una nuova razza e il mito di Smima potrebbe essere una ricostruzione secondaria parallela a questa. Il mito di Galatea suona come un’allegoria del Creatore che ambisce ad amare completamente la sua creatura, proprio come i Discesi fecero con l’essere umano, creando il Clade Satanico, una nuova Stirpe umana con sangue divino. Il motivo per cui ho riportato questa leggenda, oltre a voler fornire uno spunto di riflessione sulla Stirpe del Culto delle Origini, è far notare come i figli di Galatea si chiamassero proprio Pafo e Metarme, ossia Pafo e Met, curiosamente molto assonanti con il termine Baphomet. Considerato poi che Pafo e Metarme erano gemelli, un maschio e una femmina, e di come il Baphomet stesso sia spesso inteso come emblema dell’androginia, credo che l’accostamento fra i due nomi si riveli dunque forse un po’ forzato ma comunque interessante.
2 – Il baffo e il soffio
Questa forse fu una delle prime ricerche che condussi, partendo con ovvietà dalla parola italiana che più rassomigliava al termine Baphomet: Baffo. Nonostante l’apparente banalità di questa ipotesi, anche i due autori Spartakus Freeman e Soror D.S l’hanno presa in considerazione ne Il Bafometto, l’emblema dell’esoterismo, dove leggiamo:
“Con il termine baffometi non si intende nulla di orribile e misterioso; letteralmente, significherebbe uomo baffuto/barbuto (bafo ometi)”.
Sebbene la dichiarazione di Soror e Freeman mi sia parsa un po’ approssimativa, decisi comunque d’indagare un po’ più a fondo, scoprendo così altri collegamenti degni di nota. L’etimologia della parola “baffo” si rifarebbe al dialetto tedesco, dove il termine bap - o baf - assume il significato di “bocca”. Baffo avrebbe dunque la stessa radice linguista di altri lemmi molto utili alla nostra ricerca, come ad esempio “buffo” e “sbuffo”. Il primo termine, “buffo”, deriva da buff, una voce onomatopeica che simula il gonfiare delle guance per soffiare. La sua radice è sanscrita, pu, letteralmente “soffiare” e nella parola “buffo” la radice pu veniva raddoppiata come rafforzativo, portandoci così al termine indoeuropeo pupphusas, “polmone”, o anche pupphulam, “vento”. Questi vocaboli sono entrambi richiami al respiro, al soffio vitale che inevitabilmente ci riconduce al mito gnostico di Sophia. Anche il termine “sbuffo” trae la sua origine dal sanscrito pu, “soffiare”, e trova conferme nel provenzale bufar, “soffio” e persino nel latino bùfo, “rospo”, giacché questo animale caratteristicamente si “gonfia e soffia”.
La radice sanscrita pu- e la sua forma raddoppiata pupphu- connettono il prefisso di Baphomet al “soffiare” che, come abbiamo appena evidenziato, ci porta alla Sophia degli Ofiti, la Dea della Saggezza che con il suo soffio di vita, similmente allo Spirito Santo cristiano, feconda e anima. Anche il greco non fa eccezione e ci offre gustosi spunti, come ad esempio in phy-siòoo, che significa “soffio”, “gonfio” o in physema, “fisima”, letteralmente “cosa gonfiata”, o anche nella stessa “fisarmonica”, strumento musicale in cui si soffia e che deriva sempre dalla radice phy- a sua volta traente origine da quella indoeuropea pu-. Ma sulle possibili etimologie provenienti dal sanscrito ne parleremo più tardi, per ora concludo questa breve ipotesi illustrando anche l’etimologia di Afrodite, divinità che abbiamo incontrato pocanzi parlando della città di Pafo. Il nome Afrodite deriva presumibilmente dal greco aphros, “spuma”, poiché Ella dalle acque del mare venne a noi. Tuttavia il termine stesso spuma discenderebbe proprio dal sanscrito spus, anche qui avente come radice pu-, ossia ancora una volta “soffiare”. Sulla base di questa etimologia Baphomet potrebbe dunque significare “Soffio della Madre” o anche “Soffiare la Sapienza” o persino “Gonfio di Sapienza”.
3- Il Matto
Il Matto. Basta pronunciare questa parola per pensare all’outsider, al folle, all’essere pericoloso che incarna l’incontrollabile. Il Matto è l’Arcano Zero dei Tarocchi, colui che per Iniziare finisce, gettandosi e gettandoci nel vuoto dell’ignoto. Il termine matto deriva dal sanscrito madu, letteralmente “sostanza inebriante”, come ad esempio il vino. Methyo, difatti, nella lingua ariana significava “sono ubriaco” e ciò ci fa comprendere come il “matto” discenda dal concetto di ebbrezza. Anticamente non era raro che l’alcol e certe piante psicotrope venissero utilizzate per fini ritualistici. Nei culti misterici era pratica comune, così come nelle celebrazioni dionisiache, nei baccanali e ovviamente nel Vama Marg, il Sentiero della Mano Sinistra. Il matto di cui dunque parlo, e che potrebbe rappresentare una possibile etimo del suffisso Met di Baphomet, non è semplicemente lo squinternato mentalmente instabile, bensì l’illuminato ispirato dalla Santa Follia, colui che è “pervaso dallo spirito divino”, colui che è rapito da grande “entusiasmo”, etimologicamente formato da en, “in”, e theós, “dio”, ossia colui che “ha dentro Dio”.
Ecco cos’è la Santa Follia, nota in ogni tempo ed ogni luogo come rapimento estatico, come comunione totalizzante con il Sacro, permettendo al divino di entrarti dentro e fecondarti con tutto lo scibile che l’Eternità contiene. Quest’altissima unione spirituale è ciò che i Cristiani finiranno per definire “possessione demoniaca”, conferendole un’accezione negativa figlia della più greve ignoranza. Curioso però constatare l’esistenza di sette cristiane, come ad esempio gli Evangelici Pentecostali e i Carismatici, che affermano di essere “pervasi” dallo Spirito Santo e di riceverne “doni”, ossia niente meno che quelle stesse doti che, se ricevute da un Non-Cristiano, sarebbero bollate come segnali di possessione demoniaca o diaboliche stregonerie!
Dal termine “matto” deriva poi un altro verbo latino molto particolare, ovverosia mactare, in italiano “mattare”, con tutti i suoi derivati del caso, come macello, mattanza e mattatoio. Secondo gli antichi interpeti, mactare deve la sua origine alla radice sanscrita mah- il cui significato non è letteralmente “uccidere”, bensì “far grande”, “onorare”, riferito in particolare agli Dei, per l’appunto celebrati spesso attraverso sacrifici di sangue che diedero poi luogo al termine generico “uccidere”, “ammazzare”.
4 - La Trinità Satanica
Come abbiamo visto esistono diverse deposizioni templari in cui l’idolo bafometico viene descritto con più teste, inducendoci a collegare il Baphomet alla figura di Janus/Janua, l’Ente preposto a sorvegliare le Porte e gli inizi. Janus/Janua era rappresentato bicefalo, con due teste, ma talvolta abbiamo visto che poteva essere raffigurato anche tricefalo, con tre teste. Questo ci ha condotto sul sentiero mistico della Sacra Triade, presente in moltissime culture in diverse forme, sia in configurazioni esclusivamente femminili - come nel caso della Triplice Dea - sia solamente maschili - avevamo citato l’esempio della Trimurti induista, composta da Brahama, Visnu e Shiva. Esistevano però anche triadi miste, come in Egitto quella formata da Iside, Osiride e il figlio Horus, così come a Roma svettavano trionfanti Giove, Giunone e Minerva nella Triade Capitolina, emanazione diretta della trinità etrusca composta dai corrispettivi Tinia, Uni e Menrva.
Le triadi miste concretano nei fatti l’armonia perfetta della natura, ritraendo l’essenza della Creazione attraverso l’immagine elementare della Famiglia. Che sia una famiglia ordinaria fatta di padre, madre e figlio/a o che sia una famiglia straordinaria, in cui l’erede nasce in modo prodigioso, [vedesi ad esempio Minerva/Menrva/Atena che nasce dalla testa del padre o, come nella Trinità cristiana, Gesù che nasce per partenogenesi da una donna vergine] resta comunque integro il concetto di creazione e continuum esistenziale. Ogni triade racconta quasi sempre di una nascita miracolosa, tutti richiami al Primo Nato della Stirpe Satanica dei Discesi. Come abbiamo spesse volte ricordato, ogni tradizione è figlia della Prima Tradizione, ogni culto è figlio del Culto delle Origini. Una storia si è anticamente compiuta e ha continuato a diffondersi attraverso la moltitudine di culture che nei millenni si sono formate, ridefinendone così di volta in volta i contorni.
Ecco dunque che il Baphomet potrebbe dunque rappresentare semplicemente questa Triade Divina, la Sacra Famiglia ancestrale, capostipiti della Razza dei Satanidi, Eredi viventi del Dio delle Origini. L’ipotesi etimologica che in tal frangente vi propongo vedrebbe dunque Baphomet come la contrazione dei termini latini Pater, Filius e Mater, ossia Pa-Fi-Mat, mutato poi appunto in Baphomet. Secondo questa interpretazione, Baphomet sarebbe pertanto l’emblema della Famiglia di Satana, Il Primo Nato/a dall’unione fra un essere umano e un essere divino, il fondamento stesso del nostro Sangue e della nostra Memoria. Allo stesso modo, anche per quanti non condividessero la teoria del Culto delle Origini, Baphomet inteso come “Sacro Figlio” potrebbe benissimo rappresentare una metafora dell’Iniziato rinato, colui che ha trasceso le dicotomie della realtà contingente ed è riemerso dal “Vaso-Testa”, il grembo delle rinascite ultraterrene.
5 - Etimologie dal Sanscrito
Questa è stata forse la parte più complessa della mia ricerca sull’origine del nome Baphomet, ma d’altra parte il sanscrito è la lingua indoeuropea più antica, quella che maggiormente ha influenzato ogni altro idioma occidentale, pertanto ho ritenuto indispensabile indagare. Sono sempre stata innamorata della verità, un dono prezioso che senza dubbio è più facile rintracciare alla fonte del Grande Fiume piuttosto che perdendosi nel marasma dei suoi mille affluenti. Risalire all’Origine è la chiave per afferrare la verità nella sua purezza, oltre le contaminazioni posteriori, dunque indagare sull’etimologia sanscrita di un nome è sempre un’ottima idea per capire meglio la reale essenza di qualcosa. Basti pensare alla parola Satana, in ebraico trasformata in “avversario”, “nemico” e che invece nella sua radice sanscrita Sat significa niente meno che Verità. Questa tesi, snobbata dalla maggior parte degli intellettuali del mondo essoterico, è a mio avviso invece molto pertinente, non solo perché restituisce a Satana la sua dignità, ma soprattutto perché ci offre un quadro perfetto dell’attuale sistema occidentale ebraicizzato, dove la menzogna viene santificata e la Verità si è per l’appunto trasformata nell’Avversario.
Sono diversi anni che i miei passi si muovono nell’appassionante sentiero del Suono e posso affermare che il potere insito nelle antiche lingue protoindoeuropee è concreto. Il sanscrito è forse la lingua che più si avvicina all’antico linguaggio parlato dai primi Signori del Culto delle Origini, pertanto ho voluto ricercare il Suono di Baphomet nelle antiche radici sanscrite. Mi rendo conto che quando si ricerca l’origine di un termine sia sempre abbastanza discutibile trarre conclusioni scomponendolo nelle sue sillabe, ma in ambito ermetico non è raro che un vocabolo sia in realtà l’acronimo di più parole. Prendete dunque questa ricerca come un semplice spunto di riflessione.
BA: Rendich Franco, nel suo Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, c’informa che alla consonante B venne attribuito in origine il significato di “energia”, “energia luminosa”, “energia vitale”, nozioni ben sintetizzate nel termine greco bios, “vita” e in quello sanscrito bhas, “splendere”. Da questa radice nacquero anche i termini greci phos, “luce”, phaino “mostrare”, nonché il latino focus, “fuoco”. Il Rendich procede con l’analisi di lemmi contenenti in sé la radice ba- e si può notare come ogni volta essa abbia il ruolo di rafforzare ogni azione, come ad esempio nel termine “legare”, in sanscrito bandh, il quale è composto da “fissare [dh] con forza [ba]”. Allo stesso modo “essere vitale”, in sanscrito bal, deriverebbe da “giungere [al] con forza vitale [b]”. In tutte le parole sanscrite analizzate, e comparate al greco e al latino, si evince il ruolo della radice b/ba come energia dinamica che rafforza ogni concetto e azione.
Simile alla radice B troviamo anche la labiale P, con il significato di purificazione e talvolta anche protezione. Prendiamo ad esempio pa-ti, “proteggere”, o pa-yu, “custode”. Pa- è invece radice di termini come “nutrire”, “alimentare”, la stessa parola “pane” deriverebbe infatti da questa radice. Anche “padre” deriva dalla radice pa- e significa letteralmente “colui che nutre”, “colui che protegge”. Se volessimo essere più specifici, potremmo dire che il padre è colui che “protegge il nutrimento”, ma anche “colui che protegge la purezza”, giacché la particella -tr di pitr [padre] significa anche “custodire”, “difendere”, dunque padre è “chi custodisce [tr] il nutrimento [pa]”, o più genericamente, “la purezza [p]”.
FO: Sempre prendendo come riferimento il dizionario del Rendich, troviamo anche la radice BHA, la quale scomposta ci offre il significato di “effetto [ā] di uno spostamento [h] di energia [b]”. Sulla radice bha occorre però fare una precisazione sulla pronuncia. Se le consonanti sanscrite b e p nel latino restano immutate, bha invece subisce una modifica, mutando in f. Anche la radice dha in latino diventa f, questo perché la f latina riposa sulla lettera aspirata indoeuropea h. Ecco dunque che termini sanscriti come appunto dha, “fare”, in latino diventa facere, così come il bhu sanscrito, “essere”, in latino diventa fu. Accade così che se BA resta immutato, BHA invece diventa “fa”.
Ora che abbiamo capito che la particella sanscrita bh- in latino si traduce foneticamente come una f, possiamo procedere nell’analisi del suo significato. Se ba è l’energia stessa, bha è l’effetto diretto della sua azione, e proprio per questo essa è radice di vocaboli come “apparire”, “mostrare”, “splendere”, “manifestare”, “parlare” e “dire”, termini lontani solo in apparenza. Bha è la radice della luce, o meglio della sua azione rigenerante e vitale. Da essa derivano terminologie connesse alla propagazione dell’energia luminosa, come ad esempio i raggi del sole; si pensi anche a termini derivanti come il latino focus, “fuoco” o il greco φοῖβος, febo, ossia “solare”, “splendente”, “luminoso”, “puro”. Lo stesso nome greco di Lucifero, Fosforo, deriva dal sanscrito bha, che in greco diventa phos, cioè “luce”. Ed ecco che troviamo proprio in phos la particella FO di BA-FO-MET, rintracciabile anche in parole di uso comune come “fotone”, il quanto di energia elettromagnetica, la cosiddetta “particella di luce”. Al collegamento con phos/luce era arrivato anche Paul Le Cour, fondatore della rivista esoterica Atlantis, che farebbe risalire Baphomet dal greco bios, “vita”, phos, “luce” e metis, “saggezza”.
Interessante, e come vedremo infine non estraneo al concetto di luce e suono, è anche la derivazione bhu - letta in latino come fu. Bhu è la radice sanscrita del verbo essere, inteso specificatamente come “far venire in essere”, “divenire”, “far essere”, “generare”. In poche parole sarebbe l’essenza dell’essere in chiave dinamica, in movimento e quindi in fase di crescita ed evoluzione. Dalla particella bhu nasce dunque il nostro “fui”, cioè il perfetto di esse [as]. Ecco dunque che da bhu derivano così termini come “figlio”, “produco”, “faccio essere”, “genero”. Non a caso “figlio” significa letteralmente “il generato”, sebbene vi è anche una seconda ipotesi etimologica che lo farebbe invece derivare dalla radice dhe [in latino fe] da cui il verbo “fellare”, ossia succhiare, chiaro riferimento all’allattamento. Anche il termine “femmina” ha la stessa origine di figlio, in bilico fra studiosi che la vorrebbero far derivare da bhu/generare ed altri che propendono per dhe/fellare. Io sinceramente sono più incline a considerare l’ipotesi della radice bhu. Interessante è anche il termine greco phyo, sempre derivante dal bhu sanscrito, che significa “io sono”, “nasco”, “genero”, così come physis, phya, cioè la natura. Potrebbe dunque la splendente So-phia, la Sapienza, essere chi è “sopra la natura”? O semplicemente “Colei che genera, riluce e fa essere”?
Oltre a “luce ed essere in divenire”, bha è anche radice di “rilucere”, [vedere ad esempio il verbo bha-ti] e il suo corrispettivo greco è phaino, cioè “mostrare”, inteso come mettere in luce, rendere visibile, far apparire, manifestare. Tale radice è rintracciabile anche nella radice accadica panu e indica appunto “la visione”, l’aspetto visibile di qualcosa. E chiedo anticipatamente scusa per eventuali voli pindarici, ma la mia mente è abituata a collegare molte informazioni, pertanto non posso ora fare a meno di farvi notare come il termine accadico panu sia molto simile al nome Pan, dio greco della selva con tratti squisitamente demoniaci che - guarda te il caso! - era assimilato a Phanes, il Dio che Porta Luce. Phanes era chiamato anche Protogonos, che significa “il Primo Nato”, stesso nome che molti anni fa Satana mi fece presente essere connesso a Samael. Potete dunque immaginare il mio sorriso quando durante le mie ricerche, incappata per caso nella figura di Phanes, scoprii che oltre ad avere lo stesso appellativo di Samael, proprio come Lui veniva descritto avvolto dalle spire di un serpente e con testa di leone! Altro dettaglio particolare che inserisce perfettamente Phanes nella nostra cornice è che secondo il mito fu inghiottito da Zeus, il quale voleva acquisirne il potere, e proprio per questo spesso Phanes è stato associato niente meno che a Metis. Anche Metis, come abbiamo precedentemente raccontato, è stata ingoiata da Zeus e se ricordate è la Dea della Saggezza a cui la maggior parte degli studiosi farebbe derivare il MET di Baphomet.
Ma come mai termini apparentemente così distanti come luce, generare, divenire, mostrare, apparire o addirittura parlare, possiedono la stessa radice? A tal proposito mi viene incontro un passaggio del Vocabolario delle Istituzioni Indoeuropee del Benveniste, dove propone un accostamento, già comunque noto ai nostri avi latini, fra i termini fas, la legge divina, e for/fari, il verbo parlare. Sebbene questi due lemmi possano sembrare distanti fra loro, dato che nella semplice azione del parlare non è intrinseca la sacralità, la radice sanscrita bha ci offre ancora una volta la risposta. Bha, da cui derivano appunto i latini fas e for/fari, indica lo “splendere”, il “mostrare attraverso la luce”, il “generare la vita”. A conferma di ciò troviamo in greco il termine phemi, “parlo” e phasko, “dire”, che hanno la stessa radice di phos, ossia luce. La radice indoeuropea bha ha dunque una doppia valenza che collega il concetto di luce, splendere, mostrare, al concetto di parola, dire, parlare, voce. Lo stesso accade ancora una volta in greco con il termine phasis, che indica sia l’apparenza che l’emissione di voce. Da qui nasce una chiara corrispondenza fra luce e suono, cosa che ritroviamo anche nel concetto stesso di Creazione. Non a caso esistono parole tuttora di uso comune come “telefono” o “fonico” che ci fanno comprendere che in qualche modo termini connessi al suono hanno la stessa origine di termini connessi alla luce [da bha discende appunto il greco phoné, voce, suono, esattamente come phos, luce, e phaino, “mostrare”].
Suono, Luce e Manifestazione sono pertanto fortemente connessi fra loro, poiché elementi indissolubili della Creazione. Secondo i sacri testi vedici, il mondo fu creato grazie al Canto degli Dei, la stessa Bibbia racconta che “in principio fu il Verbo”. Tutto questo ci fa comprendere come il suono abbia un ruolo fondamentale nella creazione della realtà, una realtà visibile attraverso la luce stessa che è a sua volta legata al suono in chiave cosmogonica. Come ho illustrato ampiamente nell’articolo inerente al Potere del Suono, gli esperimenti di cimatica sono un chiaro esempio di come la vibrazione sonora sia in grado di creare “spazi pieni” di energia che danno la possibilità alla materia di spostarsi negli “spazi vuoti”, generando così nuove forme. Questo accade anche in ambito più sottile, dove le frequenze sonore, la Vibrazione, possono modificare la realtà attraverso un gioco d’incastri fra il Pieno e il Vuoto. Potremmo dunque concludere affermando che è la luce stessa a rendere manifesta la fas, la legge divina, giacché è la luce a rendere visibile il Verbo, la Luce che mostra il Suono.
MET: La speculazione che ho formulato sulla base del sanscrito, inerente al “met” di Baphomet, offre conferme alla metis contemplata dalla maggioranza degli studiosi. In sanscrito la parola matis è infatti la mente, così come mati è “pensiero”, mata “dottrina”, madha “intelligenza” e madhas “scienza” e “medicina”. Madaya in sanscrito è “insegnare” e dalla stessa voce verbale deriva anche il termine “meditare”. Matis e tutte le sue derivazioni sono dunque coerenti con la Metis greca, sia come Dea della Saggezza che come immagine della sapienza stessa.
In realtà, però, anche la metra proposta da Long trova nel sanscrito le sue conferme. La radice ma nelle lingue indoeuropee compare di fatti in termini come “misurare”, “metro”, “materia” e non ultimo proprio “madre”. Anche in questo caso, tali termini dalla comune radice sembrano distanti fra loro soltanto in apparenza, poiché invero sono profondamente connessi gli uni agli altri. In zendo [lingua avestica] dalla radice ma deriva sia la parola “madre” che il verbo “creare”, entrambi connessi all’indoeuropeo “misurare”. Il sanscrito ma-ti significa, appunto, “misurare”, così come matra è “metro” - esattamente come il termine greco mètron, del tutto simile a metra, “madre”. Il collegamento fra madre e misura è a mio avviso importantissimo per capire il ruolo creativo di Baphomet, facendo intuire nella figura della Mater la capacità non solo di generare la vita ma anche la stessa realtà fenomenica. Ella crea e distrugge in ogni dimensione dell’esistenza, sia nelle forme corporali che astrali, sia nella struttura biologica umana del microcosmo che nell’architettura stessa del macrocosmo. La sua forza è un costante suono che si ripete, sebbene in frequenze differenti, sia nei granelli di sabbia che nelle stelle.
In sanscrito matr significa “madre” e deriva dalla radice ma, “misurare”, giacché la madre era concepita come colei che genera la vita grazie alla capacità innata di preparare, ordinare e disporre, fasi indispensabili al processo creativo. Lo stesso verbo sanscrito mami significa “io dispongo”, “io misuro”, “io produco”, e così la matr dell’antica famiglia ariana era intesa come “l’ordinatrice”, “la misuratrice”. Fra i vari significati del verbo mami va annoverato anche “io distribuisco”, dettaglio molto interessante se si pensa all’etimologia della dea greca Demetra, Signora dell’Iniziazione misterica di Eleusi [e di Enna sotto il nome di Cerere]. La parola Demetra deriva dai termini greci γῆ, “terra” e μήτηρ “madre”, da ciò dunque “Madre Terra”. Questa teoria, nonostante sia lecita nel suo significato, non ha soddisfatto diversi linguisti, dato che la particella δη [de] di Demetra indicherebbe la terra solo in alcune forme dialettali greche, dove diventa γῆ [ge] “terra”. Altri studiosi hanno perciò ipotizzato che Demetra possa avere una derivazione più arcaica, rintracciabile nelle lingue protoindoeuropee, dove troviamo la radice da, la medesima del termine “dio”. Basti pensare ad esempio alla stessa Diana derivante da dia/da [Dea, Dio] o persino alla parola Diavolo che contiene in sé la stessa radice divina dia/da. Demetra pertanto potrebbe significare semplicemente “Dea Madre”. Alcuni filologi hanno però preferito tradurre il senso di Dia-Meter come “Madre di Dio”, anziché “Dea Madre”. Questa scelta è forse un tentativo di sminuirne l’essenza divina, esattamente come il programma cristiano insegna, privando così la Dea della sua autorità sacrale e circoscrivendo la sua funzione al limitato ruolo di madre di un dio maggiore, un dio a cui per altro viene sacrilegamente sottoposta. Un’ulteriore teoria è che Demetra possa derivare dalla stessa radice latina di “dare” e questa ipotesi, secondo gli studiosi, troverebbe conferme nell’etimologia di Poseidone, letteralmente traducibile come “sposo di colei che distribuisce”, dato che in epoca micenea erano considerati consorti. Da-Meter sarebbe dunque “Madre che distribuisce”, il che collimerebbe con il verbo sanscrito mami, verbo che significa appunto “io distribuisco” ma anche “io ordino”, “io dispongo”, “io misuro”, derivante come abbiamo detto dalla stessa radice di matr, “madre”.
Credo sia a questi punti inevitabile portare il pensiero alla dea egizia Maat, Signora della Verità e della Giustizia. Maat però era anche la base stessa della vita, l’equilibrio del mondo, e durante la psicostasia Ella non era semplicemente il Giudice dei Morti ma lo stesso metro di misura con cui giudicarli. Maat era ed è la misura, è colei che ordina, che dispone, generando la creazione. Secondo l’egittologo Boris de Rachewiltz, dal nome di Maat deriverebbe anche il vocabolo greco mathema, “matematica”, termine che per altro deriva come “madre” e “misura” dalla radice indoaria ma. Non è affatto difficile trovare una connessione fra la madre creatrice, la misura e la matematica, pertanto il nome Maat risulta totalmente coerente con il ruolo della Signora. Da notare ad esempio uno degli emblemi della dea Maat, il cosiddetto rettangolo aureo, fondato sull’omonimo numero aureo 1,618, costante di ogni creazione. Il sacro rettangolo di Maat è stato rinvenuto in un antico papiro conservato nel museo del Cairo, il papiro della regina Kamara. In esso troviamo questa figura geometrica dalle perfette proporzioni, sormontato dalla testa piumata della Signora della Verità e della Misura, Maat. Studiosi hanno poi appurato di come le proporzioni di questo rettangolo fossero alla base di moltissime costruzioni e opere d’arte egizie. Il rettangolo aureo di Maat poteva essere posto in orizzontale qualora si volesse rappresentare l’ordine terreno e in verticale nella rappresentazione dell’ordine divino. Maat è dunque l’armonia in ogni cosa, letteralmente il Mattone della vita, la misura primordiale che concepisce ogni creazione a sua immagine e somiglianza. Aggiungo anche che il termine sanscrito metr, dalla stessa radice di madre e misura, significa “architetto”, ma anche “chi protegge i confini”. Non a caso tale etimologia viene conferita da alcuni ricercatori anche al Dio Mitra. Questo perché la radice tr in sanscrito rappresenta “la protezione”, mentre la m rappresenta il “limite” inteso come ciò che è definito, ciò che dalla monade uroborica si è coagulato nella materialità dicotomica del Caduceo, generando il visibile in cui l’anima esperisce la vita e con essa se stessa.
Per concludere l’analisi di MET dal sanscrito, aggiungo che il termine misurare ha per gli indoari una doppia valenza. Misurare, infatti, corrisponde anche al verbo “pensare”, dato che tale azione è concepita letteralmente come un “misurare con la mente”, e di conseguenza anche ordinare i concetti e crearne di nuovi. Il pensiero dunque come atto magico indispensabile alla Creazione, l’immaginario che attraverso il Suono, il Logos, il Soffio, si manifesta nel regno del visibile, riflesso di Maat. Infine, dalla radice protoindoeuropea ma, oltre a parole come matematica, misura, madre, deriva anche “materia”, intesa sia come creazione fenomenica che nel senso stretto di “disciplina”, insegnamento. Non a caso il verbo mathèo significa proprio “io imparo”, “io investigo”, da cui deriva anche mathetès, ossia “discepolo”. Secondo Long, l’androginia del Baphomet leviano sarebbe soltanto un clamoroso fraintendimento esoterico, sostenendo che in realtà la celebre illustrazione di un’entità ermafrodita altro non sarebbe che la rivisitazione romantica dell’unione fra la Signora e il suo Sacerdote, ossia l’Iniziatore Occulto e l’Iniziato. Sulla base di questa visione non sarebbe pertanto irragionevole pensare a Bapho-Met come l’unione di bapheus, Iniziatore, Tintore, e mathetès, il discepolo, l’iniziato, quindi “Tintore e Discepolo”, o “Discepolo Tinto”. A questo punto credo che ognuno possa trarre le sue conclusioni. Sulla base delle potenti radici sanscrite Baphomet potrebbe dunque rappresentare:
- La Madre [ma] che splende [bha] con forza, potenza [ba];
- La Madre [ma] che genera [bhu] con forza, potenza [ba];
- La Misuratrice [ma] che rende manifesta [bha] l’energia [ba];
- La Mente/Saggezza [ma] che rende visibile [bha] l’energia [ba];
oppure:
- L’energia [ba] generatrice [bha] della Madre o Mente [ma];
- L’energia [ba] che diviene [bhu] misura o materia [ma];
- L’energia [ba] che manifesta [bha] il pensiero [ma];
E se si considerassero solo due sillabe, quindi non BA – PHO – MET, ma solo BA – PHOMET, potremmo azzardare anche:
- Chi splende con forza (da ba più bha-mi, ossia “io splendo”);
- Chi manifesta/mostra/genera con potenza (da ba più pha-mi, “io manifesto”);
Altra possibilità, passando dal sanscrito direttamente alle lingua greco/latina, è che possa voler semplicemente dire:
- Battesimo [ba] della luce/fuoco [phos] della Madre [matr];
Insomma, le possibili combinazioni sono molte ma tutte hanno un comune denominatore: la creazione, la trasformazione dell’energia in realtà tangibile, l’estremo sacrificio del Grande Serpente Bianco che frantumandosi offre a noi tutta la meraviglia dei colori che conteneva. Qualcuno potrebbe obbiettare per il gran numero di combinazioni, potrebbe sentirsi confuso e chiedersi quale possa essere dunque la “più vera”. Io credo che non esista una risposta più vera, perché sono tutte vere e tutte false allo stesso modo. Baphomet è la risposta a tutte le domande, ma la risposta può mutare se muta la domanda. L’essenza di Baphomet, espressa anche dal significato che diamo al suo nome, varia a seconda del sentiero su cui marciamo, dal punto di vista da cui osserviamo. Molti sono i volti dell’Iniziatore Occulto, molti i nomi, molti i significati e dunque molte le possibilità. Ognuno degli aspetti di Baphomet racchiude in sé un senso più profondo, pronto a riemergere non appena avrete occasione di sviscerarlo nelle vostre continue esperienze. Baphomet è un simbolo ermetico d’immensa potenza, ma è anche la maschera dietro la quale si cela l’essenza di un’Anima Antica che fin dal principio ha illuminato i nostri passi e, ironia della sorte, spesso lo ha fatto portandoci proprio nelle Tenebre. Ogni etimo finora proposta ha lo scopo di fornirvi nuovi spunti di riflessione, mostrandovi altri possibili aspetti di Baphomet, e ognuno di voi inevitabilmente finirà per riconoscersi maggiormente in questa o quell’altra interpretazione, ma ritengo che tutte, a modo loro, possano raccontarci qualcosa in più sull’Iniziazione Occulta.
6 – Il Battesimo della Paura
Un’ultima etimologia che vorrei proporvi consiste nel far derivare il MET di Baphomet dal termine latino metus, letteralmente “paura”, “timore”. Questo termine lo ritroviamo anche nel greco φόβος, metus, con lo stesso significato. Se ricordate, nel paragrafo precedente sul sanscrito, fra le varie analisi abbiamo incontrato la figura di Pan, Dio della Selva da cui deriva niente meno che il termine “panico”. Ma che cosa può c’entrare la paura con Baphomet? Spesso mi sono sentita chiedere da Esterni e Novizi come mai nel Satanismo Originale fosse spesso presente una componente macabra, nonostante la nostra Etica votata alla Bellezza. Tralasciando l’ovvietà nel dire che anche la Tenebra ha indubbiamente il suo fascino, la reale ragione dell’uso del macabro, soprattutto nell’iconografia, è innescare timore nell’osservatore. La paura si rivela nei fatti la prima prova iniziatica che ogni Satanide deve affrontare. Anche il semplice nome Satana è altamente temuto ed è proprio la paura di questo nome ad allontanare tanti individui, come Cristiani o certi Neo-Pagani cristianizzati. Satana siede dinnanzi alle porte della Verità ma il suo nome e il suo aspetto appaiono temibili, affinché la paura stessa funga da Guardiano della Soglia. Molti di fronte a quella paura si fermano e arretrano, ma i pochi che invece trovano il coraggio di andare oltre saranno gli Eroi che riceveranno la Chiave della Prima Porta, accedendo così al Sentiero della vera Conoscenza.
Igor Sibaldi nel suo Il frutto proibito della conoscenza, parla del Diavolo come di un Guardiano della Soglia che ha il compito di vegliare sui Sette Cieli. Ogni Cielo rappresenta una prova da superare per raggiungere una maggiore consapevolezza di se stessi, sia a livello immanente che trascendente. Ecco dunque che Baphomet in tal senso ricopre perfettamente il ruolo simbolico del Diavolo, un Guardiano della Soglia che ci sfida ad affrontare e superare la paura, accedendo così ad un nuovo Cielo. Ciò che comunemente chiamiamo Diavolo non è mai stato un male che serve il male, bensì un bene superiore che talvolta veste i panni del male per metterci alla prova e renderci migliori. Le tentazioni a cui il Diavolo ci induce non sono mai volte a nuocerci ma a migliorare noi stessi, anche con mezzi apparentemente spaventosi. Perché spezzare le catene che ci legano all’illusione è sempre qualcosa di temibile per ogni essere umano e Satana senza pietà ci tenta a distruggerle, ci tenta a essere forti, ci tenta a essere liberi, ci tenta a essere fieri e coraggiosi. Tutto questo si rivela inaccettabile per coloro che invece non vogliono rischiare di perdere le proprie false certezze, la loro falsa idea di avere il controllo, la loro debolezza fatta di mille schiavitù a cui restano fedelmente aggrappati. Per queste persone Satana è un nemico, un tentatore che gli spinge a vedere esattamente quello su cui da sempre chiudono gli occhi.
La paura mossa da Baphomet, da Satana, dai nobili Demoni dell’Inferno, è dunque la prima prova che ogni autentico Erede di Satana deve affrontare, per ritrovare se stesso, la propria origine e di conseguenza la propria meta. Ecco dunque che la mia proposta etimologica si rivela appropriata, svelando il termine Baphomet come il “Battesimo della Paura”, ossia ancora una volta l’Iniziatore Occulto che ci immerge nella paura come prima sacra ordalia.
Parte III - Simbologia del Baphomet di Levi
Finora ho cercato di affrontare la figura di Baphomet in modo forse un po’ insolito, partendo dall’idolo templare per poi penetrare direttamente nel cuore pulsante della Tradizione, dove l’Iniziatore Occulto dissemina silente le sue tracce. Questo lungo viaggio aveva lo scopo di portare il lettore a carpire la reale essenza di questa misteriosa figura, ma sarebbe impossibile concludere la nostra ricerca senza prendere in causa anche il noto mago Eliphas Levi. La più celebre rappresentazione del Baphomet ci arriva infatti da Dogme et Rituel de la Haute Magie, opera del 1856 che ha senza dubbio offerto le basi del moderno pensiero esoterico, riaccendendo così l’interesse per la Nobile Arte, ma di contro rendendola anche più mondana e tragicamente deturpata dal misticismo Giudeo-Cristiano.
Eliphas Levi: Accenni Biografici
Eliphas Levi nacque a Parigi nel 1810, con il nome di Alphonse Louis Constant. La sua famiglia era povera, ma ebbe la possibilità di venire istruito in un istituto religioso. Alphonse era un allievo brillante e quando entrò in seminario egli stesso cominciò ad istruire altri allievi. In quegli anni ebbe accesso a libri di filosofia, di teologia, di matematica, ma anche misticismo egizio, ellenico ed orientale. Il suo stesso primo maestro, l’abate Malmaison, fu il primo a innescare in lui l’interesse verso la Magia. Occorre premettere che a quei tempi la conoscenza non era libera come lo è oggi, la maggior parte delle opere letterarie d’impronta ermetica erano detenute dalla Chiesa e dalla Massoneria. Alphonse ebbe dunque la fortuna di essere circondato fin da giovane da grandi saperi, sebbene sempre limitato dal filtro della dottrina cristiana.
Nonostante il piano originale fosse prendere i voti, Alphonse si rese conto di essersi innamorato di una sua allieva e comprese che la vita sacerdotale non era la sua strada. La madre, essendo molto religiosa e riponendo ogni speranza sul sacerdozio del figlio, per il dolore si tolse la vita. Allphonse, rimasto così orfano di padre e madre, passò un periodo di grande instabilità, la sua vita fu un’altalena di spostamenti, di progetti cominciati e spesso destinati a restare incompiuti, di relazioni intense ma turbolente, e non mancarono nemmeno le grandi tragedie, come la morte della figlia di sette anni avuta da una delle sue diverse compagne. In tutto questo tribolare, Alphonse si dimostrò comunque sempre molto intraprendente, pubblicando manifesti politici - tendenzialmente socialisti liberali - sovversivi per l’epoca quanto bastava da costargli la censura e persino la detenzione.
Negli anni Alphonse conobbe una sacco di personalità di spicco, soprattutto del mondo esoterico, tessendo così rapporti con personaggi dell’epoca che contribuirono ad ampliare il suo già notevole bagaglio culturale. Nel 1850 l’abate Migne chiese al brillante Alphonse di scrivere un dizionario sulla letteratura cristiana, un testo che riscosse abbastanza successo e che lo portò all’attenzione di colui che poi diverrà il suo più grande maestro, ossia Hoenè Wronski, il quale lo iniziò al misticismo ebraico. Fu allora che Alphonse prese il nome di Eliphas Levi, nome che gli diede direttamente il suo maestro. Levi cominciò ad approfondire la cabala e il messianismo, riconoscendo nello stesso Talmud il santo Graal di ogni conoscenza. Da lì Levi venne iniziato alla Massoneria e cominciò a scrivere molte di quelle opere oggi a noi tutti note, come appunto Dogma dell’Alta Magia e Storia della Magia.
Nonostante Levi sia considerato uno dei più grandi maghi della storia moderna, in realtà lo si dovrebbe collocare più fra gli studiosi che fra i Praticanti. Quest’uomo senza dubbio brillò per la sua grande cultura, ma ebbe un rapporto oserei dire quasi conflittuale con l’Iniziazione vera e propria. Chiunque si trovi a leggere le opere di Levi con senso critico non potrà far a meno di notare una certa confusione interiore, una tensione spirituale che lo porterà ad alternare la fede ad un profondo scetticismo, l’attrazione verso l’occulto contrastata dai suoi stessi dogmi e dalle sue stesse inquietudini. Basti pensare all’episodio dell’evocazione di Apollonio di Tirana, un evento che lo turberà al punto di giurare a se stesso di non andar mai più oltre l’approccio teorico della Magia. Personalmente credo che Alphonse Louis Constant fosse un giovane dalla mente vivace, intuitivo e affamato di sapere, un ragazzo di bassa estrazione che desiderava più che mai una meritata rivincita. La sua storia risulta infatti avvincente, per quanto spesso dolorosa, fintanto che non conosce Wronski, dal quale fu influenzato al punto tale da trasformarsi in Eliphas Levi e corrompere così definitivamente il suo Cammino.
Il Baphomet di Levi
Ecco dunque che l’elaborazione del Baphomet, per quanto tuttora amata ed utilizzata dalla maggior parte dei Satanisti, ha subito anch’essa delle corruzioni. Nell’imago di Levi, il Bafometto diventa non più la personificazione dell’Iniziatore Occulto ma l’emblema dell’Iniziazione stessa. Il Baphomet leviano diviene un simbolo che custodisce altri simboli, l’ipostatizzazione allegorica della Tradizione. La ricostruzione etimologica di Levi farebbe risalire Baphomet all’acronimo delle tre sillabe, tem, ohp e ab, da leggere cabalisticamente al contrario. Queste tre sillabe sarebbero l’abbreviazione di Templi Omnium Hominum Pacis Abbas, ossia “il padre del tempio della pace di tutti gli uomini”. Preciso intanto che abbas è un termine latino che significa “abate”, quindi “padre” in tal caso è da intendersi come “padre del tempio”, “abate”, “sacerdote”. Aldilà di questo, trovo comunque la teoria etimologica di Levi tanto debole quanto contorta, priva di qualsivoglia logica, sia nella sua astrusa composizione che nel mero significato finale. Passi la teoria degli acronimi, utilizzata spesso nell’ermetismo, passi anche volendo la lettura invertita, ma far della prima sillaba l’abbreviazione di una parola e della seconda sillaba l’iniziale delle seguenti tre parole, per poi nella terza sillaba tornare a renderla abbreviazione del termine finale della frase, mi sembra davvero una forzatura priva di senso. Secondo un principio simile allora Baphomet potrebbe significare qualsiasi cosa!
L’interpreazione simbolica di Baphomet, secondo l’esoterista francese, è la seguente:
“La capra sul frontespizio porta il segno del pentagramma sulla fronte, con una punta in alto, simbolo di luce, le sue due mani che formano il segno dell’ermetismo, quella rivolta verso l’alto verso la luna bianca di Chesed, l’altra verso il basso in direzione di quella nera di Geburah. Questo segno esprime la perfetta armonia della misericordia con la giustizia. Un suo braccio è femminile, l’altro è maschile come quelli dell’Androgino di Khunrath, attributi che abbiamo dovuto unire con quelli del nostro caprone perché è uno e lo stesso simbolo. La fiamma di intelligenza brillante tra le corna è la luce magica dell’equilibrio universale, l’immagine dell’anima elevata sopra la materia, come la fiamma, pur essendo legato alla materia, brilla sopra di essa. L’orrenda testa della bestia esprime l’orrore del peccatore, che agendo materialmente, è l’unico responsabile che dovrà sopportare la punizione, perché l’anima è insensibile secondo la sua natura e può solo soffrire nel momento in cui si materializza. L’asta eretta in piedi al posto dei genitali simboleggia la vita eterna, il corpo ricoperto di squame l’acqua, il semicerchio sopra l’atmosfera. L’umanità è rappresentata dai due seni e dalle braccia androgine di questa sfinge delle scienze occulte"
Ritengo che ci siano elementi dell’interpretazione leviana del tutto calzanti, altri invece, decisamente corrotti dalle influenze yahwehiane a cui lo studioso era soggetto. Nella prima parte del paragrafo sottostate analizzeremo le diverse simbologie insiste nell’illustrazione leviana, nella seconda cercheremo infine di offrire una chiave di lettura differente, prettamente satanica e in linea con la vera essenza dell’Iniziatore Occulto.
Analisi Simbolica del Baphomet leviano
CAPRONE / CAPRA
“L’orrenda testa della bestia esprime l’orrore del peccatore, che agendo materialmente, è l’unico responsabile che dovrà sopportare la punizione, perché l’anima è insensibile secondo la sua natura e può solo soffrire nel momento in cui si materializza”.
Questo è quanto ci dice sul caprone quello che viene ricordato come uno degli esoteristi più influenti della storia moderna... Che bello!
Ironia a parte, aldilà di questi commenti da isteria medievale sul caprone e i chiari riferimenti al rito ebraico dello Yom Kippur, trovo abbastanza discutibile attribuire esclusivamente al corpo la capacità di soffrire. Al contrario sono dell’idea che sia proprio l’anima a renderci capaci di provare dolore, sentimento ed empatia e non a caso, anche nel gergo popolare, si usa dire che coloro sprovvisti di sfera emotiva siano per l’appunto “senz’anima”. Credo che la sofferenza fisica sia prerogativa del corpo, ma che indubbiamente esista anche una sofferenza dell’anima che può manifestarsi aldilà della propria incarnazione. Non si dovrebbe confondere la sensazione con l’emozione. Ora però vediamo di analizzare meglio la simbologia del capro, riconferendo a questo antico animale di potere la sua meritata dignità.
Quando si parla del capro, il primo riferimento che salta alla mente è senza dubbio il caprone di Mendes. Sul delta del Nilo sorgeva la città di Mendes, capoluogo del sedicesimo nomo [distretto] del Basso Egitto, il cui dio locale era il grande Khnum, la divinità dal volto di ariete. In seguito i Greci assimileranno questo dio con il loro Pan, identificando così l’ariete nel capro. Credo che questo dettaglio sia abbastanza rilevante, dato che spesso al caprone vengono attribuite simbolicamente quelle prerogative che invero apparterrebbero all’ariete, come appunto la vitalità, il vigore sessuale e l’impetuosità della violenza. Anche astrologicamente l’ariete è connesso alla primavera, stagione che contraddistingue la natura di molte divinità maschili agresti. L’ariete simboleggia l’aspetto virile e marziale della realtà, la veemenza brutale e allo stesso tempo indispensabile alla vita. Khnum era infatti il Dio Creatore, il Signore dell’Uovo Cosmico, il grande Vasaio che secondo il mito diede vita all’uomo per mezzo dell’argilla. Curiosamente allo stesso modo veniva definita anche la primordiale dea sumero-babilonese Aruru, la quale era considerata creatrice dell’essere umano ed era chiamata “la Grande Vasaia”. I vasi non vi ricordano niente? Ne abbiamo lungamente parlato nel paragrafo sulla Testa di Osiride conservata nella città di Abydos, città dei vasi, e nell’approfondimento sul sigillo di Satana.
La leggenda del capro di Mendes narra di come bellissime vestali si unissero carnalmente al grande Caprone, intrattenendosi con Lui in veri e propri riti orgiastici. In verità non esistono prove storiche ufficiali che attestino la reale pratica di certi rituali e molti sono gli studiosi inclini a credere che tale mito sia dovuto semplicemente ad un parallelo fra Khnum e il greco Pan. Tuttavia ritualità simili non sarebbero poi così insolite: il misticismo egiziano non era estraneo alla magia sessuale e lo stesso Khnum era un dio della fertilità. Discutendo però con il Satanista Kahibit, studioso di egittologia, mi portò all’attenzione un’altra divinità meno conosciuta adorata a Mendes, ossia Banebdjedet, un dio dal volto criocefalo. Il suo aspetto arietino del tutto simile a Khnum rende difficile comprendere se fossero divinità distinte o se invece fossero la stessa con nomi differenti. Sta di fatto che il culto di Banebdjedet era specifico di Mendes, mentre quello di Khnum era più diffuso nell’Alto Egitto, in città come Esna ed Elephantina. Occorre però ricordare che il termine “montone” in Egitto era pronunciato allo stesso modo della parola “anima” o “manifestazione”, intesa come avatara, dunque spesso l’ariete era visto come un’incarnazione della divinità solari. Fra gli Dei associati a Banebdjedet troviamo per altro niente meno che il nostro Osiride, del quale, nell’antico testo egizio Il Libro della Vacca del Cielo, si dice che “il ba di Osiride è il montone di Mendes”, ossia che Osiride si è manifestato nel montone di Mendes. Da notare anche la rilevanza del potere sessuale conferito al Dio Banebdjedet, definito anche come “Il Signore del Piacere Sessuale”. Una stele rinvenuta in una cappella del complesso Ramesseum ci informa che il Dio Ptah-Tatenem prese la forma di montone per ingravidare una donna mortale, generando il faraone Ramesses III. Consorte di Banebdjedet è la dea Hatmehit, il cui nome significa “Prima fra i Pesci”, divinità rappresentata con coda di pesce e talvolta con un copricapo ittico. Hatmehit era la divinità originale di Mendes, anche se in seguito il culto solare del dio-ariete prese il sopravvento. La Dea Hatmehit rappresenta un importante dettaglio su cui fra poco torneremo.
Questo è quanto si può trovare riguardo al caprone di Mendes, che come abbiamo detto forse sarebbe più corretto ricollegare all’ariete piuttosto che al capro, seppur la rappresentazione iconografica e simbolica dei due animali sia nei fatti abbastanza simile. Ben altra storia è invece quella che possiamo ricostruire seguendo le impronte della capra, animale totemico rintracciabile in moltissime tradizioni.
Uno dei miti classici più noti connessi a questo animale è sicuramente quello di Amaltea, la capra che allattò Zeus infante. Quando la capretta morì, Zeus come ricompensa la pose in alto nei cieli, formando la costellazione dell’Auriga. Dalle sue corna ne ricavò la cornucopia, il corno dell’abbondanza, e con la sua pelle creò l’egida, il celebre scudo di Zeus e Atena. La capra ha dunque il ruolo di madre e nutrice, attributo che ritroviamo anche fra le leggende dell’India antica, dove era considerata la “madre del mondo”. Stesso richiamo lo ritroviamo nella religione norrena, dove la grande capra Heidrum nel Valhalla allatta gli eroi defunti con l’idromele che ella stessa produce. Sempre restando in ambito norreno, le due capre Tanngrisnir e Tanngnjóstr trainano il carro di Thor, dio della guerra e del tuono. Nei paesi scandinavi la capra ha sempre avuto una grande rilevanza, basti pensare ad esempio a Joulupukki, la capra di Yule, [Natale Pagano] la quale era attesa da tutti i bambini poiché in quella notte portava doni e spesso un membro della famiglia si travestiva proprio da capra per esercitare questa funzione, da cui poi è derivato il più moderno Babbo Natale. Tradizione molto simile la ritroviamo anche presso gli Slavi, dove durante il Koliada [una sorta di Yule slavo] la divinità Devac era rappresentata come una grande capra bianca. Nonostante poi il Cristianesimo abbia preso il sopravvento, tuttora in alcuni paesi del Nord e dell’Est Europa è usanza inserire una capretta di paglia fra le decorazioni natalizie.
Il legame fra la capra e lo Yule non può che non portarci al solstizio d’inverno, governato da Saturno e dal segno del Capricorno. E proprio questa creatura per metà capro e per metà pesce sarà al centro della nostra attenzione. Le origini del Capricorno vengono fatte risalire al dio accadico Ea, che secondo molti studiosi corrisponderebbe al sumero Enki, il cui animale sacro era proprio la capra. I sacerdoti babilonesi solevano indossare pelli di capra come vesti talari e lo stesso facevano le donne libiche, seguaci di Atena Tritogenia. Il Capricorno era dunque una rappresentazione simbolica di Ea/Enki ma credo che forse sarebbe ancora più corretto accostarlo agli Oannes. Sul Capricorno comunque torneremo più avanti, nel paragrafo in cui esporrò una personale revisione del Baphomet leviano.
Per continuare con la nostra capra, possiamo asserire che è un animale diffusamente connesso al femminino sacro, così come il montone/caprone è un archetipo della potenza virile. La capra, e più genericamente gli animali dotati di corna, son sempre stati considerati attributi della Dea Madre, data l’analogia simbolica fra le corna e la falce lunare posta sul capo della Signora. Nell’antichissima religione indù, ad esempio, è adorata la Dea Meldi Maa, la quale con Tridente in mano cavalca una capra nera. Tornando poi nel mondo greco, dobbiamo inoltre ricordare che la capra era sacra a Dioniso, mentre nel mondo romano grande era il legame fra questo animale e la magnifica dea Giunone. La relazione fra capra e Giunone risalirebbe però ad un’origine ancora più antica, ossia alla sua equivalente etrusca, Uni, dea suprema del pantheon. Come potete osservare nell’immagine a destra, Uni era rappresentata con un volto caprino tipicamente bafometico.
Se ricordate abbiamo già incontrato Uni e Giunone all’interno di questo scritto, accennando alla Triade Capitolina. Uni-Juno era onorata come dea della vita e della morte, nei suoi aspetti erotici e thanatici, una dea associata anche a Janua/Janus, Divinità delle Porte. È molto probabile che Uni-Juno fosse concretamente un altro nome di Janua, infatti anch’Ella veniva chiamata “la Porta” e patrocinava sul calendario, sui cicli e sul principio e fine di ogni cosa. Juno vestiva con pelli di capra ed era sia dea dell’amore che dea della guerra. In onore di Juno a Roma si tenevano ogni anno le Caprotinia, festività in cui si celebravano strani rituali di fertilità, dove le donne si colpivano con delle verghe per favorire la propria fecondità. Una cosa molto simile per altro accadeva anche nel Lupercale, ricorrenza in cui gli uomini, vestiti con pelle di capra, colpivano simbolicamente le donne al fine di renderle fertili. Tale stramba tradizione nasce da un mito probabilmente male interpretato dai Romani: Ovidio narra che ai tempi di Romolo ci fu un periodo in cui le donne romane avevano problemi di sterilità, così alcuni Romani si recarono nel sacro bosco di Juno e chiesero una soluzione alla Signora. Ella rispose che se le donne romane si fossero fatte penetrare da un caprone sarebbero tornate fertili. Il messaggio fu decisamente travisato, dato che da quel giorno, ad ogni Lupercale, gli uomini cominciarono a tagliare lembi di pelle di capra con cui vergare le proprie donne!
Ultima curiosità su questo magnifico animale va fatta risalire direttamente al suo nome, da cui etimologicamente deriva anche il termine chimera, ovverosia dal greco khímaira. La chimera era una creatura mitologica composta di una testa caprina, il corpo di leone e la coda di drago o serpente. Animali come il leone e il serpente li abbiamo già trovati in Samael, Aion e Phanes, ma possiamo ritrovarli anche in Ishtar-Lilith, in Sekhmet e nella stessa Juno, dove oltre alla capra troviamo anche il serpente, come ci rivelano alcune rappresentazioni in cui un serpente le esce da sotto la veste. La chimera è una creatura ibrida, essa come il Capricorno rappresenta l’unione di più mondi, concetto importantissimo che avremo modo di approfondire meglio più avanti.
PENTAGRAMMA
Levi nella descrizione del Baphomet sul frontespizio, del pentagramma scrive:
“La capra sul frontespizio porta il segno del pentagramma sulla fronte, con una punta in alto, simbolo di luce”.
Poi sempre nel suo Dogma e Rituale dell'Alta Magia continua:
“L'impero della volontà sulla luce astrale, che è l'anima fisica dei quattro elementi, è rappresentato nella magia dal pentagramma, che abbiamo posto alla testa di questo capitolo. Gli spiriti elementari sono sottomessi a questo segno quando viene impiegato con comprensione e posizionandolo nel cerchio o sul tavolo delle evocazioni può renderli trattabili, poiché è chiamato magicamente per imprigionarli. (…) Il Pentagramma esprime il dominio dello spirito sugli elementi; è con questo segno che si incatenano i demoni dell'aria, gli spiriti del fuoco, gli spettri dell'acqua e i fantasmi della terra. Armato di questo segno e opportunamente disposto, potrai vedere l'infinito, attraverso alla facoltà che si chiama occhio dell'anima, e farti servire dalle legioni degli angeli e dalle colonie dei demoni.”
Ancora una volta resto basita di fronte alla superstiziosità di colui che è tuttora considerato una pietra miliare dell’Esoterismo occidentale, ma forse prima o poi riuscirò a farmene una ragione. Senza contare che trovo raggelante la totale assenza di etica dei maghi Giudeo-Cristiani, sempre pronti a sputare sui Demoni e sugli Spiriti ma non perdendo mai occasione per tentare di imprigionarli e sfruttarli. L’opportunismo spirituale a fini materialistici non è però una creazione leviana, semmai soltanto un’eredità ricevuta probabilmente dal suo maestro di cabala e mistica ebraica. Ben altra cosa è invece l’annosa questione del verso del pentagramma, poiché proprio a Levi và il “merito” di aver introdotto la becera convinzione secondo cui il pentagramma dritto sarebbe un emblema del bene, mentre se rovesciato un’insegna del male. Questo perché il pentagramma con la punta rivolta verso l’alto richiamerebbe la figura umanoide, l’Uomo Vitruviano di Leonardo, mentre con la punta verso il basso diventerebbe per magia un malvagissimo caprone. E sebbene io sia del tutto ben disposta verso il capro, trovo certe associazioni pura pareidolia. Insomma, allora perché il pentagramma dritto non potrebbe essere dunque un caprone che guarda verso l’alto? O perché non può essere una stella di mare? E a punta in giù non potrebbe essere un gatto dai baffi spioventi? O magari, che so, un uomo senza testa e con un grosso fallo? Mi si perdoni l’ironia “baubesca” ma è per far comprendere che sulla base del “cosa sembra”, allora potrebbe essere davvero qualunque cosa a seconda dell’occhio di chi guarda. Le ragioni del porre la punta verso l’alto o verso il basso sono puramente energetiche, dato che in Magia tutto si fonda appunto sui flussi energetici e non certo su moralismi faziosi. La punta verso l’alto proietta l’energia verso l’alto, quindi verso il Cielo o, ancora meglio, verso l’Esterno, mentre la punta verso il basso orienta l’energia verso la Terra o, come son portata a credere, verso l’Interno. Sono dunque due posizionamenti scevri da dicotomie morali, l’unica differenza è dettata semplicemente dal tipo di lavoro magico che intendiamo eseguire. Il pentacolo dritto è più adatto a operazioni espansive/elettriche, quello rovesciato a operazioni attrattive/magnetiche.
Proseguendo la nostra analisi del pentagramma, come prima cosa è bene sottolineare che spesso i termini pentacolo e pentagramma vengono usati come sinonimi, quando invece non sempre è così. Per capire la reale differenza fra i due ci basterà osservare meglio la loro etimologia. Pentagramma deriva dal greco pente, “cinque”, e gramma, “lettera”, a sua volta derivante da graphma, origine di vocaboli come “grafia”, indicando dunque il segno, l’incisione. Di conseguenza pentagramma significa semplicemente “cinque segni”, inteso come cinque linee incise, disegnate. Il termine pentacolo, invece, non deriva dal cinque come la parola effettivamente c’induce a credere: se fosse connesso al cinque, allora deriverebbe dal latino penta, “cinque”, più culum, “strumento”. L’etimo latina sarebbe sicuramente una possibilità attendibile, ma nei fatti si rivela inesatta, dato che lo stesso Levi in Dogma e Rituale dell’Alta Magia usa il termine pentacolo anche per descrivere effigi diverse dal pentagramma, come ad esempio un amuleto a forma di Tridente. Questo perché è probabile che la reale etimologia di pentacolo derivi dal termine francese antico pentacol, unione di pendre, “pendere”, e cou, “collo”. Ecco quindi che pentacolo diventa “appeso al collo”, che “pende dal collo”, dato che era uso comune portare amuleti e talismani come collane. Da ciò ne possiamo evincere che il pentagramma può essere un pentacolo ma non sempre un pentacolo è solo e soltanto un pentagramma. Ecco dunque che il termine pentagramma diviene il più corretto qualora si stia parlando del pentagono regolare stellato.
Come abbiamo visto, a livello magico il pentagramma varia la sua direzione solo per ragioni puramente tecniche, mentre per quanto concerne la simbologia il significato è ben più profondo e affonda le sue radici nella storia. La prima apparizione accertata del pentagramma viene fatta risalire fra il 4000 e il 3500 a.e.v, in Mesopotamia, dove Caldei e Babilonesi solevano inserirlo come ornamento sacro su ceramiche e manufatti. Stessa cosa accadeva presso gli Etruschi, anch’essi avvezzi a incidere il pentagramma nelle proprie opere vasali. A far penetrare davvero il pentagramma nell’Esoterismo occidentale fu però Pitagora di Samo, filosofo e matematico greco che seppe tessere un pensiero capace di integrare logica e spiritualità. È risaputo l’amore dei Pitagorici per i numeri, ai quali attribuivano il potere della creazione, fondata su di un’armonia perfetta di cui il pentagramma era emblema. La stella a cinque punte era il simbolo di riconoscimento fra Pitagorici e in seguito venne usato allo stesso modo anche dai primi Cristiani. Questi ultimi non furono però gli unici a emulare i Pitagorici, anche gli stessi Ebrei attinsero molto dal Pitagorismo per l’elaborazione della propria Cabala, in parte già costruita sulla base della più antica Cabala egizia e caldea. Purtroppo nella mistica Giudeo-Cristiana non esiste mai niente di realmente nuovo, se non appunto la corruzione delle tradizioni originali da cui hanno rubato.
Il pentagramma veniva considerato dai Pitagorici come un simbolo di perfezione, sia per il valore intrinseco nel numero cinque, sia per il fatto che tale figura si formasse grazie ad un'unica linea continua e intrecciata. Nella geometria sacra il pentagramma è un simbolo di assoluta perfezione, dato che ogni diagonale s’interseca all’altra tagliandola in due segmenti, la cui proporzione corrispondeva esattamente a Phi, ossia il Numero d’Oro della sezione aurea, 1,618. Questa proporzione la troviamo spesso in natura e l’istintuale mimesi dell’opera divina ha portato molti uomini illuminati a creare forme d’arte e d’architettura contenenti la stessa sacra armonia. Anche il rettangolo aureo di Iside, di cui abbiamo accennato nel paragrafo sulle etimologie, è legato al numero Phi. A rilevare la presenza del Phi nel pentagramma fu Ippaso di Metaponto, uno dei personaggi più illustri della scuola pitagorica. Questo però portò ad uno sconvolgimento degli equilibri all’interno della stessa fratellanza, dato che la scoperta dei numeri irrazionali metteva in discussione il dogma pitagorico riguardo al fatto che l’intero universo fosse governato da numeri interi. O almeno questa è l’opinione di Kurt von Fritz, dato che secondo altri studiosi la scoperta dell’incommensurabilità avvenne invece durante lo studio fra lato e diagonale del quadrato. Purtroppo molte vicende e scoperte legate ai Pitagorici son destinate a restare nel mistero, giacché gli aderenti preferivano la tradizione orale a quella scritta. Resta comunque indubbio che per Pitagora e i suoi discepoli il pentagramma era un simbolo d’immenso potere.
Fra i vari nomi del pentagramma, quali ad esempio “piede dell’incubo”, “croce druida” e “orma della strega”, troviamo anche “signum pitagorico”, “signum Igea” e “signum salutis”, tutti appellativi derivanti dalla tradizione pitagorica, la quale riconosceva al pentagramma, non solo un segno distintivo della fratellanza, ma anche un auspicio di buona salute. La ragione di ciò stava nell’armonia stessa insita nel pentagramma, nella sua proporzione divina capace di garantire all’essere umano una mente sana in un corpo sano. Potremmo dire che, in una sorta di magia simpatetica, l’equilibrio armonico del pentagramma avrebbe innescato anche l’equilibrio fisico e mentale di chi lo portava. Igea, chiamata dai Romani Salus, era la dea della salute, figlia del dio della medicina Esculapio. Igea/Salus però, a differenza del Padre, non rappresentava semplicemente “la cura”, Lei era semmai la “prevenzione”, Colei che ispirava ad una vita sana, la dea che incoraggiava l’essere umano ad aver cura della propria anima e del proprio corpo. Dettaglio che mi colpisce particolarmente è poi il simbolo stesso della dea: se il dio Esculapio ha come emblema una verga con un serpente avviluppato, in quello di Igea/Salus il serpente avvolge una coppa. La verga e il calice sono rappresentazioni degli attributi sessuali maschili e femminili. Nell’immagine della verga si vuole racchiudere la forza virile, ignea ed espansiva, l’energia propagante, esteriore, e dunque connessa al corpo. Al contrario il calice nella sua essenza femminile, acquea e attrattiva ci comunica interiorità, e quindi psiche, anima. Questo secondo me potrebbe ricollegarsi opportunamente ai diversi ruoli medici di Esculapio e Igea, l’uno Signore della guarigione dei mali del corpo e l’altra Signora della guarigione dei mali interiori, rei spesso di generare la malattia stessa. [Per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio l’articolo La Scienza di Satana.
In Magia il pentagramma è tradizionalmente connesso agli elementi terra, aria, fuoco, acqua ed etere, concetto reso popolare dall'occultista Heinrich Cornelius Agrippa in una sua nota opera del 1530, De Occulta Philosophia. Agrippa però, oltre a connettere il pentagramma ai cinque elementi naturali definiti dalla scuola neoplatonica, lo associò anche ai pianeti. Egli, come potete vedere nell’immagine, iscrisse la figura dell’essere umano dentro il pentagramma e unì i vertici della stella ai simboli di Saturno, Venere, Giove, Mercurio e Marte, inserendo il sole nell’addome, probabilmente in corrispondenza del plesso solare, e la luna in prossimità dei genitali. Un altro pentagramma tratto dal libro di Agrippa è quello di γιεια, Igea, chiaro riferimento al pentagramma pitagorico. La scritta all’interno dei cerchi è il nome Igea, augurio di buona salute, e come si può notare la stella era capovolta e senza nessun connotato negativo.
Nel XIX secolo il pentagramma divenne ancora più popolare grazie a Eliphas Levi, cessando di essere un segno esoterico per divenire invece un segno essoterico. La prima iscrizione di un capro dentro il pentagramma è però attribuita all'occultista francese Stanislas De Guaita, il quale lo disegnò nella sua opera del 1897, La Clef de la Magie Noire, ispirato chiaramente al Baphomet di Levi, e che come abbiamo visto ispirò a sua volta il Baphomet di Anton Lavey. Anche la Massoneria farà proprio il simbolo del pentagramma, col nome di Stella Fiammeggiante. Il pentagramma massonico prevede però l’aggiunta di raggi luminosi agli angoli e una G al centro della stella, la quale rappresenta il fuoco mentale. Come scrisse Guillemai de Saint Victor, “La Stella Fiammeggiante è il centro da cui s’irradia la vera luce”.
Seguire con precisione il percorso storico del pentagramma non è semplice, di questo simbolo se ne trovano tracce in tutto il mondo e in ogni epoca. Utilizzato come simbolo di riconoscimento nelle fratellanze, come amuleto per proteggersi da energie negative o come talismano per attrarne di benefiche. Nel Nord Europa e nella regione Alpina il pentagramma aveva una funzione apotropaica e veniva spesso inciso sul legno di porte, soglie e travi. Oggi l’occultismo moderno attribuisce al pentagramma una grande importanza, sia da un punto di vista magico che simbolico. Il pentagramma viene utilizzato soprattutto come emblema delle forze governanti il mondo fenomenico, i quattro elementi naturali connessi alla terra, all’acqua, all’aria e al fuoco, uniti insieme a formare un quinto elemento capace di trascendere la materia, ossia l’etere, l’akasha, la quintessenza, quell’energia da cui tutto sorge e che la moderna fisica probabilmente definirebbe “bosone di Higgs”. In ambito evocativo il pentagramma è utilizzato anche per chiamare a sé entità benefiche o entità malefiche, sempre secondo la falsa credenza che l’orientamento della punta determinerà la natura dello spirito. A tal proposito Levi scrive:
“Il Pentagramma con due punte nell'ascendente rappresenta Satana come la capra del Sabbath; quando un punto è nell'ascendente, è il segno del Salvatore. Il pentagramma è la figura del corpo umano, con i quattro arti e un unico punto che rappresenta la testa. Una figura umana a testa in giù rappresenta naturalmente un demone che è sovversione intellettuale, disordine o follia”.
Tralasciando il feroce antisatanismo che impregna l’intera opera di Levi, in questa affermazione possiamo comunque trovare qualcosa di interessante. Levi ci ricorda l’analogia fra pentagramma e figura umana, asserendo che: “la figura umana a testa in giù rappresenta naturalmente un demone”. Questa frase mi trova perfettamente d’accordo: un uomo a testa in giù rappresenta certamente un Demone, giacché tale immagine riporta alla Caduta. I Demoni sono anime divine che hanno scelto di Discendere verso l’uomo al fine d’innalzarlo. Allo stesso modo Demone è quell’Ente che si pone come ponte fra la materia e il divino, divenendo Egli stesso soglia per lasciarsi attraversare. Ma Demone è anche quell’essere umano capace di discendere a sua volta nel suo processo iniziatico, per poi Ascendere attraverso la Porta degli Dei, il varco saturnale. Secondo questa chiave di lettura, non credo che vi sarà dunque difficile guardare all’uomo capovolto del pentagramma rovesciato come all’Iniziato che discende nel suo Abisso, l’eroe che con coraggio segue la Via Sinistra, una via pericolosa, oscura ma anche salvifica. Ogni Sole per raggiungere la propria Alba deve sempre camminare verso sinistra, nel buio, sotto la terra. Il pentagramma rovesciato può pertanto ricordare anche l’Appeso, il Dodicesimo Arcano, l’ordalia chiamata vita e che portò Odino alla consapevolezza. Il pentagramma rovesciato è dunque sicuramente un simbolo satanico, ma altrettanto sicuro è che non sia un simbolo negativo, o forse sarebbe più corretto dire che si rivela negativo soltanto per i deboli, i pavidi, gli indolenti e gli sciocchi. Per queste categorie di persone la via mostrata dal pentagramma satanico è certamente negativa, incomprensibile e talvolta persino letale.
TORCIA
Secondo Levi la fiamma nella sua illustrazione rappresenterebbe:
“La fiamma di intelligenza brillante tra le corna è la luce magica dell’equilibrio universale, l’immagine dell’anima elevata sopra la materia, come la fiamma, pur essendo legato alla materia, brilla sopra di essa”.
Da questa frase comprendiamo che per l’esoterista francese probabilmente non esiste differenza fra anima e mente. Inizialmente parla dell’intelligenza brillante e un attimo dopo dell’anima che si eleva sopra la materia. Una visione lecita ma che sinceramente non condivido troppo, poiché ritengo che mente e anima siano aspetti differenti della nostra monade interiore, sebbene complementari e parti di una stessa coscienza. In ogni caso, aldilà delle diverse concezioni, credo che utilizzare la fiamma come allegoria ermetica dell’illuminazione sia del tutto appropriato e data la posizione, in corrispondenza della testa, sarei incline a interpretarla come il fuoco mentale che immagina e genera. Altra possibilità, sempre sulla base della posizione, è che essa possa raffigurare l’ascensione della Kundalini, il Serpente di Fuoco che alberga in Muladhara e che con la giusta stimolazione può risalire lungo Sushumna e fuoriuscire dalla sommità del capo.
Altra riflessione sulla fiamma del Baphomet è che possa correlarsi anche all’ureo egizio, il cobra posto sulla testa di molti faraoni. L’ureo rappresenterebbe la dea Wadjet, detta anche “Signora della Fiamma” e rappresentata come un cobra o come una Donna-Serpente. In altre rappresentazioni questa dea era invece raffigurata come una donna con volto felino, il cui capo era sormontato dall’ureo, cosa che ha indotto gli storici a ipotizzare un collegamento fra Bastet/Sekhmet e l’antica Wadjet. Simbolo della dea, oltre al serpente, era il disco solare. Coincidenza vuole che Wadjet fosse anche chiamata Uto, nome che ricorda il dio sumero Utu, [corrispondente all’accadico Samas] e anch’Egli aveva come simbolo proprio il disco solare. L’ureo era preposto alla protezione del faraone, del sole, di tutto ciò che era sacro, e spesso poteva aprire la sua bocca per lanciare fiamme sui nemici. Wedjet, oltre ad essere incarnazione dell’ureo, era anche la personificazione dell’Occhio di Ra, l’occhio divino che tutto vede.
A tal proposito voglio proporvi una bizzarra ipotesi che mi auguro possa farvi riflettere. Ho sempre osservato il sole come la rappresentazione visibile della luce divina, la luce dell’anima che vive anche dentro molti di noi. Il fuoco, invece - pensiero condiviso anche dai miei cari Sciti - è l’emanazione terrena di quella luce, un riflesso materiale del sole divino. Per chiarire meglio ciò che intendo potrei avvalermi della metessi, concetto platonico fondato sul rapporto che intercorre fra mondo delle idee e mondo fenomenico, dove ogni cosa terrena conserva l’impronta della matrice ideale di cui è immagine. Ecco, si potrebbe dunque pensare al sole come alla manifestazione fenomenica dell’idea del divino, qualcosa di ideale ed elevato che nel mondo sensibile si reifica infine nel fuoco. Non è un caso se gli Sciti avessero tanto a cuore il proprio focolare, prestando sempre giuramenti davanti al fuoco e avendo cura della fiamma quasi come se fosse un rito. Allo stesso modo troviamo tracce nelle cultura romana di vestali preposte a custodire la fiamma sacra nei templi della Signora.
Ecco dunque che il legame fra Wadjet e “l’Occhio del Sole” prende nella mia mente un significato ben più profondo e riconducibile all’essenza bafometica. Una volta Satana mi mostrò che “condividevamo gli occhi” e che come potevo vedere nel Mundus attraverso i Suoi occhi, così poteva vedere nella Terra attraverso i miei. Questo non è dissimile da ciò che è accaduto anche alla “Prima fra i Pesci”, Colei che discese nella carne per stare fra gli uomini, un Sole che si fece Fuoco per Iniziare i degni a quello stesso fuoco. Ed è allora che Ella diviene l’Occhio Sacro, l’Occhio del Sole che permette al divino di scrutare in questo mondo, per insegnare, per innalzare, e per vedere e ricordare ogni volto nel giorno oltre i giorni. Questa concezione può estendersi anche a tutto il Clade Satanico: quando un autentico Erede di Satana osserva qualcosa o qualcuno, allora anche Satana può vedere quel qualcosa o qualcuno. Più il sangue dell’Erede è vicino all’originaria linea di sangue dei primi Discesi, più la sua connessione sarà forte.
La torcia è anche il simbolo di diversi eroi e divinità del mondo antico, sebbene vengano raffigurati mentre la tengono in mano piuttosto che sulla testa. L’esempio più celebre e sicuramente quello di Prometeo, il quale rubò il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini. Prometeo viene punito per aver dato la Conoscenza all’uomo, proprio come accade al Serpente della genesi biblica. Mito ancora più antico, da cui probabilmente deriva anche quello prometeico, è quello di Ishtar che sottrae i Me ad Enki per donargli agli abitanti di Uruk, suoi protetti. I Me erano le fondamenta stessa della civiltà, i poteri che regolavano l’etica, le pratiche religiose, le arti, la tradizione, in definitiva ogni sapienza, ogni potere utile all’evoluzione dell’essere umano. Mito simile lo troviamo presso i nativi americani, i quali ritenevano che fosse stato il trickster Raven, il Grande Corvo, a donare la luce agli esseri umani.
Kwekwaxawe inizialmente era un corvo bianco e osservava gli uomini vivere nel buio e nel gelo. La grande Aquila Grigia non sopportava gli uomini, chiassosi e turbolenti, così teneva per sé il sole, la luna, le stelle, le acque dolci e il fuoco. Un giorno però Kwek s’innamorò della figlia di Aquila Grigia e così, quando fece visita alla loro dimora, il Corvo ne approfittò per rubare tutti quei doni e li diffuse sulla Terra. Pose il sole in alto nel cielo e attese il tramonto per porvi anche la luna e le stelle, affinché l’uomo non dovesse più vivere nelle tenebre. Fece discendere dai monti le acque dolci per dissetare gli uomini e donò loro il fuoco per scaldarsi. A causa del suo immenso dono, il Raven fu punito ed è proprio per questo che oggi il corvo non è più bianco ma nero, come pegno del suo sacrificio d’amore verso l’umanità. Come si può notare in ognuno di questi miti troviamo una costante comune: una divinità o un eroe che per amore offre Luce all’essere umano e che per questo viene punito da altri Dei. Lucifero, oggigiorno visto come malvagio, in realtà è sempre stato il Portatore di Luce, bistrattato semmai in seguito dai seguaci “dell’Aquila Grigia”!
Altra divinità da sempre connessa alla fiaccola è poi senza dubbio la magna Ecate, eccelsa Signora dell’Oltretomba e della Scienza Magica. Ecate rappresenta l’aspetto più oscuro della Mater, Ella esprime la sua essenza nella luna calante, nella morte come preludio della trasformazione. In antichità era molto amata e temuta. Il suo animale sacro è il cane e un branco di cani ululanti la segue ovunque Lei vada. Ecate è detta anche Propylaia, poiché Ella - come Janus/Janua - presiedeva sulle Porte. Questa dea ha una funzione psicopompa per l’Iniziato, ossia è capace di viaggiare fra i Mondi e può portare i suoi protetti con sé, mostrandogli gli orrori e le meraviglie che essi custodiscono dentro se stessi. Proprio per questo suo ruolo ad Ecate erano consacrati gli incroci, in particolare i trivi. Era infatti comune trovare nei passaggi e nei crocicchi delle edicole votive in suo onore e spesso anche davanti alle porte delle abitazioni. Ecate veniva spesso rappresentata con una fiaccola illuminata tenuta in alto, esattamente come la ben nota Statua della Libertà americana. Perché la Signora, nonostante la sua oscurità, è anche la Portatrice di Luce, Colei che accompagna nelle Tenebre per illuminarci il Cammino. Inoltre, Ecate era una Maestra delle Arti Occulte e proprio per questo è sempre stata patrona delle streghe e degli stregoni. Allo stesso modo, sempre con fiaccola in mano, troviamo Diana Lucifera, letteralmente “Portatrice di Luce”. Diana era Signora del giorno, della purezza, della selva e degli animali selvatici. Potremmo dire che laddove Ecate rappresenta Colei che accompagna durante la Discesa, Diana Lucifera è invece chi accoglie l’Iniziato durante la sua Ascensione. Per il grande significato simbolico conferito alla torcia e alla fiamma, non posso in alcun modo che trovare più che appropriata la sua presenza nel Baphomet leviano.
BRACCIA E MANI
La posizione delle braccia del Baphomet di Levi si rifà al principio ermetico del “come in alto così in basso”, citato nella celeberrima Tavola Smeraldina ritrovata in Egitto e attribuita ad Ermete Trismegisto. Analizziamone il testo:
“È vero senza menzogna, certo e verissimo, che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli di una sola cosa. E poiché tutte le cose sono e provengono da una sola, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. Il Sole è suo padre, la Luna è sua madre, il Vento l'ha portata nel suo grembo, la Terra è la sua nutrice. Il padre di tutto, il fine di tutto il mondo è qui. La sua forza o potenza è intera se essa è convertita in terra. Separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso dolcemente e con grande ingegno. Sale dalla Terra al Cielo e nuovamente discende in Terra e riceve la forza delle cose superiori e inferiori. Con questo mezzo avrai la gloria di tutto il mondo e per mezzo di ciò l'oscurità fuggirà da te. Questa è la forte fortezza di ogni forza: perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida. Così è stato creato il mondo. Da ciò deriveranno meravigliosi adattamenti, il cui metodo è qui. È perciò che sono stato chiamato Ermete Trismegisto, avendo le tre parti della filosofia di tutto il mondo. Completo è quello che ho detto dell'operazione del Sole”.
Sulla Tavola di Smeraldo storici ed esoteristi hanno speso fiumi di parole, pertanto mi limiterò a esprimere i pensieri che hanno riempito la mia mente la prima volta che l’ho letta.
“È vero senza menzogna, certo e verissimo, che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli di una sola cosa”.
Nella prima parte Trismegisto fa un parallelo fra “alto e basso” e credo che un concetto simile non si presti a troppe interpretazioni; è chiaro che si rifà al principio per cui tutte le dinamiche e le strutture attive di un piccolo sistema sono le medesime che possiamo ritrovare in un sistema più grande. Ecco dunque che i meccanismi del mondo superiore, tradizionalmente associato al divino, sono dunque gli stessi di quelli del mondo terreno/inferiore, sebbene proporzionati alle differenti frequenze costitutive.
“E poiché tutte le cose sono e provengono da una sola, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento”.
In questo passo presumo vi sia un riferimento alla sostanza eterica da cui derivano tutte le cose, l’essenza primeva che contiene in sé tutto gli elementi, divenendo a sua volta un elemento a se stante. Questa energia ancestrale la possiamo rintracciare nella Quintessenza, dove l’unione dei quattro elementi primordiali, aria, fuoco, acqua e terra, crea a sua volta un quinto elemento, da cui nei fatti essi stessi son stati creati. Ugualmente potremmo fare lo stesso ragionamento con i colori, dove il bianco si rivela l’unione e il principio di tutti le sfumature dell’arcobaleno. Quindi con questo esempio non vi sarà difficile comprendere come tutte le cose derivino da una sola, create per mezzo della stessa e capaci, se unite, di rigenerale a loro volta.
“Il Sole è suo padre, la Luna è sua madre, il Vento l'ha portata nel suo grembo, la Terra è la sua nutrice. Il padre di tutto, il fine di tutto il mondo è qui”.
La prima cosa che potremmo supporre è che il sole rappresenti l’elemento più puro e pregno di essenza divina, ossia il fuoco, la luna potrebbe rappresentare l’acqua, il vento l’aria e la terra ovviamente l’elemento terreo. Il sole-igneo potrebbe essere anche un riferimento al calore-secco, così come la luna-acquea si potrebbe ricollegare al freddo-umido. Oltre a queste prime associazioni apparentemente banali si potrebbe tener conto del fatto che in Alchimia il sole è connesso all’oro, la luna all’argento, il vento al mercurio e la terra allo zolfo. Questi due ultimi elementi in particolare collimano con le scritte sulle braccia “Solve et Coagula”.
“La sua forza o potenza è intera se essa è convertita in terra. Separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso dolcemente e con grande ingegno”.
Definire la forza “intera quando è convertita in terra”, suppongo sia un riferimento alla natura della materia, la quale nei fatti potrebbe essere definita idealmente come “energia coagulata”. Se dovessi parlarvi per immagini, vi direi che l’acqua è da intendersi come terrena quando ghiaccia ed eterica quando invece evapora. Esempio obbiettivamente un po’ riduttivo ma che credo possa facilitare la visualizzazione del concetto. Quando Trismegisto c’invita a “separare con ingegno la terra dal fuoco, il sottile dallo spesso”, mi è istintivamente apparsa nella mente la dissociazione elettrolitica. Questo processo chimico consiste nello scindere una molecola nei suoi elementi costitutivi. L’esperimento più noto per comprendere tale meccanismo è l’elettrolisi in acqua, dove l’apporto di energia elettrica scompone le molecole dell’acqua nei suoi singoli atomi di ossigeno e idrogeno. Da ciò potremmo dedurre che, per mezzo di una forte energia maschile-espansiva-dinamica [come appunto l’elettricità] possiamo penetrare un’energia femminile-attrattiva-statica e separare quella materia nei suoi singoli elementi, letteralmente “rompere” quella coesione fra singoli elementi e ricreare così nuove strutture. Non so voi ma a me questo fa pensare davvero a tanti miti cosmogonici, dove una grande energia folgorante penetra nelle sacre acque nere, dove la lama attiva di Indra spezza la staticità rappresentata dall’Eterno Serpente Vrtra. Insomma, il Bagatto che col suo athame trafigge il Caos amorfo del Matto per generare la Dualità e con essa la vita, Un Uroboro che trasmuta per mezzo di un atto violento nel Caduceo. L’innato Sapienziale che diviene Esperienziale, poiché esige di poter esperire se stesso.
“Sale dalla Terra al Cielo e nuovamente discende in Terra e riceve la forza delle cose superiori e inferiori. Con questo mezzo avrai la gloria di tutto il mondo e per mezzo di ciò l'oscurità fuggirà da te. Questa è la forte fortezza di ogni forza: perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida. Così è stato creato il mondo”.
In questa parte finale si parla di qualcosa che sale dalla Terra per poi nuovamente discendere. Ciò mi fa pensare alla Decima Lama dei Tarocchi, la Ruota, dove i due Geni salgono e scendono, accostabili anche al concetto ermetico del Solve et Coagula, dove ciò che “solve” sale e ciò che si “coagula” discende. Allo stesso tempo, però, non appena lessi questo periodo mi è apparsa nella mente l’immagine di una grossa medusa! Mi rendo conto che talvolta certe mie intuizioni possano apparire buffe, però se pensiamo alla medusa “immortale”, la Turritopsis Nutricola, [di cui abbiamo già parlato nel paragrafo sull’etimologia greca di Baphomet, punto 3] il suo transdifferenziamento cellulare ricorda molto questo pensiero ermetico. Questa creatura è in grado di invertire il processo d’invecchiamento, tornando allo stato larvale per poi ricrescere nuovamente. Se in un comune organismo in fase di sviluppo le cellule cominciano a “differenziarsi” - ossia si dividono in differenti tipologie, come cellule muscolari, epiteliali, ecc - la Turritopsis invece, una volta divenuta adulta, attua il processo inverso, ossia “riunisce” le differenti cellule facendole tornare un’essenza amorfa, per poi ricominciare il processo di differenzazione. Sono io troppo fantasiosa o effettivamente questo processo richiama una sorta di Solve et Coagula, un continuo ciclo di salita e discesa? E non è forse lo stesso concetto che possiamo rintracciare nell’elettrolisi che appunto separa una “monade” nelle sue varie componenti? Il bianco che diventa i colori e i colori che tornano a essere il bianco? A ognuno dunque la propria doverosa “ipsazione mentale”, dato che non esiste nulla di più bello che abbandonarsi ai misteri del Sacro!
“È perciò che sono stato chiamato Ermete Trismegisto, avendo le tre parti della filosofia di tutto il mondo. Completo è quello che ho detto dell'operazione del Sole”.
Obbiettivamente il tre ha talmente tanti significati da prestarsi ad ogni interpretazione. Dato però che fino ad ora il testo ermetico ha rivelato molte connessioni con l’Ars Regia, credo sia ipotizzabile pensare alle tre fasi alchemiche - Nigredo, Albedo, Rubedo - ma altrettanto concreta è la possibilità che queste tre parti possano essere il Mercurio, lo Zolfo e il Sale. Questo ci porterebbe di conseguenza alle scritte sulle braccia di Baphomet, Solve et Coagula, motto alchemico che significa “Dissolvi e Unisci”. La Solutio coincide alla fase disgregativa, la dissoluzione, la rottura stessa della monade per separarla nei suoi singoli elementi, volatili e leggeri. Essa corrisponde al Mercurio e tornando all’esempio dell’acqua potremmo paragonarla allo stadio del vapore, quando per mezzo di una grande energia - il calore - i legami fra le particelle si spezzano, generando lo stato gassoso. Allo stesso modo la Coagulatio corrisponde alla fase aggregativa, la reintegrazione, la condensazione. Essa corrisponde allo Zolfo e nell’esempio dell’acqua rappresenta la solidificazione, la trasformazione in ghiaccio, dovuta ad un processo in cui le singole particelle costitutive dell’acqua, anziché separarsi, si avvicinano, compattandosi e generando la materia solida. Il Mercurio è per sua natura leggerezza, volatilità, un’essenza quasi eterica e inafferrabile. Il Mercurio inteso come elemento fisico è fra l’altro uno dei pochissimi metalli che possiamo trovare in condizioni naturali allo stato liquido ed è piuttosto difficile da afferrare, non a caso viene definito “argento vivo” per la sua “vivacità”. Al contrario lo Zolfo è invece l’elemento capace di generare la forma dall’essenza amorfa, attirando le particelle l’una vicina all’altra, appesantendole, materializzandole. Gli alchimisti chiamavano lo Zolfo “fuoco vivo” e sicuramente questa sua prerogativa tipicamente ignea, unita alla sua stessa radice sanscrita “sulvere”, può farlo sembrare più vicino al Solve piuttosto che al Coagula. Ciò che probabilmente ha portato la tradizione a collegare lo Zolfo al principio fissante del Coagula è da imputarsi all’elettronegatività stessa di questo elemento. Lo Zolfo è un non-metallo e in quanto tale è elettronegativo, ossia ha una forte capacità attrattiva, tende a formare legami chimici attraendo a sé gli elettroni piuttosto che cederne, e questo spiega il suo accostamento con la Coagulatio. Il Sale è invece l’elemento che media fra il metallo e il non-metallo, la dissoluzione e la fissazione. Il Sale è elettricamente neutro, un composto ionico formato da un metallo e un non-metallo, rendendo così la sua natura perfettamente in linea con il suo ruolo di intermediario fra lo Zolfo e il Mercurio.
Per quanto riguarda le mani, potrei ipotizzare che la posizione delle dita si rifaccia alla benedizione latina, che consiste proprio nelle prime tre dita alzate. Altra possibilità è che sia un richiamo alla Mano Pantea, altresì detta Mano di Sabazio, divinità correlata a Dioniso/Zagreo e connessa all’Iniziazione Misterica, in quanto figlio di Persefone. Questo gesto indica la trinità divina, ma a mio avviso riguarda anche il tempo. Tre, Trentatre e Trecentotrentatre sono numeri che mi sono apparsi spesso ogni volta che avevo a che fare con Saturno e con le energie saturnali della Mater Obscura, portando spesso strane sincronie legate al Tempo, un Dio perfetto come l’eterno presente. Il tre, soprattutto se ripetuto, trasporta in un abisso in cui diventi Regina, potendo camminare così in ogni direzione. Puoi scoprire molte cose preziose, ammirare la perfezione del Sacro e leggere la storia che tu stesso stai scrivendo e che hai già scritto, rendendoti conto di come il futuro stesso può divenire passato del passato. Tuttavia puoi anche smarrire la tua mente e non distinguere più il fuori dal dentro, la tua identità con quella di ciò che sei stato e di ciò che sarai. Questo numero, unito al buio e all’acqua, può davvero essere molto potente, ma anche difficilmente gestibile.
LUNE
Sulle due mezze lune Levi scrive:
“… Le sue due mani che formano il segno dell’ermetismo, quella rivolta verso l’alto verso la luna bianca di Chesed, l’altra verso il basso in direzione di quella nera di Geburah. Questo segno esprime la perfetta armonia della misericordia con la giustizia”.
Chi ha avuto modo di conoscermi attraverso i miei scritti sa che non sono affatto un’estimatrice del misticismo ebraico, ma in questo caso per onestà intellettuale non potrò esimermi dall’illustrare brevemente la natura di queste due sephirot. Nell’albero della vita cabalistico, Chesed e Geburah rappresentano le prime due sephirot del piano microcosmico, la prima posta al centro del pilastro della Grazia e la seconda al centro del pilastro della Severità. Potremmo dire che Chesed rappresenti il “braccio destro” e Geburah il “braccio sinistro”. Chesed incarna l’amore, la grazia, la misericordia, mentre Geburah è la forza, la restrizione, la severità. Calando però queste due sephirot in un contesto prettamente energetico, potremmo dire che Chesed concreta il principio espansivo, mentre Geburah quello restrittivo. Talvolta viene detto che Chesed possiede la forza dell’attrazione, propriamente venusiana, mentre Geburah la forza oppositiva del marziale. Queste due potenze sono tanto opposte quanto complementari e ben si collocano sul piano della materia, una realtà governata da questi due principi. Tuttavia, se adattiamo questo concetto al principio ermetico espresso dalle braccia di Baphomet - a cui le due sephirot sembrerebbero appunto collegate - è inevitabile pensare che forse non sono le più azzeccate. Chesed e Geburah davvero potrebbero rispondere al principio “Come in Alto così in Basso?” Non sono forse semplicemente la polarità che si manifesta in Eros e Thanatos? Amore e Morte, attrazione e repulsione, espansione e ristrettezza?
Altresì vero è che Chesed, nella sua essenza di Amore assoluto, potrebbe rappresentare anche la luce infinita che, per mezzo di Geburah, muta in una luce finita, dove l’anima può esperire la dualità e con essa riscoprire il senso dell’assoluto. Insomma, letta in questa chiave, il principio di ristrettezza di Geburah, tanto marziale quanto forse saturnale, potrebbe ben adattarsi al “Basso” indicato dal braccio sinistro di Baphomet. La forza oppositiva di Geburah, intesa come la guerra dei sensi tipicamente umana, è la lotta dinamica fra le diverse polarità che, se sperimentate entrambe, possono portare alla comprensione dell’unità atavica fra tutte le cose. Geburah come mezzo per giungere alla verità di Chesed, proprio come l’esperienza terrena-sinistra è la nostra Notte dell’Anima, una notte da attraversare in direzione di un’alba dove noi stessi saremo il nuovo Sole.
Sebbene per ovvie ragioni io non sia un’esperta di Cabala Ebraica, non poso però nascondere che forse, se proprio la si deve usare, vedrei bene anche altri collegamenti sephirotici. Il pensiero più banale, collegando Baphomet alla Signora, Prima fra gli Iniziatori, è che si potrebbe associare le due lune a Binah e Malkuth; Binah, l’oscura regina del mondo superiore da cui la Creazione trae origine e Malkuth, la stessa forma della Creazione. In tal modo Binah può essere vista come madre di Malkuth, ma la stessa Malkuth diviene madre di Binah, giacché nella materialità della Creazione, come in un ventre segreto, è contenuta l’essenza primordiale della sua stessa creatrice. Se invece si pensa a Baphomet nel suo ruolo di Ente capace di Camminare sulle Acque, ossia viaggiatore fra i mondi, allora la connessione più semplice sarebbe senza dubbio Kether, l’assoluto amorfo, e Malkuth, la forma creata del Regno. Sinceramente però, a questa proposta credo di preferire ancor più la correlazione fra Kether e Da’at, l’undicesima sephirah invisibile. Sul perché lascio ai tanti amanti della Cabala il piacere di scoprirlo, io per oggi ne ho parlato anche troppo. A ognuno le sue idiosincrasie!
CADUCEO
Il Caduceo è uno dei simboli più antichi della storia umana e se ne trovano tracce già nel 2600 a.e.v a Lagash, antica città della Mesopotamia, sulla coppa dell’ensi Gudea, re della città. Il Caduceo appare anche presso gli Egizi come simbolo di Ermete Trismegisto, così come anche lo ritroviamo a Cartagine fra i Fenici e persino in India su una tavoletta Veda. Noto poi è il suo ruolo centrale nella cultura greco-romana, come emblema del Dio Hermes/Mercurio. La leggenda sulla nascita del Caduceo vuole che Hermes - associato al’egizio Ermete/Thot - camminando nella foresta vide due serpenti in lotta fra loro e per stemperare la lite pose fra i due il suo bastone. A quel punto i serpenti cominciarono ad avvinghiarsi alla verga, trovando così ognuno il suo posto in armonia con l’altro. Da quel momento il Caduceo divenne un simbolo di integrazione degli opposti, dove entrambe le polarità esistono ma senza entrare in conflitto. Altro mito interessante sulla creazione del Caduceo ci racconta una storia un po’ diversa: il mago Tiresia passeggia per il bosco e incontra due serpenti in amore. Pone fra i due amanti la sua bacchetta ed essi si avvinghiano ad essa, formando il Caduceo.
Queste due leggende sono identiche tranne che per un elemento, cioè la condizione dei due serpenti prima dell’intervento magico del protagonista. Nel racconto di Hermes gli animali sono in lotta fra loro, in quello di Tiresia sono in amore. Credo sia evidente la presenza di una diade a noi ormai ben nota, elemento fondante dell’Iniziazione Occulta: Eros e Thanatos, amore e guerra. Nel primo caso abbiamo davanti soltanto l’energia oppositiva, virile, espansiva, elettrica, nel secondo invece quella attrattiva, femminile e magnetica. Nel mito di Hermes possiamo cogliere l’insegnamento magico dell’unione armonica degli opposti, mentre in quello di Tiresia assistiamo alla generazione stessa della dualità, dove ciò che è unito viene appunto separato. Hermes agisce per mezzo della forza erotica che unisce, armonizzando le serpi in lotta, di contro Tiresia pone fra i serpenti in amore una forza thanatica, inteso come disgregatrice, separatrice. Il risultato sarà lo stesso, così come l’insegnamento che vi si cela dietro.
A livello simbolico il Caduceo si configura dunque come l’equilibrio fra gli opposti, l’emblema dell’armonia e della sapienza, integrando materia e spirito, bene e male, energia marziale ed energia venusiana. Anche in alchimia il Caduceo diviene simbolo per eccellenza dell’essenza mercuriale, letteralmente da Mercurio, dio demonico in quanto intermediario fra la Terra e il Cielo, fra quel Basso e quell’Alto di cui parla la stessa Tavola Smeraldina. Per gli alchimisti il Caduceo simboleggiava anche l’equilibrio fra Zolfo e Mercurio, Solve e Coagula. Il Caduceo è inoltre noto per essere divenuto nel tempo l’insegna della medicina, o per meglio dire, della farmacologia. Il simbolo della medicina è infatti attribuito al bastone del greco Asclepio - Esculapio per i Romani – che a differenza del Caduceo è formato da un singolo serpente avviluppato ad una verga. Il dio Asclepio era Signore della medicina e sua figlia, se ben ricordate, è Igeia, dea il cui simbolo era una coppa avvolta da un serpente. Come abbiamo detto, la verga e la coppa simboleggiano rispettivamente il fallo eretto e il ventre fecondo, mentre il serpente che li circonda potrebbe rappresentare l’energia sessuale, fonte di benessere e potenziale guarigione.
Interessante è osservare la storia stessa del dio Asclepio, il quale ricevette dalla dea Atena il potere della “duplicità”. In poche parole, il sangue del Dio che fluiva dal fianco destro era curativo, mentre quello che sgorgava da quello sinistro era portatore di malattie. La duplicità di Asclepio era dunque insita nel suo stesso sangue, il quale conteneva un “lato sinistro” velenoso e un “lato destro” taumaturgico. Credo che dopo un viaggio simile nell’universo di Baphomet non servano grandi spiegazioni per cogliere l’evidente parallelismo iniziatico. Asclepio, grazie a questo suo dono e grazie al suo particolare bastone di potere, riusciva a guarire gli ammalati e persino resuscitare i morti. Queste sue pratiche a favore dell’uomo scatenarono l’ira di Zeus, il quale decise pertanto di punirlo. Un mito simile lo ritroviamo anche nella Bibbia. In Numeri 21:1,9 leggiamo un passo in cui il popolo ebraico si lamenta di Yahweh per essere ancora esuli nel deserto e così quest’ultimo invia loro dei serpenti velenosi per punirli. Morirono molti israeliti e così gli Ebrei pregarono Mosè di chiedere perdono a Yahweh per essersi lamentati. Il profeta parlò con il suo dio ed egli gli intimò di forgiare un serpente [in alcune traduzioni il serpente è di rame, in altre di bronzo] montato su di un bastone, promettendo che coloro che l’avessero guardato sarebbero guariti dai morsi dei serpenti. Anche qui troviamo dunque un bastone serpentino con poteri guaritivi.
Il bastone di Asclepio è però diverso da quello di Hermes. Il Caduceo con due serpenti è molto più antico ed è stato assimilato al bastone con un serpente solo in seguito. In ogni caso anche il Caduceo ermetico è stato associato alla medicina. Per la farmaceutica, infatti, i due serpenti del Caduceo rappresentano il principio velenoso e quello curativo di ogni farmaco, mentre il bastone alato nel mezzo incarna il medico stesso, in grado di equilibrare le parti fornendo il giusto dosaggio. Come insegnava lo stesso Paracelso: "Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto." E questo concetto della farmaceutica non può non portarci alla mente il mito di Asclepio e la sua duplicità veleno/cura.
Il richiamo alla salute lo ritroviamo anche nelle discipline orientali, dove il Caduceo diventa immagine dell’armonia fra le nadi Ida e Pingala, due serpenti che si attorcigliano alla nadi principale Sushumna, situata in corrispondenza della colonna vertebrale. In Oriente l’approccio alla medicina è più olistico rispetto a quello occidentale, pertanto l’equilibrio fra anima e corpo è considerato indispensabile per il proprio benessere psicofisico. Il Caduceo rivela dunque il segreto del perfetto bilanciamento fra anima e corpo, nonché la chiave stessa dell’evoluzione spirituale favorita dall’ascesa di Kundalini, il Terzo Serpente situato in Muladdhara. L’armonizzazione fra Ida e Pingala, i primi due serpenti energetici, genera dunque un Terzo Serpente centrale, Kundalini, la cui risalita verso la Corona rappresenta il Magnus Opus di ogni Iniziato, l’equivalente del Mercurio filosofico degli alchimisti.
La visione del Terzo Serpente, in un certo senso risultato dell’unione stessa dei primi due, ci riporta al concetto già affrontato di Triade divina, dove l’unione di un Pater e di una Mater [di cui spesso uno dei due ultraterreno] porta alla generazione di un figlio sacro. In qualche modo l’Iniziato agisce su se stesso attivando un processo simile: egli esplora le polarità opposte del sistema duale in cui vive, scoprendo le sue ombre e le sue luci, per poi armonizzarle e rigenerarsi in un terzo nuovo individuo, in una sorta di partenogenesi ciclica volta al perfezionamento. Questo Terzo Serpente centrale del Caduceo mi fa istintivamente pensare a due cose: la prima associazione visiva, date le ali del Caduceo, è la Croce, simbolo di Cristo oggi e prima ancora di Tammuz. Entrambe le divinità, sebbene in modi differenti, sono rappresentazioni coerenti con la figura del divino incarnato e dell’Iniziatore Occulto. Seconda immagine che mi balza alla mente, e che ben si sposa con la precedente, è il Serpente Piumato delle culture precolombiane, Kukulkan per i Maya e Quetzalcoatl per gli Aztechi. Questa divinità era connesse a Venere e pertanto veniva chiamata come Lucifero “Stella del Mattino”; patrocinava sulla Sapienza, sul calendario [riferimento al Tempo], al sacerdozio, al vento e alla stessa creazione di una nuova razza di esseri umani. Una leggenda azteca narra infatti di come Quetzalcoatl creò l’essere umano del Quinto Mondo [terminato teoricamente nel 2012] insieme alla Dea Serpente Cihuacoatl. Essi utilizzarono il proprio sangue e le ossa delle precedenti razze umane per compiere tale nuova creazione, un mito che vagamente può riportare all’unione fra esseri umani e primi Discesi.
Come abbiamo potuto constatare, il simbolo del Caduceo è antichissimo e perfettamente in linea con l’essenza bafometica: in esso ritroviamo la compenetrazioni degli opposti e l’unione del divino e del terreno al fine di generare un terzo Ente semidivino. Esiste in esso una forte valenza iniziatica che ritroviamo in Quetzalcoatl, ma anche in Hermes e nello stesso Ermete Trismegisto, considerato miticamente il cardine di diverse tradizioni mistiche. Questo simbolo di vita, benessere e saggezza è stato ritrovato in culture molto lontane fra loro e come sempre, in barba a quanti ritengano che ogni culto si sia sviluppato in maniera indipendente, queste inspiegabili reiterazioni simboliche sono a mio avviso una conferma dell’esistenza del Culto delle Origini, una Tradizione ben viva nei miei Ricordi e che di tanto in tanto svela anche tracce storiche a chiunque abbia la volontà di ritrovare la propria sacra Origine. Per questi motivi, ritengo il Caduceo un’immagine adeguata All’iconografia del Baphomet. Concludo questa breve analisi del simbolo commentando la citazione di Levi a riguardo:
“L’asta eretta in piedi al posto dei genitali simboleggia la vita eterna, il corpo ricoperto di squame l’acqua, il semicerchio sopra l’atmosfera.”
Per Levi il Caduceo rappresenta la vita eterna, pensiero coerente con la natura taumaturgica del simbolo. Oltre a questo c’informa del fatto che esso sta “al posto dei genitali”, e non che rappresenti necessariamente i genitali stessi, facendo dunque desumere che le numerose varianti del Baphomet dotate di fallo eretto possano essere un’interpretazione posteriore. Il corpo ricoperto di squame è forse un residuo del pesce, afferente all’immagine del Capricorno, fusione fra la capra, animale terreno che scala la Montagna per raggiungere il Cielo, e il pesce/serpente, animale spirituale che arriva dall’Abisso. Sul semicerchio che rappresenterebbe “l’atmosfera” nutro invece enormi dubbi e troverei più calzante immaginare che esso possa invece essere semplicemente la metà visibile di un Uroboro che circonda il Caduceo, giacché quest’ultimo è nei fatti la manifestazione fenomenica del primo.
ALI
Le ali sono l’organo del volo, ciò che permette a molte creature terrestri e mitologiche di staccarsi da terra per innalzarsi verso il cielo. Questo ha sicuramente favorito l’accostamento delle ali con la libertà, la leggerezza e lo spirito. Le ali sono l’elemento che contraddistingue gli uccelli, gli insetti, tutti quegli animali che possono liberamente librarsi nell’aria, elevandosi sopra le faccende terrene, oltre le nostre stesse possibilità. L’uomo infatti non è biologicamente strutturato per poter volare, è incatenato alla terra, pertanto rappresentazioni antropomorfe alate da sempre affascinano le menti di artisti e narratori. L’uomo dotato di ali evoca la stessa immagine della farfalla, che da bruco della terra si trasforma in creatura alata, leggera e bellissima. Allo stesso modo l’essere umano alato diviene emblema dell’uomo asceso, evoluto ad una stato spirituale più elevato, capace letteralmente di trascendere il terreno.
Il desiderio umano di possedere ali per rendersi simile alla divinità lo incontriamo senza dubbio nel mito di Icaro. La storia ci racconta di come Icaro e il padre Dedalo fossero prigionieri nel Labirinto di Minosse, costruito dallo stesso Dedalo, e di come l’inventore escogitò uno stratagemma per fuggire. Dedalo assemblò con della cera delle piume sulla sua schiena e su quella del figlio e insieme si alzarono in volo, riuscendo a scappare. Dedalo però avvertì Icaro di non volare troppo in alto, ma il ragazzo non gli diede ascolto: egli osò avvicinarsi troppo al sole e il suo calore fuse la cera delle sue ali posticce, facendolo precipitare e morire. Questa leggenda ha dei forti richiami con il mito della Torre di Babele, entrambi racconti che hanno come morale il mettere in guardia da un’eccessiva ambizione, soprattutto se tale ambizione è votata al conseguimento dello status divino. Ovviamente come ogni storia anche quella di Icaro può essere soggetta a più interpretazioni. C’è chi vede soltanto la sua tracotanza e c’è chi invece, come me, vede anche la sua audacia, poiché sebbene egli sia perito miseramente, si è avvicinato al sole più di ogni altro.
Le ali sono presenti in ogni tradizione antica, le troviamo in numerose raffigurazioni mitologiche e religiose, come ad esempio le ali della Dea Maat, il Serpente Piumato delle culture precolombiane, le ali ai piedi del Dio Mercurio, così come le ali dei numerosi angeli dell’iconografia cristiana. Le ali avevano anche un ruolo predominante nella simbologia Egizia. Tornando alla Dea Maat, ricordiamo ad esempio di come la sua stessa piuma fosse usata come metro di misura per pesare le anime, valutandone la purezza. Sempre presso gli Egiziani era usanza porre ad est dei templi due globi alati con funzione apotropaica. Anche nella religione cristiana ritroviamo il globo alato e vorrebbe rappresentare lo Spirito Santo che, come abbiamo visto, ha forti connessioni con la Sophia. Nel Satanismo i Demoni vengono spesso rappresentati alati, sebbene nella mia esperienza personale non abbia incontrato spesso entità alate. Sono dell’idea che le ali siano probabilmente qualcosa di simbolico, ma rispetto ogni sincera Visione, consapevole della variabilità propria della Forma.
In ogni caso, figure alate hanno sempre contraddistinto la divinità dall’essere umano, l’essere asceso da quello ancora involuto, ma spesso sono servite anche a caratterizzare quelle entità che fungevano da intermediari fra l’uomo e il divino, il Cielo e la Terra. Ecco dunque che in tale circostanza l’ala si presta molto bene a rappresentare il nostro Baphomet che, come abbiamo visto, riveste perfettamente il ruolo di creatura sospesa fra i mondi, fra la natura sacra e quella bestiale. Appropriato è anche ricordare di come i cosiddetti Angeli Caduti siano noti per “aver perso le ali”, chiara metafora della divinità discesa nella carne e pertanto privata dei suoi poteri preternaturali. Questo riporta alla mente il mito della Discesa agli Inferi, dove l’eccelsa Ishtar si spoglia di tutte le sue vesti e monili per poi recuperarli nella risalita. Gli averi di Ishtar sono un perfetto parallelo delle ali degli Angeli Caduti, nostri Dei e Progenitori Ancestrali, di cui Baphomet è emblema iniziatico.
CORNA
Pur avendo ampiamente illustrato il significato della Capra e del Caprone, ritengo doveroso spendere due parole anche sulle corna. Inutile dire che presso i Gentili il significato delle corna era tutt’altro che negativo. Se i Cristiani vedono le corna come un simbolo del male, per gli antichi esse rappresentavano forza, potere, gloria, dignità regale e persino fertilità. Le corna erano associate agli animali cornuti, quali ad esempio l’ariete, noto per la sua vitalità prorompente e la capacità di abbattere ogni ostacolo, o il toro, simbolo per eccellenza del Pater, forte, saggio e apportatore di vita. Ai buoi che trainavano l’aratro erano attribuiti potenti significati sessuali e persino iniziatici, dato che non è raro scovare allegorie ermetiche in ambito agreste.
Le corna rappresentavano il potere in ogni sua forma; esse rappresentavano l’abbondanza - ricordiamoci della cornucopia - ma anche il potere spirituale, il potere regale e il potere marziale. Re, sciamani e guerrieri di molte culture erano soliti utilizzare copricapi cornuti. Anche la Mater veniva spesso rappresentata come cornuta, sia in qualità di dea della fertilità sia per l’accostamento fra le corna e la mezza luna, che Ella porta sulla sommità della testa in numerose rappresentazioni.
Fare le corna, inteso come gesto delle mani, deve la sua origine al Karana Mudra, gestualità sacra orientale che nulla avrebbe a che fare con i significati negativi attribuiti dal Cristianesimo. Il Karana Mudra, gesto che simula le corna tenendo pollice e medio uniti, ha in realtà il potere di eliminare le energie negative, allontanando i brutti pensieri e gli spiriti ostili. La stessa funzione apotropaica la ritroviamo anche nella tradizione popolare italiana, dove le corna rappresentano un gesto per scongiurare la malasorte. Nota curiosa è che il termine Karana, in sanscrito, viene etimologicamente attribuito al verbo “fare”, mentre in greco un termine molto simile, keren, significa proprio “corna”. San Girolamo, noto biblista, tradusse la parola ebraica karan - raggio di sole - confondendola proprio con la keren greca ed è per questo che Michelangelo dipinse così Mosè con le corna! Resta interessante notare l’assonanza fra questi tre termini, a mio avviso indiscutibilmente connessi. Le corna sono anche un simbolo salvifico di resurrezione e devono tale significato all’antico mito di Zagreo-Dioniso, il “nato due volte”, già affrontato nei paragrafi precedenti. Zagreo, oltre ad essere rappresentato con piccole corna caprine o talvolta taurine, fu fatto a pezzi dai Titani nelle fattezze di un toro, per poi risorgere a nuova vita nella veste di Dioniso.
ANDROGINIA
La parola Androgino deriva dall’unione di andròs e gyné, termini greci che stanno per uomo e donna. Comunemente si definisce Androgino qualcuno che ha tratti fisici che lo rendono più simile all’altro sesso, come ad esempio un maschio con lineamenti effeminati o una ragazza con tratti più mascolini. L’Androgino però non è da confondersi con l’ermafrodita, cioè chi possiede attributi sessuali di ambo i sessi. Sia nel regno animale che fra gli esseri umani esistono casi di ermafroditismo, ossia individui che hanno sia il pene che la vagina o il pene e i seni sviluppati. Il Baphomet di Levi viene spesso rappresentato con i seni e con un fallo al posto del Caduceo, dato che secondo certe interpretazioni tale simbolo sarebbe un membro allegorico. L’analogia non mi ha mai convinta troppo, dato che, come abbiamo, visto il Caduceo ha un significato molto più complesso: come può l’emblema della dualità trascesa diventare nel Baphomet leviano allegoria di un singolo polo della dualità stessa? Intendo dire che se il Caduceo rappresenta l’unione di forze opposte, come appunto l’energia maschile e quella femminile, come può nel Baphomet leviano limitarsi a simboleggiare solo l’energia maschile? Occorre aggiungere un dettaglio importante al mito di Tiresia: quando il mago separò i due serpenti in amore, generando il Caduceo, mutò il suo sesso diventando donna. Questo particolare può farci comprendere come il Caduceo non rappresenti il “maschile”, ma semmai la compenetrazione degli opposti. Tiresia era maschio, ma attraverso il caduceo fa esperienza del femminile. Questa è una chiara metafora della Terza Via, vera morale insita in questo antico simbolo.
Baphomet non è dunque da intendersi come Androgino in quanto “ermafrodito” ma Androgino nel senso più ampio del termine. Androgino è senza dubbio una parola che evoca il binomio maschio-femmina, ma non ritengo che l’interpretazione debba fermarsi solo a questo. Maschile e femminile sono semplicemente la prima forma di dualità che esperiamo fin dalla nascita, incontrando da principio un padre ed una madre che ne incarnano l’essenza. Resta però innegabile che maschile/femminile è solo la prima forma di energia dicotomica in cui incappiamo, ma di certo non sarà l’unica. Il Caduceo simboleggia l’armonia fra gli opposti, come maschile e femminile, ma anche bene e male, giorno e notte, guerra e amore, Cielo e Terra. Stessa cosa potremmo dire dunque dell’Androgino: esso rappresenta l’integrazione dell’energia maschile e femminile all’interno di ogni individuo, aldilà del suo sesso biologico, ma questa integrazione vuole comunicarci un’unione più profonda fra ogni forma duale, vuole mostrarci la Terza Via intrapresa dall’Essere libero e consapevole che ha fatto esperienza di ogni polo.
Il Baphomet pertanto rappresenta non un ermafrodito ma l’iniziato illuminato, l’essere completo che trascende la dualità senza annullarla. È l’individuo che è andato oltre il bene e il male, oltre le faziosità dettate dalla paura e dall’ignoranza, colui che cammina nella luce e nell’ombra senza riserve, padrone di se stesso. Ma l’androginia bafometica potrebbe anche svelarsi nella sua doppia natura di entità terrena e divina, la capra e il pesce, la carne e lo spirito. Più osserviamo Baphomet più ogni dettaglio ci grida la sua origine e la sua destinazione, in un cerchio perfetto che si esprime nel più alto miracolo della Creazione. Baphomet è l’Androgino inteso come essere compiuto, puro come il seme dell’origine e potente come l’albero che offre il suo frutto.
Platone nel suo Simposio racconta di come esistesse un terzo genere, l’Androgino. Se l’uomo era figlio del sole e la donna figlia della terra, l’Androgino era figlio della luna. Ecco dunque che questo racconto ci suggerisce la vera essenza lunare, non semplice emblema del femminile ma della luce stessa dell’anima sulla terra. La luna rappresenta la divinità incarnata, l’anima che prende forma corporale, divenendo nei fatti punto d’incontro fra terra e sole, fra materiale e spirituale, così come l’Androgino è il punto d’incontro fra gli stessi elementi opposti.
Nell’immagine a destra è raffigurato l’Androgino alchemico di Michael Maier. L’illustrazione ci mostra un Androgino che tiene nella mano destra la Y pitagorica, simbolo del bivio fra i Sentieri, fra la Via Destra e la Via Sinistra. La mano sinistra dell’Androgino ci mostra però la soluzione al dilemma: la Terza Via. Il gesto della mano che vede anulare e medio uniti è presente in moltissimi dipinti esoterici, come ad esempio nel Cristo Pantocrator della cupola di Hosios Loukás e in quello del Duomo di Cefalù e della Cappella Palatina di Palermo. Lo ritroviamo anche nella Madonna di Lys di Adolphe Bouguereau e ancor prima in un vaso dell’Etruria datato 340 a.e.v. dove Persefone fa tale segno dietro la testa del figlio Zagreo-Dioniso. Il gesto è spesso connesso a Dioniso, lo rinveniamo anche in una ceramica apula del V secolo a.e.v. che ritrae la sua nascita, mentre la Dea Afrodite fa con la mano destra le corna e con la sinistra il misterioso gesto. Lo ritroviamo anche in moltissimi ritratti di esoteristi, aristocratici e filosofi, persino in un dipinto di Adolf Hitler del pittore Heinrich Knirr.
Il significato del gesto è tutt’oggi avvolto nel mistero e l’interpretazione più accreditata è che sia un parallelo delle corna stesse, segno di salvezza e vita eterna. Mi trovo in parte d’accordo, dato che se il simbolo delle corna incarna la seconda nascita, il gesto con anulare e medio uniti ci mostra nei fatto una terza rinascita, quella di colui che è originato dallo spirito, rinato nella carne e infine asceso nuovamente nello spirito, rivelando cos’ all’uomo la via per l’eternità, dimostrando che anche chi vive nell’opacità del carbonio può accedere al Diamante, il Regno Divino. Infondo non è questo che fa un dio incarnato? Non è ciò che prima fra tutti fece proprio Ishtar? Discendere nelle Tenebre della Materia per mostrare ai suoi abitanti la strada verso la Luce? Altra possibile interpretazione del gesto è che esso si riconduca al Tridente, emblema della Terza Via. Tempo fa, analizzando il simbolo del bivio fra il Sentiero Destro e il Sentiero Sinistro [la ypsilon pitagorica] ebbi l’intuizione di come il Tridente, tanto caro al Dio delle Origini esattamente come il Caduceo, incarnasse la Terza Via, il Terzo Serpente, il figlio nato dallo sposalizio degli opposti, “l’uno più uno” che anziché dare come risultato due, ci offre il tre, con tutti i suoi doni.
Questo segno esoterico con le mani, che per semplicità chiameremo “Gesto della Terza Via”, è un simbolo iniziatico che vuole indicarci la via per la Saggezza. Non è un caso che lo si ritrovi ad esempio anche in una raffigurazione molto ermetica di Arianna, colei che conoscendo il Labirinto di Cnosso, indica la strada al Viandante. L’Androgino, il Caduceo, il Tridente, sono tutte effigi che vogliono lanciarci uno stesso messaggio di Completezza, primo fra i nove valori dell’Etica Satanica. Terza è la Via, Terza è la Nascita, Terzo è il Serpente.
GAMBE
Nel prossimo paragrafo, dedicato alla mia ricostruzione personale, noterete che ho preferito sostituire le gambe caprine ad una serpiforme coda di pesce. La ragione della mia scelta sarà presto spiegata, ma voglio comunque analizzare brevemente la posizione delle gambe del Baphomet leviano. Le gambe incrociate sono infatti una posizione significativa, sia da un punto di vista esoterico che spirituale. Sul fronte esoterico ci basti pensare alle ossa incrociate degli stessi Templari defunti, che come abbiamo visto venivano deposti in bare con i femori incrociati e piegati sul petto.
Dal punto di vista spirituale, invece, la posizione non può che farci pensare a Padmasana, la “posizione del Loto”, l’asana principale dell’Hatha Yoga. In verità Padmasana sarebbe un po’ diversa rispetto alla posizione del Baphomet di Levi: l’asana del Loto prevede difatti le gambe incrociate e il piede posto sulla coscia opposta. Padmasana ha però alcune varianti, come ad esempio Svastikasana e Sukhasana, posizioni consistenti nelle semplici gambe incrociate, con il piede sotto il ginocchio opposto o talvolta uno sopra e uno sotto. La posizione del Loto è la base dello Yoga e della Meditazione, se eseguita con schiena dritta essa favorisce la risalita della Kundalini lungo la nadi Sushumna. È un’asana apparentemente semplice che richiama anche l’immagine di un triangolo, dove le nostre gambe rappresentano la base e la nostra testa il vertice, connettendo la terra al cielo, la materia allo spirito. Padmasana e le sue varianti sono spesso utilizzate nell’iconografia di Dei e Illuminati Praticanti, come ad esempio Shiva e lo stesso Buddha. Anche il celtico Dio Cernunno, già incontrato precedentemente, viene rappresentato come Baphomet nella posizione del Loto, a gambe incrociate. Come ho accennato, non condivido inserire nel Baphomet gambe caprine, tuttavia trovo la loro posizione più che appropriata.
GLOBO
Il cubo sul globo su cui Baphomet siede rappresenta con ogni probabilità la Terra. Il cubo in particolare rappresenta le leggi terrene, il globo assume invece il significato di Mondo, mentre la sfera generalmente ha sempre evocato l’idea di completezza e perfezione. Il globo rappresenta anche il potere regale; tale oggetto non di rado veniva posto nella mano sinistra di regnanti dipinti, mentre nella destra vi si poneva uno scettro. Il globo più specificatamente si configura come il potere terreno “sinistro”, femminile, attrattivo, sacerdotale, mentre lo scettro è un richiamo al fallo, al potere maschile, espansivo, imperiale. Il potere terreno espresso dal globo e il potere spirituale suggerito dalla sfera confluiscono nell’esoterico ventunesimo arcano dei Tarocchi, per l’appunto “il Mondo”, nome che richiama alle forze più terree ma che nel percorso delle Lame si presenta come il traguardo, il sommo compimento, l’illuminazione conquistata con fatica dall’Iniziato. Protagonista del Mondo dei Tarocchi è la Donna Nuda, chiaro riferimento alla Signora, l’Iniziatore Occulto, Colei che fu la prima ad arrivare e l’ultima ad andare.
[A seguito vi propongo una galleria di Baphomet che abbiamo selezionato negli anni GALLERIA]
Ricostruzione Personale del Baphomet leviano
CAPRICORNO
La prima cosa che ritengo abbia snaturato la reale essenza del simbolo bafometico sono le sue sembianze unicamente caprine. La capra, come abbiamo visto nell’analisi precedente, è un animale di potere presente in ogni antica tradizione e aggiungerei che, simbolicamente, incarna il “buon Iniziato”. La capra è infatti un animale instancabile, agile e caparbio, una creatura che, differentemente da bestie ben più placide e timorose, ha la volontà e il coraggio necessari per azzardare la Grande Scalata. Essa ambisce alla vetta montana piuttosto che accontentarsi dei confortevoli pascoli. La montagna è sempre stata emblema della salita verso il divino e proprio per questo è divenuta spesso meta iniziatica di pellegrinaggi ascetici. La montagna è ciò che collega la terra al cielo e la capra è l’animale-simbolo che la scala, sfidandola e conquistandola per sfidare e conquistare se stesso. Il capro che Levi banalmente descrive solo come un’orribile bestia, attribuendogli soltanto la lascivia e l’auto-indulgenza, rappresenta di certo la materialità, la corporalità, ma soprattutto rappresenta l’anima dell’eroe che, pur vivendo nella carne, fa della materia un mezzo per superare i propri limiti e riconquistare così la grazia divina. Al significato terreno/iniziatico della capra occorre però aggiungere anche la spiritualità del pesce, il quale nei fatti ne determina l’origine ultraterrena. Levi ha creato un Baphomet privo di spiritualità, lo ha confinato nella carnalità del capro, recidendogli quella coda di pesce che avrebbe reso palese a tutti la sua reale natura. Levi fa un accenno all’anima citando la torcia sulla testa di Baphomet, come se appunto l’anima fosse qualcosa di più alto che il capro/bestia deve raggiungere, mentre nei fatti era decisamente importante far comprendere che tale spiritualità era già insita in lui, nella sua stessa coda-radice.
Per comprendere meglio cosa intendo paragonando la coda di pesce del Capricorno alle radici spirituali, dovrò tornare agli Oannes di cui abbiamo fatto accenno nell’analisi sulla capra. Lo storico babilonese Beroso racconta che Oannes non era il nome di una singola divinità, bensì di tante. Il termine Oannes si presume derivi dal siriaco e significherebbe “straniero”. Gli Oannes venivano chiamati “i Pesci”, descritti come esseri superiori “venuti dal mare” o “dalle acque” e furono coloro che civilizzarono l’essere umano, offrendogli importanti conoscenze. Questi Oannes corrispondono a coloro che definisco i “Discesi”, ossia Satana e gli Dei Gentili, divenuti Demoni proprio nel momento stesso in cui attraversarono le acque per unirsi ai figli e alle figlie dell’uomo. L’acqua, il mare, non deve qui intendersi come qualcosa di fisico quanto come qualcosa di spirituale. Quando anche nell’Apocalisse di Giovanni si cita la “bestia venuta dal mare” si vuole mettere in guardia dal ritorno delle divinità Oannes, in particolare dalla Prima che arrivò e che fu l’ultima ad andare. L’acqua rappresenta il conduttore universale, tutto ciò che è fluido è in grado di contenere l’energia e trasportarla nella materia, esattamente come il fuoco permette il processo contrario. Le acque sono dunque una porta in sospeso fra i mondi e coloro che arrivano dalle acque sono abitanti di altre dimensioni.
Gli Oannes venivano rappresentati con coda di pesce, talvolta anche vestiti di squame o con un copricapo ittico. Vi ricorda nulla? Eh sì, fa proprio pensare alla dea Hatmehit, moglie del dio di Mendes Banebdjedet. Hatmehit non solo era rappresentata con le stesse fattezze degli Oannes ma, ricordiamo, il suo nome significava niente meno che “Prima fra i Pesci”.
Interessante anche notare il parallelismo fra Ea, il dio pesce che salvò l’uomo dal Diluvio Universale informando il suo devoto Utnapishtim, e il vedico Matsya, il primo avatara di Visnu, la cui forma era per l’appunto un uomo con coda di pesce. Secondo il Matsya Purana, Visnu, sottoforma di Matsya, istruì Satyavrata affinché potesse salvarsi dal Diluvio. Da questi miti antichissimi i Cristiani attinsero per creare la leggenda dell’Arca di Noè. Per restare in ambito cristiano, lo stesso Cristo era spesso associato al pesce e aveva per i suoi fedeli un ruolo molto simile agli Oannes, talmente simile da “sembrare quasi” copiato. Gesù, come Giovanni Battista [il nome Giovanni abbiamo visto che potrebbe derivare proprio da Oannes] sono delle rappresentazioni più moderne degli antichi Discesi e a riprova di ciò potremmo citare gli Atti di Pilato, un vangelo apocrifo che racconterebbe come in origine Gesù fosse accolto a Gerusalemme con la frase: “Oannes che vieni dall’alto dei cieli”, modificando il concetto di “profondità acquee” con “alti cieli”. Nelle versioni posteriori l’acclamazione mutò in “Osanna nell’alto dei cieli”. I primi Cristiani usavano il simbolo del pesce per rappresentare Gesù e il termine greco ΙΧΘΥΣ, ichthys, significa pesce, trasformato poi in un acronimo per celebrare il Cristo. Il messia cristiano era definito anche “colui che cammina sulle acque” e precisamente in Giovanni 6,1 leggiamo: “Gesù cammina sul mare”. La stessa citazione la si può trovare anche in Matteo e Marco. Questo legame fra Gesù e il mare può far pensare al dio Ea, “colui la cui casa è l’acqua”, ma ancora più forte è in verità l’analogia con la dea Asherah, definita erroneamente dagli Ebrei moglie di Yahweh. Ciò accadde poiché la presenza della Signora non fu mai facile da estirpare, data la grande devozione che ogni popolo le riservava. Fu così che inizialmente venne spacciata come moglie di Yahweh ed infine bandita e demonizzata dagli stessi Ebrei nella stesura della Bibbia. In testi risalenti al 1200 a.e.v. Asherah viene definita niente meno che “Colei che cammina sul mare”, dall’ugaritico “rabat ʼAṯirat yammi”. Sempre per restare in tema di “coincidenze”, la dea Asherah era considerata l’equivalente dell’Ishtar babilonese e dell’Atargatis siriaca, quest’ultima in particolare era rappresentata come una sirena e il suo nome significava “la dea pesce”.
Dee Madre con fattezze ittiche le ritroviamo in diverse tradizioni. Mi viene in mente ad esempio la dea Derceto, talvolta assimilata alla stessa Atargatis, o anche la dea Sedna, divinità primaria del pantheon Inuit detta “Madre del Profondo” o anche Takanakapsaluk, “Madre Terribile delle Profondità”, la cui storia per altro richiama in un certo senso il mito dello smembramento. Il mito di Sedna racconta che una giovane donna non voleva in alcun modo prendere marito e suo padre, stanco della sua ritrosia verso ogni pretendente, tentò di ucciderla gettandola in un lago ghiacciato, ma siccome la ragazza restava aggrappata con tutte le sue forze al piccolo kayak, egli cominciò a farla a pezzi, spezzandole le dita con un remo. Sedna e i pezzi del suo corpo caddero nel lago e da essi si generò la vita. Tuttora Sedna è considerata signora delle creature indifese e diventa implacabile di fronte alle ingiustizie. Nota curiosa vuole che, in una versione del mito eschimese, la fanciulla restia a trovare marito si unì ad un cane, generando così la razza dei bianchi e degli indiani. Non è da escludere che il cane sia un’allegoria diffamatoria per indicare un Disceso e che dunque si torni sempre in forma diversa alla Grande Eresia che determinò la nascita della Stirpe Satanica e la conseguente guerra fra Popolo di Satana e Popolo di Yahweh. Altra dea con coda di pesce è Yemaya, Dea Madre degli Yoruba, così come la dea Erzulie La Sirène. Il pesce lo ritroviamo anche nella Dea Madre giapponese Kwan-yin con coda di pesce o mentre cavalca un grande pesce, allo stesso modo fra i molti appellativi della dea Kali scopriamo anche “Occhi di Pesce”. Il dettaglio degli occhi potrebbe riferirsi alla vista spirituale, dato che in un antico tempio fu ritrovato un affresco raffigurante la dea sirena Atargatis con una sorta di bindu al centro della fronte, a rappresentare con molta probabilità l’Occhio Sacro.
Il pesce è un animale fortemente connesso alla Mater e la sua miglior rappresentazione simbolica si cela nella Vesica Piscis. Questo simbolo è stato rinvenuto fin dalla preistoria in tutto il mondo antico, dall’Egitto, alla Mesopotamia, ai territori celtici, nonché in Oriente. Anche nel Cristianesimo il simbolo Vescica Piscis sarà riciclato come emblema del Cristo, l’Ichtys di cui abbiamo già accennato. Altro dettaglio da non sottovalutare è che Ichtys era niente meno che il nome del figlio della dea Atargatis, sebbene nella sua forma di Derceto, il figlio in realtà sia una figlia, la grande regina Semiramide. D’altra parte sarebbe opportuno tenere conto del fatto che la dea Atargatis e il mito degli Oannes erano molto sentiti in Siria e che Pietro, Padre della Chiesa Cattolica, trascorse oltre trent’anni nella capitale siriana di Antiochia. Questo dovrebbe far riflettere sulla concreta possibilità che il simbolo dell’Ichtys utilizzato dai cristiani sia l’ennesimo furto a danno degli Dei Antichi. Pietro secondo la tradizione cattolica fu anche il primo papa della Chiesa e non a caso esiste una somiglianza a dir poco imbarazzante fra la mitra papale e il copricapo di Oannes.
Per tornare alla nostra splendida Atargatis, proprio nella città di Antiochia son stati rinvenuti dei mosaici di questa dea, sia con coda di pesce che con un serpente avvolto intorno al corpo. Nell’iconografia antica esiste una forte relazione fra il pesce e il serpente e non è raro che la Mater venga rappresentata in molte parti del mondo sia come donna-pesce che in qualità di donna-serpente, talvolta anche con un serpente avvinghiato alle sue carni o tenuto saldo nelle mani. Questo potrebbe rappresentare una lenta trasformazione simbolica che vuole raccontare il passaggio dalle acque alla terra, senza contare che la stessa forma della coda ittica della dea-pesce ha spesso fattezze serpiformi. Questo spiegherebbe il nesso fra la dea-pesce e la dea-serpente, talvolta associata persino alla dea-drago. Lo stesso accade anche con entità maschili, basti pensare a sirene e tritoni, agli Oannes, sia maschi che femmine, così come agli spiriti Wata del Voodoo. Potremmo citare anche i Naga e le Nagini, divinità indiane maschili e femminili per metà antropomorfe e per metà serpenti. Il ruolo stesso che la sirena riveste nell’immaginario collettivo è quello di una creatura bellissima e pericolosa, una donna-pesce capace d’irretire gli uomini col suo fascino e la sua voce, cosa che in qualche modo ci rimanda alla nostra Mater Obscura, demonizzata in quanto seducente e genitrice di una stirpe maledetta agli occhi degli Yahwehiani. Nonostante il simbolo del pesce sia largamente diffuso, l’origine della Vescica Piscis è però indoaria, dove raffigurava la Vagina della Signora, simbolo per altro caratterizzato dalle proporzioni armoniche della geometria sacra e che quindi si riconnette alla Mater come Misuratrice. Nell’Ermetismo non è raro utilizzare la Vescica Piscis come simbolo dei genitali femminili, un esempio lo ritroviamo anche nella Dea Madre di Efeso, la quale ha un amuleto a forma di pesce in prossimità del pube. In effetti esiste anche una correlazione etimologica fra il termine madre e pesce, rintracciabile nel termine greco dephos, che indica appunto sia il pesce che “il grembo della matrice”.
Inevitabile a questi punti fare un accenno anche ai Dogon, popolo del Mali con conoscenze astronomiche così evolute per una tribù africana da essere stati oggetto di studio di numerosi antropologi. I Dogon facevano derivare le loro conoscenze ai Nommo, ossia entità più evolute con un aspetto comparabile a quello degli Oannes, con coda di pesce o rivestiti di squame. Secondo i Dogon [fra l’altro abbastanza curiosa l’assonanza con Dagon, il dio-pesce dei Filistei] i Nommo provenivano da Sirio, una stella che gli Egizi collegavano alla dea Iside, la quale veniva anche chiamata “Grande Pesce degli Abissi”. Non sarebbe a questi punti impossibile ipotizzare che lo stesso pesce che secondo il mito dello smembramento divorò il fallo di Osiride possa essere una metafora della Vescica Piscis di Iside. E nonostante al termine “sirena” venga attribuita altra etimologia, l’assonanza con il nome Sirio è a mio avviso abbastanza evidente. I Nommo, gli Oannes, i Caduti, non solo diedero conoscenza all’essere umano, ma vi si unirono carnalmente, generando la nostra Stirpe, il Clade Satanico. Questi primi Eredi dei Discesi potrebbero essere stati coloro che anticamente venivano chiamati Nephilim, Giganti, Semidei. Essi furono anche i primi Iniziati e i primi Iniziatori del Culto dopo che gli Dei lasciarono il nostro mondo. Ecco perché una chimera come il Capricorno rappresenta al meglio il Satanide, il figlio sacro nato dall’unione di Satana con l’essere umano, per metà pesce [la sua origine spirituale] e per metà capro [la sua natura terrena].
Sull’origine del Capricorno troviamo diversi miti, alcuni già intravisti nell’analisi del capro, come quello greco di Amaltea, la capra che allattò Zeus e che come ricompensa venne posta in alto nel Cielo. Secondo alcune versioni del mito ad allevare il piccolo Zeus fu la ninfa Adamantea, la quale aveva una capra da cui prendeva il latte, in altre versioni invece Adamantea e Amaltea erano la stessa creatura, una ninfa-capra. Anche sul finale del mito le versioni cambiano, talvolta raccontando di come Amaltea divenne la costellazione del Capricorno ed altre in cui divenne quella dell’Auriga. Presso i mesopotamici abbiamo già visto che il Capricorno, in sumero Suhur-Mas, la Capra-Pesce, fosse connesso a Eaganna, ossia Ea il pesce. Altro mito riguarda invece il Dio Pan, il quale si trovò costretto a fuggire insieme ad altri Dei dalla furia di Tifone. Gli Dei giunsero in Egitto e ognuno di loro si tramutò in un animale, mentre Pan, indeciso se fuggire sui monti o nel fiume, si trasfigurò in un pesce-capra.
Se mi è concesso azzardare ipotesi, il fatto che questo mito greco sia ambientato proprio nei pressi del Nilo, mi fa istintivamente pensare alla coppia divina di Mendes, dove troviamo un Dio Padre con volto criocefalo e una Dea Madre con coda di pesce. Data la natura ibrida del Capricorno non è dunque impossibile che esso – e dunque Baphomet – possa rappresentare una fusione fra il Dio e la Dea, cosa che spiegherebbe anche l’aspetto Androgino. Tale combinazione potrebbe voler semplicemente raccontare l’unione fisica e spirituale fra Padre e Madre, dando così i natali al Figlio, teoria che potrebbe collimare con la mia proposta etimologica inerente a Baphomet come acronimo di Pater – Fiulus – Mater, [Pa-Fi-Mat]. Altra possibilità è che l’unione di Capra e Pesce rappresenti semplicemente l’unione fra gli Oannes, di natura divina, e i primi umani iniziati al Sapere. Pertanto il Baphomet sarebbe il Primo Nato, il primo essere umano che conteneva in sé il sangue degli Dei, capostipite del nostro lignaggio satanico. Aggiungo che l’aspetto sessualmente duplice del Baphomet potrebbe far presume ad una doppia nascita, cosa che collimerebbe perfettamente con la mia dolce ossessione verso coloro che chiamo i “Gemelli Divini”. Ultima alternativa è che il dio Banebdjedet possa essere stato in origine non una divinità bensì il primo uomo iniziato dalla Signora, Hatmehit, dunque il primo essere umano auto-deificato e divenuto così primo custode del Culto. Quest’ultima possibilità combacerebbe con la visione di Long che vede nel Baphomet leviano la fusione di Signora e Sacerdote.
Ovviamente queste teorie potrebbero ispirare qualcuno e risultare per altri puri voli pindarici, tuttavia scopo del buon Iniziato è saper integrare le proprie Visioni e Memorie alla ricerca storica, cosa che ho fatto e di cui con piacere vi ho reso partecipi. Ma aldilà di queste possibilità più o meno discutibili, credo sia necessario comprendere che il Baphomet leviano priva l’idolo della sua Origine spirituale rappresentata dal pesce e che il Capricorno incarnerebbe dunque una forma più pura del simbolo bafometico. Un simbolo che ricorda agli Eredi della Sacra Stirpe che nonostante si viva in questa terra la nostra origine è nelle Acque del grande Abisso, dove possiamo discendere, e che come l’audace capra abbiamo anche il potere di scalare la Montagna. Un Erede è in grado di “camminare sulle acque”, poiché da esse proviene. Ovviamente per camminare sulle acque non s’intende in senso letterale: chi cammina sulle acque è chi sa camminare in sospeso fra i mondi, divenendo per mezzo del suo stesso sangue un ponte fra le diverse realtà. Il Capricorno è inoltre il segno che patrocina la Porta degli Dei, rappresentando così l’Ascensione, così come il Cancro rappresenta la Porta degli Uomini, da cui le anime discendono per incarnarsi sul piano terreno. In un certo senso il Capricorno contiene in sé anche la morte, ma è una morte necessaria alla rinascita trasformativa. Tutte queste peculiarità bene si adattano al reale significato di Baphomet.
OTTOGRAMMA
Ritengo la stella a cinque punte utilizzata da Levi appropriata, il suo simbolismo è ricco di significato. Anche la posizione della punta rivolta verso l’alto ben si armonizza col volto del capro, che richiama invece un pentagramma rivolto verso il basso. Sommando le cuspidi delle due figure otteniamo il numero dieci, anch’esso molto caro a Pitagora, come si può evincere anche dallo stesso tetraktis pitagorico. Tuttavia, per quanto il pentagramma mi piaccia, se si parla di Baphomet ho sempre trovato più calzante l’ottogramma, ossia la stella a otto punte. Il mio ragionamento si fonda su concetti astronomici, pertanto cercherò di rendermi il più chiara possibile a quanti non conoscano bene l’argomento. Il simbolo della stella a otto punte era usata dagli antichi come emblema della Stella del Mattino e della Stella della Sera, inizialmente osservati come due corpi celesti distinti e in seguito identificati da Pitagora in uno solo: Venere. Questo pianeta, visibile poco prima dell’alba e al crepuscolo, è detto anche Lucifero ed è connesso al Sacro Femminino. Proprio per tale ragione la stella a otto punte divenne uno dei simboli della Signora e ne ritroviamo un esempio nella celeberrima Stella di Ishtar. In seguito i Cristiani si appropriarono di questa figura e divenne un attributo della Madonna, rappresentata spesso con un ottogramma in mano, sullo scettro, in testa, sul manto o celato dietro al capo di Gesù bambino.
Il motivo per cui la stella a otto punte è connessa a Venere-Lucifero è dovuto al suo ciclo astronomico, corrispondente a otto anni. Ogni otto anni, infatti, Venere si trova alla congiuntura inferiore - termine che indica il punto più vicino alla Terra - e alla massima distanza dal piano di rotazione terrestre. In poche parole, Venere per tornare nella stessa posizione, e completare dunque la sua intera orbita, impiega otto anni terrestri, che corrispondono a tredici anni venusiani. Con stupefacente sincronicità, otto anni è anche la durata dell’octaeteride, periodo in cui avvengono esattamente novantanove lunazioni, un ciclo lunare di otto anni che veniva utilizzato negli antichi calendari lunisolari. Ma non finisce qui: le congiunzioni inferiori di Venere con la Terra si verificano nel suo periodo sinodico, che dura circa diciannove mesi terrestri. Ogni congiunzione si verifica però sempre in costellazioni differenti e per tornare esattamente al punto di partenza impiegherà, come abbiamo detto, otto anni terrestri. Ebbene durante questo periodo sinodico di otto anni avvengono esattamente cinque congiunzioni inferiori, congiunzioni che una volta unite danno proprio la forma di un pentagramma. [Nota: per periodo sinodico s’intende il tempo che impiega un pianeta per completare un’orbita, ossia per tornare nella stessa posizione rispetto al sole. Se il periodo siderale è il tempo oggettivo impiegato, quello sinodico è solo un tempo soggettivo, poiché è il tempo osservato dalla Terra, un tempo apparente e non effettivo, giacché anch’essa si muove].
Mi auguro che il concetto sul pentagramma formato astronomicamente da Venere sia chiaro, ma nel dubbio cercherò di spiegarlo in modo ancora più semplice: Venere compie ogni otto anni terrestri tredici giri intorno al Sole ed essendo più veloce della Terra la sorpassa per cinque volte. In questi cinque momenti avviene la cosiddetta congiunzione inferiore, dove Terra, Venere e Sole sono allineati. Unendo queste cinque congiunzioni inferiori nel giusto ordine si ottiene appunto il disegno del pentagramma. Ciò significa dunque che sia l’ottogramma che il pentagramma sono simboli di Venere. Associando la figura del Baphomet al muliebre non posso non trovare dunque entrambe le stelle azzeccate. Tuttavia, a mio avviso, l’errore di Levi sta nell’avere ripetuto due volte il pentagramma. Nell’iconografia leviana, per stessa ammissione dell’autore, il capro incarna già di per sé un pentagramma. Ritengo pertanto più adeguato porgli sulla fronte una stella a otto punte, altro simbolo di Venere. E fatto ancora più curioso è che se sommiamo le punte dell’ottogramma sulla fronte alle punte del pentagramma del volto caprino otteniamo il numero tredici, cifra che indica gli anni reali che Venere impiega per compiere un ciclo completo. Il fatto che i tredici anni venusiani corrispondano a otto anni terrestri fortifica anche la mia idea di Baphomet come incarnazione terrena dell’essenza divina, laddove il significato ultraterreno del tredici si tramuta nell’otto. Di seguito un breve video preso da Yuotube in cui potrete capire meglio la formazione astronomica del pentagramma di Venere. VIDEO
Il numero otto ha molti significati, pensiamo ad esempio alla stella di Ishtar, alla Ruota dell’Anno con le sue otto festività principali, all’Ottuplice Via, il nobile sentiero iniziatico buddista, o alla Ruota del Pa-Kwa taoista. Sempre restando in ambito orientale, come non pensare anche alla Dharmacakra, la Ruota del Dharma, la legge che governa l’universo e che ben si ricollega alla Maat egiziana. Otto è anche il numero dei petali del sacro Loto, così come è il numero della Rosa a otto petali, altro simbolo di Venere utilizzato in epoca medievale come segno di rinascita. Otto è anche il numero dei quadrati su ogni lato della scacchiera, gioco pregno di significati esoterici, la cui figura centrale è una Regina in grado di muoversi in ogni direzione - che per la cronaca sono proprio otto! L’ottava lama dei Tarocchi è la Giustizia, altro riferimento alla Signora nella sua veste di Giudice Divino. Graficamente l’otto richiama anche il simbolo dell’infinito, immagine che per un lungo periodo ha perseguitato con invadenza le mie Visioni, mostrandomi un otto orizzontale governato da un flusso di energia interna che lo percorreva, mutando il proprio colore ogni volta che l’energia entrava nell’altro ovale. Una voce risuonava nella mia testa pronunciando semplicemente: “La Via delle Api”. Ho la sensazione che quella Visione potesse parlare del ciclo perpetuo di nascita-morte. Altro particolare interessante legato a questo numero lo troviamo anche nella religione cristiana, dove gli stessi battisteri e le fonti battesimali hanno forma ottagonale. Dato che come abbiamo visto, il nome Baphomet etimologicamente potrebbe derivare da bapheus, battesimo, non è forse curioso che gli edifici adibiti al riti battesimali e le stesse fonti d’acqua siano proprio connesse al numero otto?
Infine vorrei citare la principale ragione che mi ha convinta che otto sia il numero migliore per la stella da porre sulla fronte del Baphomet. Da molti anni vi è un’immagine che s’impone sul mio Cammino: il rombo. Questa figura, che mi appare il più delle volte con le punte allungate fino talvolta a trasfigurare in una stella a quattro punte, è un segno dinamico, ha un suo movimento intrinseco, come se non potesse smettere di vibrare. Sinceramente non ho trovato molto sulla simbologia di questa figura, ma ciò che posso dirvi dalla mia esperienza diretta è che essa è connessa al Mundus, come se ne fosse una chiave. Un giorno osservando l’ottogramma mi sono resa conto che si configurava come l’integrazione di una quadrato con un rombo e in quel momento sentii che la mia intuizione sul rombo era dunque fondata, poiché il quadrato - e la sua evoluzione tridimensionale del cubo - è una figura geometrica fortemente terrena, statica, materiale, mentre il rombo è la sua controparte “storta”, “di traverso”, una realtà intersecata alla realtà. Ciò che chiamo Mundus, conosciuto anche come Astrale, altro non è che una realtà fondata su altre frequenze e pertanto su differenti leggi, concetto che ben si adatta al rapporto fra rombo e quadrato. Un rombo equilatero altro non è che un “quadrato diabolico”, letteralmente dal greco “dia-ballo”, messo di traverso, ma se modifichi il tuo punto di osservazione torna ad essere quadrato, dritto, acquisendo così la sua consistenza e la sua stabilità. L’ottogramma potrebbe dunque raffigurare la capacità di interagire in entrambi i mondi, il potere sulle leggi del mondo fisico [quadrato] e le leggi spirituali [rombo]. Essendo il Baphomet un Pesce-Capra, ossia un Ente divino disceso nella materia, incarnazione dell’Iniziatore Occulto primevo ma anche di ogni Iniziato che ne segue l’esempio, credo che l’ottogramma sia il segno della sua innata capacità di Camminare sulle Acque. Colui che Cammina sulle Acque è chi sa attingere da entrambi i mondi, giacché il suo sangue rende egli stesso la Porta fra i due.
BRACCIA
Sulla posizione delle braccia trovo la visione di Levi interessante ed in linea con l’Ermetismo, tuttavia forse la trovo incompleta. Perché “Come in alto così in basso” è senza dubbio corretto, ma ancora più corretto è “Come dentro così fuori”. Se osserviamo la realtà come qualcosa di “bidimensionale”, allora parlare di basso e alto può avere una sua logica, ma se si osserva il mondo in chiave “tridimensionale”, allora le cose cambiano. Per comprendere meglio ciò che affermo, dovete immaginare la realtà non come un cerchio diviso in un emisfero superiore ed un emisfero inferiore, bensì come una sfera, dove esiste appunto un dentro e un fuori. Il centro della sfera è un nucleo energetico capace di proiettare fuori la manifestazione. Provate per un attimo a immaginare che l’occhio non sia un semplice ricevitore d’immagini, bensì che esso sia invece ciò che le proietta attorno a noi.
Immaginate il mondo stesso come un grande occhio dove una pupilla centrale proietta sul suo stesso bulbo oculare la propria Luce, generando il diorama fenomenico, la realtà. Questa Luce interagisce continuamente con il Suono e genera la forma. Tale percorso ha un flusso toroidale, un continuo scambio fra Dentro e Fuori. A questo concetto di Dentro e Fuori, Luce e Suono, occorre aggiungere un terzo importante principio: Pieno e Vuoto. Tutta la realtà energetica è formata da spazi pieni e spazi vuoti e la materia, per quanto possa sembrare strano, è in realtà ricca di spazi vuoti. Ogni volta che il Suono produce la sua vibrazione genera uno spazio pieno e così le particelle di energia tendono a spostarsi laddove trovano spazi vuoti. Questo è il meccanismo con cui si genera la forma, attraverso un gioco di incastri fra il Pieno e il Vuoto, il Suono e la Luce. Mi rendo conto che ciò che affermo possa apparire poco chiaro a chi ha poca confidenza con la Visione e l’intuizione sensibile, ma non sempre è semplice trovare le giuste parole per spiegare ad altri ciò che non ci è mai stato detto ma soltanto mostrato. Per comprendere il linguaggio degli Dei è necessario imparare a pensare per immagini. Sulle braccia una scritta, sentita durante una meditazione di alcuni anni fa: Lux Vocis Vox Lucis.
SOLE E LUNA
La scelta di Levi sull’utilizzo di Chesed e Geburah, correlate alle due mezzelune, l’ho trovata lontana dal mio sentire ma tutto sommato lecita, illustrando ciò che mi convinceva della sua teoria e ciò che invece mi faceva sorgere qualche dubbio. In questo paragrafo abbandonerò dunque con grande piacere le riflessioni sulla Cabala ebraica e mi limiterò a rivedere l’immagine stessa delle due lune. Il fatto che Levi utilizzi una mezza luna bianca e una mezza luna nera, porta subito alla mente le fasi lunari, probabilmente la calante e la crescente. Non è una possibilità così assurda, potrebbe ben sposarsi alla tri-polarità della Signora, fanciulla, donna e vegliarda, ma a dirla tutta mi stride come la peggiore delle forzature.
Se dunque devo provare a ricostruire il Baphomet in linea con la Sapientia Satanica, direi che la miglior rappresentazione dovrebbe prevedere la sostituzione di due lune con un sole superiore e una luna inferiore. Questo cambiamento esprimerebbe per altro la natura androgina del Baphomet, che però, come ho illustrato nel paragrafo sulla sua androginia, non per forza è da intendersi solo come unione di maschile e femminile. L’androginia bafometica è la bipolarità di chi vive in entrambi i mondi, chi è sia terreno che divino allo stesso tempo. Ovviamente molti obbietteranno sostenendo che tradizionalmente il sole è connesso al maschile e la luna al femminile, e che pertanto sole e luna in un simile contesto non potrebbero che raccontare di un’androginia sessuale. La domanda che però vi pongo è: siamo sicuri che sole e luna siano per forza emblemi del maschile e del femminile?
Tradizionalmente siamo abituati ad associare il sole all’aspetto attivo-virile e la luna a quello passivo-muliebre, ma esistono molte tradizioni del passato in cui invece era consuetudine pensare proprio il contrario. Nonostante esistano numerosi Dei solari maschili, quali ad esempio il dio greco-romano Apollo, il dio Mitra, l’egizio Ra, ma anche l’arabo Malakbel, l’azteco Huitzilopochtli, l’irlandese Lugh, il celtico Belenos, così come l’indù Surya o anche l’Utu sumero corrispondente all’accadico Samas, detto anche Shamash, esistono anche moltissime divinità femminili del sole. Pensiamo ad esempio alla Signora dei Serpenti minoica, Grande Madre venerata a Creta, così come la dea urrita Hebat, assimilata all’itita Arinna, altra dea solare. Anche in Egitto, noto per celeberrime divinità solari quali Atum e Amon-Ra, conta anche su dee solari femminili, come la Grande Madre Hathor, Sekhmet e in origine persino Iside e Bastet. Presso le terre orientali troviamo grandi esempi di dee del sole, come la dea giapponese Amaterasu, il cui nome significa “paradiso splendente”, divinità talmente importante del pantheon scintoista che la stessa famiglia imperiale asserisce di derivare da Lei. Stessa cosa accade presso i miei amati Sciti, dove la dea principale è Tabiti, l’aspetto solare dell’oscura Argimpasa.
Tabiti è la dea del sole, la Signora che “riscalda e rischiara” e anche gli Sciti raccontavano di discendere da “una Dea-Serpente”, Colei che emerse dal Fiume Sacro. Sempre in Oriente troviamo poi la dea buddista Marici, Signora del cielo e del sole. In Mesopotamia mi viene in mente ad esempio la cananea Shapash, detta anche Shemash, nome per altro molto simile al dio del sole accadico Shamsah. Ella era detta la “Torcia degli Dei” ed era figlia di Asherah, dea che se ricordate abbiamo già incontrato in questo paragrafo, in veste di “Colei che Cammina sul Mare”. Presso gli Etruschi troviamo poi Thesan-Catha, una dea solare legata in particolar modo al sole nascente e calante, fasi emblematiche dell’Iniziazione di cui era occulta maestra. Fra i misteriosi Baschi incontriamo poi Ekhi, detta anche Eguzki, dea del sole che come l’etrusca Thesan-Catha aveva forti connessioni con l’Iniziazione Misterica, dato che come Ishtar-Demetra-Persefone discendeva negli Inferi del Tramonto per tornare dalla Madre Oscura che abitava nelle viscere della terra. [Nota: Nel mito classico Persefone deve discendere dallo sposo Ade, il quale la rapisce esattamente come la ctonia dea basca Mari era solita rapire coloro che riteneva degne di diventare sue Iniziate].
Ma il luogo in cui si sviluppò maggiormente il concetto di dea solare è forse il Nord Europa, dove ne troviamo svariati esempi. Tutt’oggi nelle lingue germaniche il termine sole è femminile, mentre luna è maschile. Per i Nordici il giorno in cui celebrare la potenza del sole era il Solstizio d’Inverno, chiamato niente meno che “Notte delle Madri”. Questa notte sacra divenne in seguito associata al sole-maschile, attraverso miti come quello di Mitra e del Cristo, ma originariamente era legata a divinità femminili, come ad esempio la dea lituana Saule, sorella del dio lunare Meness, nota per viaggiare su di un carro trainato da renne durante la notte del Solstizio, offrendo agli uomini sulla terra le sue lacrime di ambra, metafora dei raggi del sole. Altro mito simile è quello della dea lappone Beiwe, la quale, sempre nella notte del Solstizio Invernale, viaggiava con le sue renne e la figlia Beaivi-nieida, distribuendo sulla terra doni e fertilità. Non vi ricordano forse queste tradizioni nordiche la leggenda di Babbo Natale? Non a caso anche i colori tradizionali di queste Signore solari del Grande Nord erano proprio il rosso e il bianco, colori usati anche dalle sciamane siberiane durante le loro celebrazioni. Gli stessi colori venivano usati nei ricami in onore della dea slava Rozhanitza, anch’Ella signora del Solstizio e legata al sole e alle renne. E come non citare infine la celebre Freya, dea norrena che durante la notte di Yule tesseva le sorti del nuovo anno? Per non parlare della stessa dea norrena Sol, divinità del sole inseguita dall’oscuro lupo Skol, il quale da sempre brama di divorarla. Mito simile lo ritroviamo presso gli Inuit della Groenlandia, dove il dio della luna Anningan insegue perennemente la sorella Malina, dea del sole. La dea Sol, inoltre, aveva come fratello il dio Mani, considerato un dio lunare, poichè trasportava con il suo carro l’astro notturno nella volta celeste.
A tal proposito, così come esistono dee solari, troviamo numerose tracce anche di divinità maschili connesse alla luna. Come ci sono molteplici dee lunari, quali ad esempio le greche Artemide, Selene ed Ecate, la romana Diana, l’etrusca Artume o l’azteca Coyolxauhqui, così troviamo divinità maschili come il turco Ay Ata, chiamato anche Ay Tanrı o Ay Dede, compagno per altro di un’altra dea solare, la signora del cielo Gun Ana. Anche in Giappone, così come troviamo la dea del sole Amaterasu, incontriamo il dio lunare Tsukuyomi, e fra gli Ainu, popolo del Nord del Giappone, abbiamo un’altra coppia divina, formata dalla dea del sole Tokapcup-kamuy e il dio lunare Kunnecup-kamuy. Presso gli Egiziani, oltre a Iside e Bastet, inizialmente legate al sole e in seguito divenute dee lunari, troviamo come divinità maschili della luna anche Thot e Khonsu, entrambi dei della Sapientia. In Arabia abbiamo Wadd, nume preislamico della luna e dell’amore, fra gli Urriti incontriamo il dio Kusuh, assimilato all’ittita Kaskuh, entrambi lunari. Celebre fra i Babilonesi è il dio Nanna, o Sin, mentre fra i Cananei troviamo il dio lunare Yarikh. In Siria, terra della meravigliosa Signora Syria/Derceto, troviamo la figura ambivalente del dio Agli-Bol, talvolta identificato con il sole e altre con la luna. Interessante divinità maschile della luna è poi l’anatolico Men, molto venerato e spesso assimilato con il frigio Sabazio, misteriosa figura legata ai culti misterici in quanto figlio di Persefone, già citata nell’analisi delle Braccia e delle Mani. Infine vorrei citare Dundra, dio lunare degli Zingari, la cui leggenda racconta di come fosse stato inviato da Dio sulla terra proprio per civilizzare gli uomini, tornando poi nel regno divino una volta portato a termine il suo compito.
Il dio Dundra, così come il misterico Men/Sabazio, mi offrono uno spunto favorevole per illustrarvi la mia teoria sul vero significato della diade Sole/Luna. Non sono difatti incline a credere che questi due archetipi siano indicatori di genere sessuale, bensì di uno stato esistenziale dell’anima. Se si parla di pianeti, sono più portata a vedere nella dicotomia sessuale Marte e Venere, rispettivamente il primo in vece di forza maschile-espansiva e il secondo come energia femminile-attrattiva. Luna e Sole ritengo che siano invece simboli di “ubicazione”, capaci di indicarci in quale luogo - o meglio condizione - si trova un’anima. Il Sole rappresenta l’anima nel mondo dello spirito, l’anima nel suo stato puro ed eterico, l’anima che abita nel Diamante, oltre le geometrie dell’ordine terreno. La Luna, di contro, simboleggia l’anima discesa nella pesantezza saturniana del piombo terrestre, è l’anima solare che discende sul piano terreno per sperimentare la condizione umana. Laddove il Sole rappresenta l’anima e il mondo spirituale, la Terra rappresenta il corpo e il mondo terreno. La luna si configura dunque come ciò che si frappone fra i due mondi, è la coscienza che illumina l’oscurità terrena, la scintilla divina che sacralizza la corporalità.
Ricordo che a scuola mi dicevano che ogni mito sugli Dei era stato creato per spiegare i fenomeni della natura. Io invece son dell’idea che forse siano proprio i fenomeni della natura a essere stati creati per raccontarci la storia degli Dei, per raccontarci di Loro e di Noi. Ecco dunque che la natura diviene così la miglior dottrina da cui un Iniziato possa imparare. E se osserviamo la luna, scopriamo che la dottrina della natura ci ha voluto offrire la più grande figura prometeica della storia umana e divina. Non è forse la luna un Lucifero che ruba la luce al Sole per illuminare la Notte degli uomini? E non è forse questa stessa Notte a incarnare quella che nei fatti è la vita umana, una dura discesa negli inferi del terreno, per poi risorgere come un sole all’Alba? Ecco che la luna diviene il Prometeo che ruba il fuoco agli Dei, diviene il Raven dei Nativi che offre la luce degli astri agli uomini, diviene Ishtar che sottrae i Me al saggio Enki per donarli ai suoi protetti.
La Luna che dunque brilla della luce riflessa dal Sole non dovrebbe rappresentare il pomo della discordia fra sostenitori accaniti del Patriarcato o del Matriarcato, perché la divinità lunare, maschile o femminile che sia, non attinge la sua luce dal genere opposto, ma la prende direttamente dalla sua anima divina. La Luna è il riflesso del Sole sulla Terra, è la luce stessa dell’anima solare in terra. Ecco dunque che gli Dei sono in origine tutti inevitabilmente solari e solo quanti fra Loro hanno scelto di divenire Demoni, ossia anime Discese per portare Conoscenza all’uomo, possono dirsi anche lunari. Questo spiega il motivo per cui esistono sia dee che dei solari e lunari, poiché la Luna indica Colui o Colei che scelse di condividere la Notte dell’Anima insieme all’uomo, portandogli la luce del mondo divino, luce rappresentata dal Sole e riflessa dall’archetipo della Luna. Va da sé che, a mio modesto parere, nell’effige bafometica sarebbe preferibile porre in alto un sole - sebbene ancor meglio sarebbe porlo dentro - e in basso, all’esterno, una luna.
Ricostruzione Statua Baphomet
Quando studio qualcosa di nuovo, solitamente sento sempre l’esigenza di calarmi all’interno dell’energia stessa di quel qualcosa. Cerco di mantenere la mia mente costantemente connessa al divino, in particolare all’oggetto della mia ricerca. Spesso l’arte diviene dunque la mia ierofania, il mezzo che mi permette d’immergermi completamente nell’essenza del Sacro. E l’essenza di Baphomet è stata una presenza costante dell’ultimo anno, l’essenza della Mater Obscura, a cui ogni giorno dedicavo meditazioni, liturgie, canti e orazioni, studio e soprattutto opere. Ecco perché, oltre all’illustrazione all’inizio di quest’ultimo paragrafo, ho speso diversi mesi nella creazione di una nuova statua d’altare dedicata a Baphomet, una statua ricreata sulla base del mio Sentire e che ora svetta austera sul mio Altare. Il Baphomet è una figura che mi ha sempre affascinata e la versione di Levi, per quanto per certi aspetti si allontani dalla mia visione, resta comunque per me sacra. Spero che anche la reinterpretazione che vi ho proposto possa in qualche modo avervi ispirato e a tal proposito nel link seguente potete visionare la ricostruzione della statua.
Siamo giunti al termine di questo lungo viaggio nel mondo di Baphomet, l’Iniziatore Occulto che sin dagli albori mostra ai Viandanti la Terza Via, il sentiero che riporta a Casa, alla sublimazione di se stessi. La natura di Baphomet risuona negli Eredi del Clade Satanico come un ricordo antico, come un’insegna grandiosa del Culto delle Origini, fulcro di una Tradizione che non ha mai smesso di vivere e di forgiare spiriti eroici. Un Culto che nel corso delle epoche ha cambiato la propria forma, ma mai la sua essenza. Siamo partiti dai fatti storici che circondano l’idolo templare, esaminando gli elementi più frequenti ritrovati nelle numerose deposizioni e avviando così la nostra indagine fra i simboli dell’Iniziazione Occulta. Abbiamo riscoperto tradizioni, dei e miti diversi, ma connessi gli uni agli altri da una radice comune. Abbiamo scavato nella ricerca etimologica, analizzando le teorie dei maggiori esponenti del pensiero esoterico occidentale, abbiamo sviscerato i segreti dell’icona celeberrima di Levi e abbiamo anche avanzato nuove ipotesi, nuove intuizioni, nuove ricostruzioni. E ora che siamo giunti alla fine dobbiamo fermarci e tirare le somme.
Cosa c’è di storicamente tangibile in merito al Baphomet? Le testimonianze templari sono tutt’oggi oggetto di discussione, dato che non è semplice stabilire quanto possa esserci di vero in dichiarazioni ottenute sotto tortura, tuttavia quasi tutte presentavano un elemento comune e consisteva nell’adorazione di una testa. La nostra prima ipotesi è stata la testa di Osiride, parte fondante di un culto delle reliquie connesso allo smembramento del Dio. Ovviamente non è mai stata ritrovata nessuna testa di Osiride, mentre fra gli oggetti rinvenuti e ricollegati all’ordine templare, andrebbe citato il Caput LVIII m, una testa d’argento con fattezze femminili, al cui interno vi erano ossa di un cranio. La parte superiore della testa era mobile e fu trovata avvolta in un drappo bianco e in uno rosso, all’interno di un reliquario a Parigi. Un’etichetta recitava le parole Caput 58 m, in numeri romani. Testa 58 m, forse un riferimento al fatto che ogni presidio possedeva uno di questi oggetti sacri? O forse solo un numero simbolico? Cinque e otto, numeri che come abbiamo visto nell’analisi del Baphomet leviano, parlando di pentagramma e ottogramma, sono connessi al pianeta Venere, così come anche il tredici, somma di cinque e otto. La lettera “m” del finale è stata invece identificata come possibile iniziale di termini quali Madre, Maria, Maddalena e personalmente nel ventaglio delle possibilità includerei senza dubbio anche Maat. Altra ipotesi degli studiosi è che essa afferisse al simbolo astrologico della Vergine. Potrei inoltre aggiungere, tanto per offrire uno spunto di riflessione in più, che nell’alfabeto fenicio - e in seguito anche in quello ebraico - la “m” è esattamente la tredicesima lettera. Il suo significato è quello di “acqua”, concetto che va esteso alle acque spirituali, responsabili del movimento, del fluire e del mutamento cosmico. Ad essa è attribuito il potere della manifestazione e, nonostante sia connessa spiritualmente all’acqua, nel mondo fenomenico essa rappresenta un simbolo di terra. Secondo lo studioso Sepher Jasirah, la lettera mem [m] è anche simbolo del “freddo dell’anno”, immagine che istintivamente collego al Solstizio Invernale. Allo stesso modo questa ambiguità fra acqua spirituale e terra mi fa pensare nuovamente al Capricorno, tutti simboli già analizzati abbondantemente e connessi a Baphomet. Ulteriore significato della lettera “m” si lega al concetto di morte spirituale e distacco terreno, elementi che ci riportano ai riti sinistri e al mito delle teste mozzate.
Altre teste misteriose, oltre al Caput LVIII m, sono ad esempio le cosiddette “teste automatiche”, dette anche “teste di Maometto”, particolari marchingegni celati sottoforma di piccoli automi dalle fattezze saracene. Le teste automatiche hanno un forte legame con le Teste di Moro, già prese in esame nei paragrafi precedenti, ed erano molto diffuse nel medioevo, soprattutto in Francia e Boemia. Papa Silvestro II - l’alchimista e astrologo Gerberto d’Aurillac - ne possedeva una che si diceva sapesse rispondere “si o no” alle domande. Ne aveva una anche Paracelso e si narra che la sua testa di moro fosse in grado di fare addirittura le diagnosi. Non è ben chiaro se queste teste fossero rudimentali congegni meccanici o se invece fossero veri e propri oggetti sacri con funzione oracolare. Se però si parla di “teste parlanti” non può non venirci in mente il mito norreno del gigante Mirmir, creatura dall’immensa saggezza, dalla cui fonte berrà anche il Dio Odino. In una delle varie leggende si racconta di come Odino consultasse la testa recisa di Mirmir, proprio come un oracolo. Altra nota testa oracolare è poi senza dubbio la testa di Orpheus, decollato dalle Menadi, seguaci di Dioniso.
(IMG)
Oltre al Caput LVIII m e alle teste automatiche, altro curioso rinvenimento è una particolare incisione di Baphomet, ritrovata sul cosiddetto cofanetto di Essarois. L’illustrazione è tratta da un libro del 1857 dal titolo Die Schuld der Templar, di Purgstall, autore che come abbiamo visto ha condotto studi approfonditi sulla figura del Baphomet. Osservando l’immagine sul cofanetto, la prima cosa che mi è saltata all’occhio è la somiglianza con il Sigillo di Astaroth e in un secondo ritrovamento similare con il Veve di Damballa. Nel Baphomet ritrovato sul cofanetto, la donna centrale richiama la forma della stella del sigillo, mentre i due bastoni a lato ricordano le due linee accanto alla stella. Nel secondo ritrovamento il bastone coronato ricorda il Baphomet centrale e i due bastoni i due serpenti, senza contare gli astri ad asterisco ai lati.
Il nome Astaroth deriva dalla Dea Astarte, come forma plurale del termine Astareth. Secondo alcuni studiosi la declinazione al plurale era dovuta al gran numero di statue e rappresentazione della Signora, le quali venivano appunto definite le “Astaroth”, mentre per altri ricercatori fu una semplice distorsione linguistica dovuta all’ignoranza di quanti a posteriori non sapevano che “il Demone” corrispondesse alla Divinità. In un modo o nell’altro trovo bello l’utilizzo del plurale per Astaroth, mi fa pensare a ciò che definisco “le Signore in Mater”, emanazioni della Sacra Rosa del Diamante, Signora dei Serpenti che attraverso il Suo sangue ha continuato a Vivere e diffondere il suo Verbo. Sebbene l’etimo stessa del nome sottintenda la natura femminile di Astaroth, la tradizione salomonica è solita descriverla come un entità maschile. Sorvolando sulle consuete blasfemie che possiamo trovare nei grimori giudeo-cristiani, in Pseudomonarchia Daemonum del Wier leggiamo una descrizione di Astaroth che la vedrebbe come un duca che cavalca una drago, tenendo in mano una vipera. Nel Dictionnaire Infernal del De Plancy, invece, Astaroth viene descritta come un uomo nudo con ali di drago e anche qui tiene in mano un serpente. Nell’iconografia di matrice salomonica i Demoni vengono sempre rappresentati in modo offensivo, con il fine di degradarne la magnificente natura divina. Nonostante il tentativo di conferire agli Dei fattezze grottesche, in queste rappresentazioni l’Iniziato può comunque cogliere alcuni indizi sulla natura della Divinità. Nel caso di Astaroth possiamo riscontrare alcuni elementi in comunque con il Baphomet, o per lo meno con la ricostruzione che vi ho proposto. Astaroth viene infatti raffigurata con ali di drago o talvolta mentre cavalca un drago o anche con coda serpiforme, richiamo alle varie forme della Dea Pesce/Serpente/Drago che abbiamo incontrato. Anche tenere fra le mani un serpente è un richiamo alla Signora, rappresentata in diverse culture con uno o due serpi in mano. Una descrizione interessante di Astaroth la troviamo poi in Legioni di Shaytan di Ottavio Adriano Spinelli:
“Talvolta Demoniaca Guerriera e sempre Dea dell’Amore, sono Colei che, leggera, cammina sulle acque del caos. Eletta agli altari, appellami Patrona della purezza istintiva e superna Sacerdotessa dei Misteri generati nella ferita del sesso diviso”.
Non solo Spinelli restituisce nuovamente ad Astaroth la sua femminilità, ma la descrive come “Colei che cammina sulle acque del caos” e se avete letto attentamente i paragrafi precedenti, ricorderete che abbiamo già incontrato la Signora che cammina sulle acque, Colei che cammina sul mare, dove per acque si intende proprio ciò che separa e unisce i Mondi. Il riferimento alla Sacerdotessa dei Misteri rimanda direttamente all’Iniziatore Occulto, la Sacra Madre dei culti misterici, così come il riferimento al sesso diviso potrebbe perfettamente collegarsi al mito dell’Androgino di Platone, dando ulteriore conferma a certe intuizioni.
Per quanto riguarda il richiamo a Damballa, mi avvalgo di un estratto dell’articolo La Via del Serpente - Dal Voodoo Afro-Americano al Ventre di Da di Kate Ecdysis.
“Quando la Terra fu completa, Damballa si acciambellò sotto di essa per sorreggerne il peso, e siccome sentiva molto caldo, il Nana-Buluku diventò l'immensa acqua dell'Oceano, in modo che Damballa potesse attorcigliarsi attorno alla Terra formando un immenso Uroboro, e ad ogni giro rinnovare un Ciclo di Rinascita. Esattamente come lo Spazio-Tempo sostiene il qui-e-ora di ogni cosa, Damballa è ancora là, eppure può essere anche altrove: e infatti, dopo che la Terra fu completa e Damballa era entrato nelle Acque di Sotto a rinfrescarsi, in realtà poco dopo ne uscì anche, perché era giunto per lui il momento di fare la muta. Srotolando le sue settemila spire si protese verso il Sole, e la Luce scintillò sulla sua pelle nuova, imperlata di miriadi di goccioline di acqua, e luccicando sul suo corpo immenso, dalla sua pelle si sprigionò l'Iridescenza. Damballa osservò l'Iridescenza sollevarsi da Se Stesso, aumentare di intensità fino a formare un gigantesco, magnifico Arcobaleno, e pensò che l'Iridescenza era bellissima, talmente bella che se ne innamorò. Allora Damballa-Wedo volle che l'Iridescenza avesse corpo, e la plasmò identica a Se Stesso: la chiamò Ay-Da We-Do, che significa 'La Conoscenza del Serpente che viene dal Sole', e ad Essa volle unirsi per l'Eternità. Così nacque la Madre Ayda-Wedo, signora del Cielo e dell'Arcobaleno, Riflesso luminoso di Damballa e sua preziosissima Consorte. Ed è così che Damballa e Ayda danzano la Danza degli Opposti, in un vortice incessante che genera Equilibrio e Perfezione. Ayda Wedo è dunque Damballa stesso, suo riflesso e sua emanazione: Ayda Wedo è la seconda Manifestazione della Madre, che dopo la forma ancestrale di Mawu qui si mostra corporea, immensa, a danzare l'Equilibrio attorno all'Asse del Mondo come un infinito Arcobaleno che unisce Terra e Cielo”.
Da questa splendida leggenda yoruba possiamo cogliere molti elementi interessanti. La prima cosa che possiamo notare è che Damballa appare come un serpente, animale demonizzato dalle dottrine yahwehiane ma baluardo di sapienza in molte tradizioni antiche, nonché fondamento della Creazione. Se ricordate abbiamo incontrato un mito simile in seno all’Induismo, dove il serpente Vrtra come un Uroboro avvolgeva ogni cosa e quando Indra lo uccise ebbe luogo la Creazione. Se nella cosmogonia vedica il Grande Serpente ha una funzione passiva, in quella yoruba Damballa è invece partecipe dell’atto creativo. Altro dettaglio da non sottovalutare è la diversa energia con cui la realtà e la vita vengono generate. Nei Veda tutto si crea grazie al sacrificio di Vrtra, una forza passiva che viene travolta da un’energia attiva - ricordiamo infatti che Indra è dio della guerra, pertanto energia marziale ed espansiva. Damballa invece, oltre a originare autonomamente il mondo con la sua danza, genera anche un altro tipo di creazione, la Vita, e non lo fa per mezzo della guerra, bensì dell’amore. Come abbiamo visto nel paragrafo sul Caduceo, amore e guerra sono due energie opposte ma complementari, corrispondenti al femminile/attrattivo e al maschile/espansivo. Come Tiresia ed Hermes creano il Caduceo attraverso energie differenti, [Tiresia divide i due serpenti amanti, Hermes separa i due serpenti in lotta] così Vrtra e Damballa creano a loro volta sfruttando rispettivamente le medesime energie. Di Damballa si dice inoltre che il suo colore sia il bianco, mentre il colore della sua creatura Ayda-Wedo è tutto lo spettro dell’arcobaleno: nel paragrafo sull’etimologia del Tintore abbiamo già espresso questo concetto. Il colore bianco è perfettamente in linea con la natura monadica dell’Uroboro, poiché esso contiene in sé ogni altro colore. Solo dal bianco possono nascere tutti i colori, esattamente come da Damballa nasce Ayda, a mio avviso allegoria della creatura come manifestazione stessa della divinità creante. Kate Ecdysis non manca difatti di ricordare come Ayda-Wedo sia emanazione di Damballa, il quale, innamoratosi del proprio riflesso, ha dato corporalità alla sua essenza, a mio avviso metafora della discesa terrena. Ritengo che il mito di Damballa-Ayda ci parli dell’anima che si fa carne per esperire se stessa. Damballa, nella miriade di goccioline illuminate dal sole, vede se stesso e pertanto crea Ayda a “sua immagine e somiglianza”.
Astaroth come plurale di Astareth, l’Arcobaleno di Damballa, tutte metafore della Divinità integra che frammenta se stessa nelle sue teofanie immanenti. I colori del mondo sorti dal bianco trascendentale, le tante Signore in Mater, le Astaroth che nascono dalla fonte primordiale Astarte. Questo concetto si ricollega all’interpretazione di un Baphomet inteso come emblema della divinità che discende per esperire l’esistenza in una condizione infera, insegnando agli uomini il sentiero per risalire verso il supernale. L’Iniziatore Occulto è Colei che per insegnare ai ciechi a Vedere si tolse Ella stessa gli occhi, mostrando la via per riacquistarli. L’effige sul cofanetto di Essarois, il sigillo di Astaroth, il veve di Damballa, il Caduceo, il Tridente, la runa Algiz, tutti simboli della Terza Via, del Terzo Serpente, dell’Androgino nel senso più sacro del termine. In tutte queste effigi possiamo scoprire l’insegnamento più prezioso, ossia la dualità come strumento esperienziale volto all’integrazione degli opposti, l’unione erotica delle polarità al fine di una terza creazione del tutto simile alla monade da cui le polarità stesse sono sorte. La trinità dell’essere rinato è la monade che ha viaggiato fra le diadi del mondo fenomenico, un’enorme conquista per ogni Iniziato.
Ayda Wedo come manifestazione del Serpente Damballa, le Astaroth come avatara di Astereth, il demoniaco stesso come intermediario fra supernale e infernale, anima e carne, o come direbbero gli Gnostici, Pleroma e Materia. Proprio nello Gnosticismo scopriamo una dicotomia insita nella stessa Sophia che, secondo alcune scuole di pensiero, sarebbe divisa fra Alta Sapienza e Bassa Sapienza. Il parallelo fra la saggezza superiore e quella inferiore è a mio avviso da interpretarsi come la duplice natura della Signora, appellata come Sophia quando Ella regna nel Pleroma, il Diamante, e Achamoth quando invece Discende nella materia, facendosi carne. Sophia e Achamoth sono come due sorelle, una di luce e una di tenebra - o se vogliamo una madre ed una figlia - l’una che abita i Cieli e l’altra che abita negli inferi terreni. In qualunque modo le vogliate guardare, esse sono due, eppure sono sempre una. Secondo il mito, Sophia abitava nel più alto dei Cieli, ma quando venne sedotta dal demone Authades, Ella venne trascinata nell’Abisso. In questo racconto si può cogliere un parallelo con la Genesi biblica, dove il Serpente seduce la donna trascinando l’umanità sulla Terra, e anche con gli stessi Misteri, dove il dio infero Ade rapisce Persefone e la porta con sé nelle Tenebre.
A ricalcare le orme della figura intermediaria fra i mondi, troviamo un’altra epifania della Mater a cui sono particolarmente legata, dato che la sua scoperta è stata frutto del mio Sentire esattamente come fu per gli Sciti. Se però per la Scizia fu la comunicazione diretta col Guardiano ad indicarmi il Cammino, nel caso di Mefite il suo nome è stato come un fulmine nella memoria dell’anima, sopraggiunto una notte a seguito delle Orazioni. Il nome Mefite deriva dalla lingua osca e significa “Colei che sta nel mezzo”, inteso come chi si frappone fra i mondi. Il suo culto era diffuso in Italia, in particolare nel territorio dei Sanniti. Ancora oggi esistono numerosi santuari dedicati alla dea Mefite, sparsi fra il nord e il centro Italia, come Lodi, Cremona, Roma, Tivoli e diversi nella regione Campania, in Irpinia. Degne di nota sono in particolare la Valle d’Ansanto e la zona di Roccamonfina. La prima era considerata uno dei principali luoghi di celebrazione di Mefite; la valle era caratterizzata da sorgenti solfuree, le cui esalazioni gassose rendevano l’area spettrale. Tutt’oggi la Mefite è attiva - nome dato alla zona stessa - e il visitatore spavaldo che scegliesse di ignorare il grande cartello che avvisa di “pericolo di morte”, si troverebbe a camminare in una terra arida e letale, circondata da boschi selvaggi e costellata da numerosi cadaveri di animali rimasti lì troppo a lungo. Della terra di Mefite troviamo un accenno anche nell’Eneide, VII Canto, Versi 563-565:
“Est locus Italiae medio sub montibus altis, nobilis et fama multis memoratus in oris, Ampsancti valles. Hic specus horrendum et saevi spiracula Ditis monstrantur, ruptoque ingens Acheronte vorago pestiferas aperit fauces.”
[Traduzione: Vi è nell’Italia centrale un luogo alle pendici di alti monti, celebrato e famoso in molte regioni, la valle d’Ansanto. Qui un orrenda spelonca e diversi spiragli di Dite vengono mostrati e una grande voragine dove inizia l’Acheronte apre le pestifere fauci.]
Anche Servio spende alcune parole sulla Valle d’Ansanto:
“Proprio per questo lì c'è l'ingresso dell'Ade; il cattivo odore dell'aria uccide tutti quelli che si avvicinano, al punto che il loro modo di sacrificare consiste non già nell'immolare gli animali, ma nell'avvicinarli all'acqua sulfurea dove muoiono per soffocamento”. - Ad aeneid VII, 562.
La Mefite si configura dunque come una dea ctonia, Colei che resta sulla Soglia, in sospeso fra terra e cielo, ma anche fra terra ed inferi. Il rito sacrificale di cui parla Servio è altresì particolare, poiché richiama ad una vera Discesa verso le porte di Dite, per accompagnare la propria offerta o direttamente per mettersi alla prova. Dal momento poi che le venefiche esalazioni uccidevano la vittima senza dolorosi spargimenti di sangue, tale ritualità era vista come una diretta partecipazione della Dea, la quale in maniera indipendente avrebbe scelto se prendere o meno la sua offerta. Il ruolo di Mefite limitato al dominio sulle fonti solforose è però soltanto retaggio Romano, dato che in tempi più antichi Ella era considerata una divinità di rilievo con maggiori prerogative. A Mefite era ad esempio attribuito il potere su ogni acqua sorgiva, sia terrestre che sotterranea, che essa fosse limpida e pura o fetida e stagnante. A Mefite era anche connesso il fuoco, in particolare quello vulcanico. Proprio per questa sua qualità le era sacro un altro importante luogo della Campania, ossia la zona di Roccamonfina. Diversi studi sono propensi a credere che il nome stesso del paese e dell’omonima riserva naturale derivino proprio da Mefite, letteralmente “rocca di Mefite”. L’area della Roccamonfina si è formata su di una grande caldera vulcanica e in un antico acquedotto sotterraneo è stato rinvenuto il nome Mefite in lingua osca. Ciò che possiamo trovare in comune fra Mefite e la nostra ricostruzione bafometica, oltre ad una vaga assonanza nel nome, è sicuramente il suo ruolo di Signora della Soglia, intermediaria fra i mondi, così come la funzione iniziatica a carattere sinistro, l’egemonia sulle forze sotterranee, sull’acqua e sul fuoco, e dulcis in fundo, sacre le erano le capre. Per tutte queste ragioni ho un affetto particolare verso la forma mefitica della Mater, così come mi sento profondamente legata alla Trina Ceres-Kore-Hekate e all’oscura Signora del Sacro Fiume, Tabiti-Argimpasa, Madre scita.
Un aspetto della Mefite da sottolineare è senza dubbio la sua veste di Signora della Porta, poiché sono proprio i numi che presenziano i passaggi ad essere i Tessitori del nostro Cammino. La Mefite, “Colei che sta in mezzo”, il Guardiano della Soglia, la stessa Janua/Janus, tutti miti diversi con una medesima essenza. Dietro alla moltitudine di racconti essoterici che costellano il mito si cela un profondo mitologema che, se interpretato correttamente, può fornire all’Iniziato un’importante comprensione esoterica. La divinità gemina rappresentata da Mefite, o da Janua/Janus, non è dunque soltanto il custode della Porta ma anche la Porta stessa. L’Iniziatore Occulto, che come suggerisce il nome presiede gli inizi, è quell’Ente che muta la sua forma per permettere all’Iniziato di sperimentare l’energia stessa di ogni Soglia. La Divinità si rende portale vivente e si lascia attraversare dall’Iniziato, il quale potrà così penetrare letteralmente dentro il Dio, esplorandone di Porta in Porta i vari aspetti. Ad ogni passaggio l’Iniziato trova un pezzo della Potenza Divina e infine, come Iside, dovrà ricomporla, scoprendo così la Sua vera natura e di conseguenza anche la propria.
In un articolo del 1988, pubblicato sulla rivista Abstracta, lo scrittore Alfonso di Nola farebbe derivare il ben noto nome di Mefisto proprio dall’antica dea Mefite e anche nel Faust di Goethe troviamo un interessante riferimento al regno delle Madri:
“Faust: Qual è la Via per raggiungere le Madri?
Mephistofeles: Nessuna. Verso l’Inesplorato inesplorabile. Verso l’Inottenuto inottenibile. Sei pronto? Serrature e catenacci da forzare non vi saranno. Ti troverai fra immense solitudini travolto. Hai tu concetto chiaro di ciò che Vuoto sia, di ciò che solitudine può dirsi?”
Nonostante il Faust di Goethe descriva il Diavolo in chiave prettamente cristiana, è altresì vero che il Praticante potrebbe scoprire in quest’opera un poema iniziatico in cui il protagonista sarà combattuto fra la Sapienza e la vacuità del mondano. Il poetico passaggio riportato, e in parte semplificato per una più chiara comprensione, descrive il viaggio verso Le Madri come una Discesa nell’Abisso, nel proprio baratro animico in cerco di se stessi, oltre lo spazio e il tempo, oltre ogni terrena distrazione. Mefisto parla di “inesplorato inesplorabile”, di “inottenuto inottenibile”, poiché quel regno è in un mondo oltre il mondo, un mondo talmente vicino eppure così lontano, un mondo dove non puoi trattenere perché ogni cosa scivola via come acqua fra le mani, dove nulla puoi avere ma solo Essere. Il Vuoto della vergine Tenebra che solo con la tua luce potrai riempire. Questo è il regno delle Madri, la sacra landa delle Signore in Mater, la terra del Sole Nero dove il blu e il rosso s’incontrano all’occhio di chi sa Vedere. E il nostro Baphomet si prepone come custode di questo antico segreto misterico, incarnando la Sapienza infera per elevarci al supernale. Baphomet è la Sophia che rinuncia al suo abito regale e si getta nuda nel fango, per restare al nostro fianco nella palude dell’oscurantismo mondano, insegnandoci a scavare nel putrido della terra alla ricerca del caput mortuum alchemico, lo scarto, l’imperfezione della profanità, l’oscuro che va attraversato al fine della suprema sublimazione di se stessi e del proprio Clade. Il Leone Verde che ambisce al potere divino e divora il Sole, oscurando così ogni cosa attorno per illuminare la propria interiorità. Il Satanide però conosce quel buio e non lo teme, anzi, lo usa al fine di risorgere egli stesso come nuovo Sole, luciferando nel nome della Divinità da cui proviene e verso cui si dirige.
Nonostante il Baphomet per come lo conosciamo sia una riscoperta abbastanza recente, la sua essenza originaria è di contro molto antica, profondamente connessa con il Sacro Femminino. È più che lecito pensare che tutte queste dee così simili possano rappresentare le diverse forme di un’unica divinità primigenia, una Signora oscura e splendente da cui, secondo la mia modesta opinione, deriva la stessa figura cristica nella sua veste più luciferina. Mi riferisco al fatto che lo stesso Yeshu'a concepito dal Cristianesimo e dagli Gnostici è nei fatti ritagliato su miti iniziatici ben più antichi, dove un eroe o una divinità incarnata offre la Sapienza all’essere umano, mostrando una via soteriologica fatta d’insegnamenti etici e spirituali. Cambiano le tradizioni ma per chiunque sappia scavare oltre la forma, compare sempre una medesima essenza e tale essenza è il Culto delle Origini, dove una Signora fu Prima Discesa e pertanto Prima Iniziatrice dei Suoi legittimi figli, del Suo Clade. E così furono Iniziatori anche i Suoi figli, portando avanti una Tradizione che ha subito nel tempo molte distorsioni e tentativi di soppressione, ma che nei fatti tutt’oggi non ha smesso di esistere e il Satanismo Originale ne è un esempio. Anche volendo restare entro i confini dello “storicamente corretto”, in barba alle mie visioni non per forza condivisibili, resta un dato di fatto che il primo esempio di storia iniziatica lo incontriamo proprio nell’antichissimo poema sumero La Discesa di Inanna negli Inferi, dove è proprio la Signora a fornire il primo esempio di segreto misterico celato dietro il mito. La Divinità che scende nelle Tenebre per poi risorgere è la base di numerosi culti solari susseguiti nel tempo, compreso quello del Cristo, e la prima figura a compiere tale viaggio che la storia conosca è proprio Inanna.
È bene però precisare che la Mater bafometica è ben oltre le discordie di genere e il concetto ivi riportato non va banalizzato per mettere la femmina in una posizione di suprematismo. La superiorità del singolo individuo è data dal suo valore, non certo dai suoi attributi sessuali. Femminile e maschile sono poli che nella corporalità si esprimono attraverso differenti forme genitali ed ormonali, ma da un punto di vista animico queste energie sono caratterizzate semplicemente da forze oppositive e complementari. L’energia femminile è attrattiva, quella maschile espansiva e l’androginia sta nel riequilibrare queste due parti, ma ciò non ha niente a che vedere con l’asessualità o l’ermafroditismo. Sia un entità maschile che femminile può essere detta androgina qualora abbia armonizzato queste due differenti energie, accedendo al Terzo Serpente, divenendo il Terzo Serpente. Se una divinità discesa nella carne assume come la natura biologica predispone fattezze maschili o femminili, detiene comunque dentro di sé l’androginia tipica dell’anima evoluta. Androgino è dunque un’immagine che trascende la mera sessualità.
Figura femminile connessa all’androginia e all’Iniziazione Misterica è poi senza dubbio la dea Mari, antica divinità basca di origine preindoeuropea che soleva abitare le caverne, considerate dai fedeli degli accessi all’Abisso, il mondo sotterraneo. Il suo nome significa semplicemente “Signora” ed era la divinità principale del pantheon basco. Nonostante le fattezze femminili, Mari si avvale anche della potenza maschile, come si può evincere dalle sue apparizioni zoomorfe, quali ad esempio il capro, il toro o anche il serpente/dragone. Queste teofanie nelle vesti di animali tipicamente connessi al virile, pur continuando ad essere descritta dai fedeli come Signora, portarono gli studiosi a interpretare Mari come una delle prime forme primordiali di deità androgina. Mari è considerata una divinità creatrice e distruttrice, come ogni altro aspetto della Mater anche Lei è osservata sia nel suo lato generoso e datore di vita che in quello terribile e apportatore di morte. Mari è caratterizzata da una solida etica che trasmette ai suoi devoti, odia la menzogna e le ingiustizie, ricoprendo pertanto anche il ruolo di sommo giudice divino. Oltre al caprone e al serpente le è sacro l’avvoltoio, il corvo e il montone, sopra il quale viene spesso rappresentata. Uno dei sui simboli è la falce infuocata e si dice che Ella spesso sia annunciata dall’arcobaleno, come abbiamo visto anche in Ayda-Wedo. Mari come Ayda aveva un compagno, il Dio infero Sugaar, anche Lui rappresentato come uomo-serpente, proprio come Damballa. Nonostante Mari preceda di molto la religione cattolica, con l’avvento del Cristianesimo il suo culto subì un forte rallentamento, anche se non è mai scomparso del tutto. Le leggende sul suo conto continuarono, sebbene vennero in parte alterate dalla cultura cristiana. Si dice ad esempio che la Dea fu partorita da una donna umana concupita dal Demonio, il quale a vent’anni tornò a riprendersela, facendola tornare a regnare nelle Tenebre. Questo mito non solo richiama alla nascita prodigiosa di un essere di origine divina disceso nella carne, ma ha anche una forte assonanza con la storia della nostrana Proserpina, La Kore divina rapita dal dio infero Ade. Particolarità di Mari è però il fatto che Ella stessa si dice rapisca talvolta esseri umani, soprattutto donne, per portarle nel suo regno ed iniziarle ai Misteri.
La sumera Inanna che discende agli Inferi come Cerere/Proserpina, l’egizia Hatmehit Prima fra i Pesci, la greca Demetra Signora dei Misteri, l’italica Mefite intermediari fra i mondi, la norrena Hel regina degli Inferi, l’indù Kali Bhairivi Signora della Via Sinistra, la misteriosa Dea basca Mari primordiale e selvatica. Dee ctonie, maestre, oscure portatrici della Sacra Fiamma, ne ritroviamo in ogni culto e Baphomet ne è l’archetipica emanazione. Ma nonostante la Prima fra i Pesci fu la Signora Eccelsa, molti sono stati i grandi Iniziatori Occulti, i nobili Figli della Satanica Stirpe, eredi dei nostri progenitori ancestrali. Molti furono i Pesci, Coloro che vennero dal’Acqua, i grandi Dei che Discesero per offrirci la Sapientia, padri e madri del nostro lignaggio. Ognuno di Loro ci ha offerto parte delle proprie conoscenze, camminando al nostro fianco in questa Terra e continuando a sussurrarci nell’ombra una volta risaliti nel Diamante. La bassa sapienza di Achamoth, la Sofia della Terra, è per ogni Satanide il mezzo per accedere ai segreti della Sofia ultraterrena. A differenza degli Gnostici, il Satanista non stigmatizza la materia, pur consapevole della sua caducità e di tutti i suoi limiti. Attraverso un percorso duro che fa della materia stessa la fucina alchemica in cui forgiare il proprio spirito, il Satanista diviene il fuoco umido che spezza gli involucri del fenomenico per corporizzare le energie dell’invisibile. In questo processo palingenetico di continua creazione e distruzione, Il Satanista comprende che l’esperienza terrena è il suo campo di addestramento, uno strumento di autoconoscenza, facendo della propria vita il rituale di evocazione di se stesso.
In questo rituale chiamato vita, la natura di Baphomet ritorna continuamente, si para davanti a noi proprio quando credevamo di essere al sicuro, di aver compreso tutto ciò che avevamo attorno, e di nuovo ci decapita, di nuovo sovverte ogni cosa, mutando in una nuova Porta di cui è custode e incarnazione, sfidandoci a superarla, a penetrarla ancora, o facendoci perire nella distruzione di quella precedente. L’Iniziazione Satanica è disseminata di continue ecpirosi e apocatastasi, e il Satanista in questo modo raffina se stesso, evolvendo sempre in una versione più pura di Sé. La decapitazione rituale, di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti, è paragonabile ad un taglio netto di quel cordone ombelicale che ci collega alle geometrie luminose del conosciuto, trascinandoci così nei reami dell’inesplorato e del mai ottenuto. La figura femminile, fin troppo spesso demonizzata dalle dottrine yahwehiane, incarna a pieno il taglio di questo cordone, spezzando con esso tutto le nostre certezze. Nella mitologia cristiana Eva è vista come la perfida donna che ha condannato l’uomo ad una vita di fatiche, ma nei fatti se lei non avesse disobbedito, se non avesse istigato l’uomo a fare altrettanto, egli non avrebbe mai sperimentato la vita, non avrebbe mai cominciato il suo viaggio. Adamo si sentiva al sicuro nel suo paradiso, senza problemi, senza inquietudini, ma anche senza Conoscenza. Eva, il Serpente, sono invece il dinamismo che spezza la stasi, sono il pugnale del Bagatto che squarcia il ventre del Matto uroborico. Decapitazione, taglio del cordone ombelicale, sventramento, tutte violente forme di separazione, una separazione necessaria per permettere all’Iniziato di conoscere nuove parti di se stesso.
Siamo giunti alla fine del nostro viaggio fra i mille volti del Baphomet, sviscerandone i segreti celati dietro i tanti miti, frammenti sparsi di un’essenza immutabile, eterna e oltre ogni nome. L’entità di cui però vi ho parlato non è solo leggenda e non è nemmeno solo un simbolo, né solo un archetipo. Non è solo “una forza” o “un’energia”, o altri termini da hippie intellettualoidi usati oggi per definire gli Dei. Questa divinità è reale, gli Dei sono reali, e non esisterà mai nessun Cammino fintanto che l’Iniziato non riuscirà a comprendere che su strade di fumo non si può camminare. Se si vuole percorrere un Sentiero si deve abbandonare l’eccessivo astrattismo e cominciare a osservare la realtà del Sacro nella sua immanenza, senza deformarne la natura per renderla più piacevole, tanto meno allontanandola da noi rendendola vaga e irraggiungibile. Baphomet è una maschera ma dietro ogni maschera si cela la Divinità, un Ente in cui entrare al fine di conoscerlo e conoscersi. Di generazione in generazione ha avuto luogo una staffetta infinita fra i Figli di Yahweh e i Figli di Satana, avversari spirituali, divisi da un’etica diversa, una natura diversa, una discendenza diversa, eppure uniti dall’intento comune di voler preservare la propria alleanza con il rispettivo Creatore. I figli dell’Oro hanno cercato in ogni modo possibile d’interrompere la staffetta dei Figli dell’Anima, strappandoci dalle mani il testimone della nostra Tradizione per ridarcene una versione corrotta che ci ha solo resi più confusi, più deboli e soli. Ma oltre la falsa luce gettataci costantemente negli occhi, esiste nell’ombra Qualcuno che non ha mai smesso di cantare, un canto antico che soltanto il sangue degli Eredi sa ancora sentire. E questa è la mia speranza per oggi e per il futuro, che oltre la confusione babelica generata da tutti questi venditori d’illusioni, vi sia ancora chi sa udire il Canto della Sirena, chi ancora ha il coraggio di cedere al fascino dell’inesplorato lasciandosi irretire dai sussurri dell’Ombra. Perché Lei è lì, Madre e Assassina, numinosa e letale, bellissima e terribile. Baphomet, Signora Eccelsa, l’Iniziatore Occulto che semina e falcia, che immerge, tinge e brucia.
Questo testo è il frutto di anni di studio e ricerca incentrata sull’essenza di Baphomet, ma soprattutto di totale immersione nella Sua energia. Ho attraversato i lati più oscuri della Mater, scoprendo ad ogni sfida tutto il suo buio ma anche tutta la sua gloriosa luce. Per Lei ogni giorno ho cantato, ho meditato, ho disegnato, ho costruito, e con fatica ho affrontato i miei limiti. Questo ha portato molti cambiamenti, alcuni dolorosi, niente è stato semplice, spesso persino spaventoso. Ciò che ora state leggendo è solo una sintesi della mia esperienza, un tributo a Lei e mi auguro uno spunto utile per alcuni di voi. E ora che dopo un anno esatto dall’inizio di questo testo, alle quattro del mattino, mi trovo a scrivere l’ultima frase, sento quasi salire una strana malinconia. Dentro di me sento però anche che il mio viaggio accanto a Baphomet non si è ancora concluso e con altrettanta forza sento che forse, per qualcuno di voi, proprio ora quel viaggio sta iniziando.
Jennifer Crepuscolo
Anno MMXX
.